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Intervista esclusiva a Sergej Baburin

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Sergej Baburin, rettore dell’Università Statale Russa del commercio e dell’economia, ex deputato della Duma di Stato della Federazione Russa, ex vice-presidente della Duma, attualmente presidente del comitato russo di solidarietà con i popoli della Libia e della Siria, ha rilasciato questa intervista esclusiva per la rivista Eurasia sui rapporti tra Italia e Russia e sulla guerra in Libia. L’intervista è stata raccolta da Antonio Grego a Mosca, il 5 giugno scorso

Antonio Grego – Può descriverci, secondo il suo punto di vista, la situazione politica attuale interna della Russia? Come giudica l’operato dell’attuale presidente Medvedev?

Sergei Baburin – Dmitry Medvedev è un uomo molto intelligente, ma purtroppo per essere il capo dello Stato, non basta avere solamente la mente. E lui ha fatto tutti gli stessi errori che commise Gorbaciov a suo tempo, in effetti ne è il degno successore. E la cosa più triste è che lui essendo il capo di Stato, non prendeva in considerazione gli appelli dei nostri partner del G8 per ripensare, sulla scorta dell’esperienza della crisi finanziaria mondiale, il ruolo dello Stato e rafforzare le funzioni sociali dello Stato.

Infatti il presidente Medvedev ed il suo staff rimangono preda delle illusioni liberali. Delle illusioni che in economia non dovrebbe esserci la presenza dello Stato e che l’economia è capace di svilupparsi da sola. Nel mondo si è già dimostrato il contrario. E la Russia ha già cominciato a non stare strategicamente al passo nella comprensione delle sfide del 21° secolo. Questo non porterà a nulla di buono né per Medvedev né per la Russia.

La situazione politica interna in Russia è molto allarmante. Perché l’elite, o per meglio dire la nomenclatura politica, si è staccata dalla realtà. Si librano nello spazio, senza sapere cosa sta succedendo alla maggioranza della popolazione. È proprio questo il motivo che rende i processi rivoluzionari praticamente inevitabili. E il destino di Medvedev nel migliore dei casi sarebbe una ripetizione del destino di Gorbaciov. Anche se non escludo che ora, durante la compagnia per le elezioni presidenziali, Putin semplicemente lo metterà da parte e ritornerà. O proverà a ritornare al suo posto.

A.G. – La novità politica più importante di questi mesi, la creazione del “fronte popolare panrusso” (Общероссийский народный фронт) ad opera del primo ministro Vladimir Putin, sembra voler chiudere con gli anni della presidenza Medvedev, caratterizzati da un tentativo di normalizzazione e occidentalizzazione della Russia a cui ha corrisposto una politica estera poco incisiva e remissiva nei confronti delle pretese occidentali. Secondo lei questo nuovo partito può essere una occasione di ritorno ad una politica di forza e di prestigio per la Russia oppure si tratta soltanto di una mossa elettorale per riguadagnare i consensi ed i gruppi di interessi che in questo periodo si sono coalizzati intorno alla figura del “liberale” Medvedev?

S.B. – L’idea del Fronte Popolare io la predico da due anni. E un anno e mezzo fa la stavo discutendo con il presidente del Consiglio della Federazione di allora, Sergei Mironov, leader del partito “Russia giusta”, e con il leader dei comunisti Gennadij Zyuganov.  Perché l’idea di Fronte Popolare presuppone l’unificazione delle masse popolari prive di potere politico, una larga alleanza per farle arrivare al potere e realizzare i loro ideali sociali.

Questa è la sostanza di qualsiasi fronte popolare. Perciò quando il Primo Ministro ha esortato a creare un Fronte popolare, negli ampi strati sociali questo ha destato stupore, anzi raggelamento. Stupore di chi non riesce a capire – ma che potere manca a quelli che creano il Fronte Popolare? Qual e’ il potere che vogliono prendere? Ce l’hanno già il potere, se si parla del partito “Russia Unita”. Se si parla del fatto che il partito “Russia Unita” ha deciso di attirare sostenitori… Già c’è un istituto di sostenitori di Russia Unita. Già dicevano fieramente che hanno milioni di sostenitori. Beh, diciamo che ora hanno deciso di fare tutto nel formato di una certa organizzazione, hanno chiamato questa organizzazione Fronte Popolare, ma non hanno risposto alla domanda – contro di chi è questo fronte?

Qualsiasi fronte popolare è contro il governo in carica. In Russia questo è stato, ad esempio, il Fronte di Salvezza Nazionale degli anni 92 – 93. E contro chi è rivolto questo fronte popolare panrusso di oggi? Nessuno ha risposto e non può rispondere a questa domanda. Bene, il raggelamento che questa iniziativa ha destato in quelli che si mobilitano c’è perché vengono invitate diverse persone e si dice: unitevi al Fronte Popolare se volete che vi vada tutto bene al lavoro. In questo modo si allineano in file regolari le varie società pubbliche, i cui capi sono già iscritti al partito Russia Unita.

Non molto tempo fa ho ricevuto una lettera dal presidente della Unione dei Rettori della città di Mosca, il Prof. Fedorov, in cui mi chiede come mi porrei nell’eventualità di un’adesione dell’Unione Russa dei Rettori al Fronte Popolare. Naturalmente, ho risposto in forma scritta che appoggio completamente l’adesione dell’Unione Russa dei Rettori al Fronte Popolare dopo l’uscita da quest’ultimo del partito di Russia Unita. Perché altrimenti è un assurdo. Partecipare all’assurdo io non lo voglio nemmeno per far compagnia. Di per sé, la creazione del Fronte Popolare non corrisponde in nessun modo ai processi di Medvedev, perché il Fronte Popolare assorbe tutti i devoti alle autorità. Il significato di un Fronte popolare così  consiste solo in una prova di lealtà: “Hai confermato la tua lealtà iscrivendoti al Fronte Popolare oppure no?”. Non può nemmeno diventare una fonte di una qualche nuova dirigenza politica, come in questo caso cercano di dire “si”, Russia Unita è un sindacato dei burocrati del nostro Paese che stanno al potere.

Ma, il Fronte Popolare cambia la situazione in questo sindacato? Niente affatto. Se dal Fronte Popolare saranno reclutati candidati deputati alla Duma di Stato, queste stesse persone sarebbero state nominate candidati deputati anche senza il Fronte Popolare dalla stessa Russia Unita o dai suoi satelliti. Inoltre, un appello alla fondazione del Fronte popolare non poteva svolgere il ruolo di distrarre l’attenzione pubblica. Nessuno nella società ha guardato seriamente a questa organizzazione.

A.G. – Questo significa che Putin ha creato il Fronte Popolare per  vincere alle elezioni?

S.B. – Per fare qualcosa di nuovo, perché sia Putin che Medvedev alla maggioranza degli elettori nel Paese sono venuti a noia. Russia Unita desta  bruciore di stomaco, e questo si rileva nel fatto che la gente non va alle elezioni. Purtroppo, i massimi dirigenti non vogliono riflettere su questo processo, e non prestano attenzione al fatto che l’astensione per protesta alle elezioni sia già pericolosa. Il Fronte Popolare morirà silenziosamente, perché non si evolverà in nessun partito, non si evolverà semplicemente. Tranne per il fatto che Russia Unita cambia nome in Fronte Popolare.

A.G. – Il cosiddetto “reset” dei rapporti bilaterali tra USA e Russia, fortemente voluto da Obama, dopo un avvio promettente (firma del nuovo trattato START) si sta arenando a causa dell’ostinazione degli USA nella prosecuzione dell’allestimento dello “scudo antimissile” in Europa e nel supporto incondizionato di USA e NATO alle rivendicazioni della Georgia. Qual è la sua opinione in merito? Quale ritiene sarà la reazione russa al dispiegamento dello “scudo antimissile”, in particolare nelle zone dei “conflitti congelati” (Kosovo e Transnistria)?

S.B. – Credo che la questione del reset si bloccherà ora alle elezioni presidenziali del Presidente della Federazione Russa, perché gli americani hanno fatto capire diverse volte in maniera univoca che non vogliono vedere il ritorno alla carica di presidente di Vladimir Putin, che vedono per questa carica solamente Medvedev. Questo non accadrà. E quindi se gli statunitensi rivolgeranno l’attenzione solo su questo criterio, allora sarà un vicolo cieco totale e non ci sarà nessun “reset”. Se appoggeranno le pretese dei nostri confinanti, per esempio dei polacchi, con le loro speculazioni sull’argomento Katyn; della Georgia con le sue dichiarazioni che affermano che la Russia ha occupato l’Ossezia del Sud e l’Abkhazia, allora sono sicuro che il periodo dell’approccio liberale verso di loro dal lato della politica estera russa stia finendo. L’Abkhazia e l’Ossezia del Sud sono riconosciuti come Stati indipendenti e non è possibile invertire il processo. Ma per quanto riguarda tutto il  resto… Se gli Stati Uniti vivranno nel passato, allora sono condannati ad entrare nel periodo del fallimento strategico. Soprattutto tenendo conto del fatto che essi adesso hanno intenzione di far sprofondare l’Europa nel caos. Non riesco a spiegare in altro modo la destabilizzazione del Mediterraneo che hanno prodotto i nordamericani. Quindi gli avvenimenti in Tunisia, come pure in Egitto, e in Libia, e quello che avviene intorno alla Siria, non sono certo solo gli intrighi di Sarkozy. A Sarkozy si può attribuire, al massimo, solo la Libia. Lui ha fatto sparire le tracce della sua  campagna elettorale, e cerca di farle sparire anche adesso. Ma per il resto è un colpo molto potente diretto alla destabilizzazione del Mediterraneo. Gli USA, tuttavia, non si sono resi conto che abbattendo i loro alleati in Tunisia e in Egitto, possono ottenere come contraccolpo il ritorno del mondo arabo alle posizioni anti-americane, cosa che già avviene oggi, il rafforzamento del fondamentalismo islamico, il potenziamento della presenza dell’Iran, soprattutto all’interno della Siria. Così richiamo la vostra attenzione al fatto che nemmeno gli statunitensi sono omogenei. La politica interna nazionale degli Stati Uniti è costituita da più centri di potere che l’immagine esterna non mostra. E che sia stato inflitto un colpo contro i sostenitori potenziali del Partito Repubblicano è palese. Obama non ha nulla da vantarsi. Dopo aver ricevuto il suo premio Nobel, non ha presentato le prove che sia un pacificatore. Non ha ritirato le truppe né dall’Afghanistan né dall’Iraq. Non ha concluso nessuna guerra. Ne ha scatenata una nuova. Pertanto adesso negli Stati Uniti la situazione intorno la guerra statunitense in Libia è molto difficile.

A.G. – Penso che gli USA si stiano comportando in maniera molto scaltra. Da un lato rassicurano la Russia che è tutto a posto, tuttavia, dall’altro lato, continuano il programma di scudo missilistico in Europa…

S.B. – Fate attenzione che in Polonia, quando si iniziò a rifiutare di partecipare alla realizzazione degli elementi dello scudo anti-missile sul territorio polacco, subito, in un misterioso incidente aereo rimase ucciso tutto il comando supremo dell’esercito, che si era schierato contro gli interessi degli USA. Si tratta di quei 28 generali che agivano contro il dispiegamento dello scudo missilistico statunitense. Poi, forse, per riequilibrare, hanno eliminato in un incidente aereo vicino a Smolensk anche i principali politici anti-russi, ma questo era già in modo chiaro colpa dei piloti e di quelli che gli hanno dato  l’ordine di atterrare nella nebbia. Ma dopo questo fatto Donald Tusk (primo ministro polacco, n.d.t.), che aveva la possibilità di continuare la sua linea di atteggiamento critico al dispiegamento degli statunitensi e il ministro degli esteri, che fino a questo momento era considerato scettico, infine dopo consultazioni con gli USA hanno cambiato il loro punto di vista e hanno accettato il punto di vista di Washington rendendolo il proprio. E attualmente, appunto, ci sono tre questioni che secondo il mio punto di vista a lungo termine destabilizzeranno la situazione in Europa: il problema dello scudo antimissile statunitense, il il problema del Kosovo, che è una minaccia grave per la stabilità europea, e la Transnistria, come viene attualmente interpretata a Bruxelles.

Non molto tempo fa sono stato a Bruxelles, e mi sono sorpreso del fatto che in tutte le riunioni, presso l’Unione europea e il Parlamento europeo e presso la NATO la questione della Transnistria  è diventata di primo piano. Proprio la  regolarizzazione in Transnistria. E non in Moldavia, ma precisamente in Transnistria. Ho dovuto dire, avendo preso lì la parola, che i termini del discorso erano sbagliati. La Repubblica Moldava di Transnistria è uno Stato. Ci sono molti che non vogliono  riconoscere la formazione di questo Stato, ma nel mondo è sempre così – c’è sempre qualcuno non vuole riconoscere qualcosa. E nello stesso tempo non è venuto fuori di propria iniziativa. È sorto quando nel 1990, l’amministrazione della Moldavia ripudiò la legge di istituzione della Repubblica Socialista Sovietica di Moldavia all’interno dell’URSS, in base alla quale si erano uniti due territori. L’ex territorio occupato dalla Romania (è il territorio dell’attuale della Moldavia) e il territorio che non è mai stato sotto i romeni, e che faceva parte dell’URSS come Repubblica Autonoma di Moldavia, l’attuale Transnistria.

Loro stessi si sono, in questo modo, separati dalla Transnistria, poi si sono risvegliati e hanno deciso di riprendersela. E così iniziò il conflitto armato. Legalmente, dal punto di vista del diritto internazionale, la Transnistria esiste per legge. Questo non lo vogliono ammettere, solo perché il governo della Transnistria è orientato verso la Russia. Dopo tutto, se la leadership della Transnistria avesse dichiarato che è pronta ad aderire all’Unione Europea senza condizioni, ma come uno stato indipendente, l’avrebbero ammessa prima ancora della Repubblica di Moldavia. Ma ora per la Russia non c’è interesse né morale né politico a tradire la Transnistria. E per gli occidentali questa è una questione fondamentale. Qui sono sono dispiegate le truppe russe, qui si trova una popolazione che sostiene la Russia, è in gran parte sono cittadini della Federazione Russa. E impediscono alla Moldavia di essere assorbita dalla Romania. Questo nodo per l’Europa c’è e ci sarà. E se gli europei non si rendono conto che è necessario accettare lo status quo e riconoscere la Repubblica di Moldavia nei suoi confini attuali, e la Transnistria all’interno dei suoi confini, allora saremo in un vicolo cieco. E per la Russia, in futuro, spero si formi una sorta di unione, come la stessa unione doganale, che includerà la Russia, l’Ucraina, la Transnistria e, magari anche la Moldavia. Allora ecco questo spazio economico unico continuerà.

A.G. – Le difficoltà del governo di Silvio Berlusconi, sia in politica interna con il rafforzamento dell’opposizione e le sconfitte elettorali, sia in politica estera con una sostanziale rassegnazione verso decisioni prese oltreoceano che stona con la fase di protagonismo che aveva caratterizzato gli ultimi anni (asse Putin-Berlusconi-Erdogan) sono la spia di un processo di degenerazione e irreversibile decadenza sia per l’Italia che per l’Europa. In particolare la guerra in Libia, che l’Italia ha subito con un atteggiamento di totale impotenza, pare che abbia messo la pietra definitiva ad ogni tentativo di costruire una politica estera parzialmente autonoma dai poteri forti che tradizionalmente controllano l’Europa. La debolezza, per non dire “inaffidabilità”, di quest’ultima fase del governo Berlusconi ha minato i rapporti tra Italia e Russia? Come vede lo stato attuale dei rapporti tra i nostri due Paesi?

S.B. – Da un lato mi fa piacere che sulla base dell’asse Putin-Berlusconi, si rafforzino i contatti tra la Russia e l’Italia. Dall’altra parte tutti noi ci preoccupiamo che quando questo asse crollerà oppure cesserà lentamente di esistere, e ciò sicuramente avverrà, allora si rifletterà negativamente sui nostri rapporti, provocando un forte contraccolpo. Perché è un vero peccato che i rapporti personali tra Putin e Berlusconi siano un fattore dominante della nostra cooperazione. La collaborazione tra la Russia e l’Italia dovrebbe essere posta al di sopra e non dipendere né dalle amicizie dei politici e né da qualcun altro.

A.G. – Ma in realtà questo asse già non esiste più, perché la politica di Berlusconi è attualmente completamente cambiata. Dopo aver perso le ultime elezioni amministrative e soprattutto dopo l’inizio della guerra in Libia che ha visto il  clamoroso tradimento dei patti con Gheddafi. Si nota che anche i rapporti tra Italia e Russia non sono più così intensi come prima. Perché lui probabilmente teme di nuovo una reazione degli USA a causa di questa politica indipendente tenuta in passato, quindi si e’ allineato al diktat d’oltreoceano… l’Italia certamente non voleva la guerra in Libia.

S.B. – Berlusconi ha cercato di prendere una posizione neutrale. Sono stato in Libia oltre 10 anni fa e ho visto come in quel periodo iniziava  a crescere la cooperazione economica tra Italia e Libia. Ora io sono il presidente del comitato di solidarietà economica con i popoli della Libia e della Siria. E penso che gli europei, acconsentendo alla volontà degli americani e scatenando l’aggressione contro la Libia, naturalmente non solo hanno inflitto un colpo al diritto internazionale, travalicando la risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, ma con le proprie mani hanno indebolito la stabilità dell’ordine europeo. La stabilità del sistema di sicurezza economica e politica.

Mi dispiace che la Russia effettivamente partecipi a tutto questo, così come l’Italia. La posizione della Russia in Libia è molto passiva e mal ponderata. Perché Gheddafi è un leader nazionale, sostenuto dalla maggioranza della popolazione. Le accuse che gli vengono avanzate oggi sono le accuse contro un capo che ha cercato di sedare disordini di massa. Dopotutto, non ci sono contro di lui altre accuse. Viene incolpato dell’uso della forza contro coloro che hanno usato la forza per prendere il potere. È una situazione assurda. Questo è un modo per incolpare qualsiasi capo di Stato. Inoltre, è un grave precedente, perché se in qualche posto un governante userà la forza contro una ribellione sollevatasi nello Stato, allora lo si potrebbe bombardare da fuori per impedirgli di toccare l’opposizione e farlo arrendere ai ribelli. Ecco dove sta la logica. Ma spero davvero che non solamente la Libia riuscirà a tenersi in piedi ma che anche Gheddafi ce la faccia. E che l’ordine di arresto del tribunale penale internazionale, assolutamente contrario al diritto internazionale e alla legge, sia annullato come un errore portando scuse ufficiali.

In primo luogo, loro non possono praticamente arrestarlo. In secondo luogo, il mandato d’arresto di Gheddafi, di suo figlio e del terzo dirigente libico, tutti questi ordini non sono legittimi perché secondo la statuto della Corte penale internazionale, la giurisdizione si applica solo a quegli Stati che hanno firmato e ratificato lo statuto. Ma la Libia non fa parte della Corte penale internazionale. Quindi sono convinto che oggi in Libia stanno perdendo molto seriamente sia l’Italia che la Russia. Gli statunitensi hanno  coinvolto tutti mentre loro si ritirano. E poi si metteranno da parte e diranno: «pensateci voi!»

A.G. – Se Gheddafi non sarà ucciso, ciò significherebbe che l’America ha perso…

S.B. – Allo stesso modo, era chiaro che gli statunitensi non avrebbero permesso a Slobodan Milosevic di uscire vivo dal Tribunale dell’Aja che con la sua sola esistenza ricordava costantemente che, nel 1999, non è stata la Jugoslavia a violare il diritto internazionale. Ma è la coalizione della NATO che ha bombardato la Jugoslavia il vero criminale. Allo stesso modo, adesso non intendono rimettere in libertà dal Tribunale dell’Aia, l’ex vice primo ministro serbo e politico Vojislav Seselj, sebbene le accuse rivoltegli non sono effettivamente in grado di dimostrare nulla contro di lui. E sono d’accordo con Lei che la vittoria di Gheddafi è un disastro per gli Stati Uniti. Anche se cerchiamo di chiamare le cose col loro nome: la vittoria morale di Gheddafi si è in pratica già verificata. Non lo hanno ancora potuto uccidere. Inoltre, le tribù che abitano in Libia si sono mobilitate intorno a lui e lo sostengono. Infatti ora l’unica speranza di Washington e Bruxelles è proprio l’omicidio del leader libico e non semplicemente il suo rovesciamento.


Antonio Grego

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Война в Ливии и отношения между Италией и Россией: интервью Сергея Бабурина журналу «Евразия» (Eurasia)

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Война в Ливии и отношения между Италией и Россией: интервью Сергея Бабурина журналу «Евразия» (Eurasia)

Сергей Николаевич Бабурин – российский политический и государственный деятель. Ректор Российского государственного торгово-экономического университета, депутат Государственной Думы РФ четвертого созыва, бывший вице-спикер, доктор наук. Бабурин создан Российский комитет солидарности с народами Ливии и Сирии.

 

Москва – 05/06/2011

 

Антонио Грего – Не могли бы Вы нам описать, согласно Вашей точке зрения, современную внутреннюю политическую ситуацию в России? Как Вы могли бы оценить проделанную нынешним президентом – Дмитрием Медведевым работу на его посту?

 

Сергей Николаевич Бабурин – Д. А. Медведев – очень умный человек, но к сожалению для того, чтобы быть Главой государства, одного ума мало. А он допустил все ошибки, которые допустил в свое время Горбачев, и по-большому счету является его продолжателем. И самое печальное то, что он, как Глава государства, не прислушивался даже к призывам наших партнеров в Восьмерке на опыте мирового финансового кризиса переосмыслить роль государства и укрепить социальную функцию Государства.

 

И президент Медведев, и его команда остаются в плену либеральных иллюзий. Иллюзий того, что в экономике не должно быть государственного присутствия, что экономика сама по себе способна развиваться. В мире уже доказано обратное. И Россия уже начинает стратегически отставать в понимании вызовов 21 века. Это не приведет ни к чему хорошему ни Медведева, ни Россию.

 

Внутриполитическая ситуация в России очень тревожная. Потому что элита, точнее политическая номенклатура, оторвались от реальности. Они парят в космосе, не понимая, что происходит в основной массе населения. Именно поэтому революционные процессы становятся практически неизбежными. И судьба у Медведева в лучшем случае будет повторением судьбы Горбачева. Хотя я не исключаю, что сейчас в период президентской компании Путин просто отставит его в сторону и вернется. Или попытается вернуться на свое место.

 

А.Г. – Самая важная политическая новость этих месяцев – создание “народного фронта ” (Общероссийского народного фронта) под управлением премьер министра Владимира Путина. Похоже его создание было на правлено на разрушение достижений лет президентства Медведева, характеризующихся попытками нормализации и европеизации России, которым соответствовала не очень сильная внешняя политика, послушная требованиям Запада. По Вашему мнению, эта новая партия может быть способом возврата России к  политике силы и внешней политике престижа или же ее образование было связано лишь с избирательной кампанией, чтобы снова получить поддержку заинтересованных  групп, которые в этот период соединились вокруг «либеральной» фигуры Медведева?

 

С.Н.Б. – Идею народного фронта я проповедую уже два года. И полтора года тому назад обсуждал ее с тогдашним председателем Совета Федерации Мироновым, лидером партии Справедливая Россия и с лидером  коммунистов Зюгановым. Потому что Народный фронт предполагает объединение лишенных политических возможностей народных масс, широкое объединение для того, чтобы они пришли к власти и осуществили свои социальные идеалы.

 

Это – суть любого народного фронта. Поэтому, когда председатель правительства призвал создавать Народный фронт, в широких слоях общества это вызвало либо изумление, либо столбняк. Изумление у тех, кто не может понять – а какой власти не хватает тем, кто создает Народный фронт? Какую власть они хотят взять? Они и так ее имеют, если говорить о партии Единая Россия. Если говорить о том, что партия Единая Россия решила привлечь сторонников…У нее уже есть институт сторонников. Они уже гордо говорили, что у них несколько миллионов сторонников. Ну, допустим, что они теперь решили это все сделать в формате какой-то одной организации, назвали эту организацию Нородным фронтом, но они так и не ответили на вопрос – а против кого этот фронт?

 

Любой народный фронт –  против существующей власти. В России это был, например, фронт Национального спасения в 92 – 93 году. А против кого направлен вот этот сегодняшний Общероссийский Народный фронт​? Никто не ответил и не может ответить на этот вопрос. Ну а столбняк эта инициатива вызвала у тех, кто в этот фронт мобилизуется, потому что приглашают самых разных людей и говорят : вступайте в Народный фронт, если хотите, чтобы было все хорошо по работе.  Туда стройными рядами идут различные общественные организации, лидеры которых уже состоят, как правило в Единой России.

Ни так давно я получил письмо от председателя Московского Городского Союза ректоров профессора  Федорова с вопросом о том, как я отношусь к вступлению Российского Союза Ректоров в Народный фронт. Я, конечно, ответил письменно, что я целиком и полностью поддерживаю вступление Российского Союза Ректоров в Народный Фронт после выхода из него партии Единая Россия. Потому что иначе – это абсурд. Участвовать в абсурде я не хочу даже за компанию. Само по себе создание Народного Фронта никак не корреспондирует с процессами Медведева, потому что Народный Фронт поглощает всех лояльных к власти. Смысл этого такого Народного фронта заключается только в проверке на лояльность – “ты подтвердил свою лояльность, вступив в Народный Фронт или нет”? Он даже не может стать каким-то источником новых кадров, как тут они пытаются сказать, что “да”, Единая Россия – это профсоюз бюрократов в нашей стране, которые при власти. Но что, Народный фронт меняет ситуацию в этом профсоюзе? Ничего подобного. Если из Народного фронта они будут рекрутировать кандидатов в депутаты Государственной Думы, так ведь эти же люди были выдвинуты ими кандидатами в депутаты и без всякого Народного фронта от той же Единой России или ее сателлитов.

Более того, призыв к созданию Народного Фронта не смог сыграть роли отвлечения общественного  внимания. Никто в обществе серьезно на эту организацию не посмотрел.

 

А.Г. – Значит ли это, что Путин создал Народный Фронт, чтобы победить на выборах?

 

С.Н.Б. – Чтобы сделать что-то новое, потому что и Путин, и Медведев большинству избирателей в стране уже надоели. Единая Россия вызывает изжогу, что проявляется в том, что люди не ходят на выборы. К сожалению высшие руководители не хотят задуматься над этим процессом, и не обращают внимание на то, что протестное не участие в выборах – это уже опасно. Народный Фронт тихо умрет, потому что он не перерастет ни в какую партию, не перерастет. Ну разве что Единая Россия переименует себя в Народный Фронт.

 

А.Г. – так называемая «перезагрузка» двусторонних отношений между США и Россией, особенно сильно желаемая Обамой, после многообещающего начала (подписание нового договора старт) — почти остановилась из-за упрямства США в продолжении подготовки системы “противоракетного щита” в Европе и в безусловной поддержке США и НАТО требований Грузии. Каково ваше мнение по данному вопросу? Какой вы считаете будет  реакция  России на развертывание “противоракетного щита”, главным образом в зонах “замороженных конфликтов” (Косово и Приднестровье)?

 

С.Н.Б. – Я  думаю вопрос перезагрузки споткнется сейчас на президентских выборах президента Российской федерации, потому что американцы несколько раз однозначно давали понять, что они не хотят видеть возвращения на президентский пост Путина, что они видят на президентском посту только  Медведева.. Этого не будет. И поэтому, если только на этот критерий американцы будут обращать внимание, это будет полный тупик и ни какой перезагрузки.  Если они будут поддерживать претензии наших соседей к России , например поляков, с их спекуляцией на тему Катыни; Грузии, с их заявлениями, что Россия оккупировала Абхазию и Южную Осетию, то я уверен, что тот период либерального поддакивания им со стороны Российской  внешней политики  заканчивается. Абхазия и южная Осетия признаны независимыми и повернуть вспять это не возможно. Ну а во  всем остальном… Если Соединенные Штаты будут жить в прошлом, то они обречены, что войдут в период стратегического провала. Особенно с учетом того, что они сейчас рассчитывают погрузить и Европу в хаос. Я ничем другим не объясняю дестабилизацию  Средиземноморья, которая осуществлена американцами. Ибо и события в Тунисе, и события в Египте, и события в Ливии, и вокруг Сирии,  это все не только происки Саркози. На Саркози можно списать только Ливию. Он заметал следы своей предвыборной компании, и пытается заметать их сейчас. А во всем остальном это очень сильный удар, направленный на  дестабилизацию Средиземноморья. Американцы, правда, не учли, что сваливая своих сторонников в Тунисе или Египте, они могут получить откат в арабском мире на антиамериканские позиции, что и происходит сейчас, усиление исламского фундаментализма, усиление присутствия Ирана, особенно во внутрисирийской позиции. Так что обращаю ваше внимание, что американцы тоже не однородны. Американская внутренняя политика имеет гораздо больше центров власти, чем внешнеполитические картинки, которые мы видим. И то, что наносился удар против потенциальных сторонников республиканской партии, это однозначно. Обаме нечем похвастать. Получив свою нобелевскую премию, он так и не предъявил доказательства того, что он является миротворцем. Он не вывел войска ни из Афганистана, ни из Ирака. Он не закончил ни одной войны. Он развязал новую. Поэтому в США сейчас очень сложная ситуация вокруг войны американцев в Ливии.

 

А.Г. – Мне кажется, что американцы очень хитрые люди. По их словам у них всегда все в порядке. Но тем не менее, они продолжают программу противоракетного щита…

 

С.Н.Б. – Обратите внимания, что в Польше, когда стало склоняться к отказу от участия в размещении элементов противоракетного щита на территории Польши, во-первых, в загадочной авиакатастрофе погибло все командование, которое выступало против Америки. Это те 28 генералов, которые выступали против размещения американского щита. Потом, может быть, для равновесия, под Смоленском грохнулись и главные антироссийские политики, но это уже была в чистом виде вина пилотов и тех, кто дал им команду садиться в туман. Но после этого Дональд Туск, имея возможность продолжить свою линию критического отношения к размещению американцев и министр иностранных дел, который слыл до этого скептиком, они ведь после консультаций с американцами изменили точку зрения и приняли точку зрения Вашингтона, сделав ее своей.

 

И на сегодняшний день, конечно же, есть три вопроса, которые на мой взгляд долговременно дестабилизируют ситуацию в Европе. Это проблема американского ПРО, это проблема Косово, которая является очень серьезной занозой для европейской стабильности, и это Приднестровье, как это сейчас интерпретируется в Брюсселе. Я не так давно был в Брюсселе и удивился, насколько во всех встречах, и в Евросоюзе, и в Европарламенте, и в НАТО тема Приднестровья стала выступать на первый план. Урегулирование в Приднестровье. Причем ни  в Молдове, а именно в  Приднестровье. Мне пришлось, выступая там, сказать, что акценты неверные. Приднестровская  Молдавская Республика – это государство. Там многие не желают признавать возникновение этого государства, но в Мире всегда так – кто-то чего-то не признает.  Причем оно возникло не по своей инициативе. Оно возникло, когда в 1990 году руководство Молдовы денонсировало закон о создании Молдавской Советской Социалистической Республики в составе СССР, по которому объединили две территории. Бывшую территорию, оккупированную Румынией (это территория нынешней Молдовы) и территорию, которая никогда не состояла под Румынами, и была в составе СССР как Молдавская автономная республика, нынешнее Приднестровье. Они сами отказались от Приднестровья, потом спохватились и решили его захватить. И начался вооруженный конфликт. То есть юридически, с точки зрения международного права, Приднестровье существует законно. Этого не хотят признать,только потому, что руководство Приднестровья ориентируется на Россию. Ведь если бы руководство Приднестровья заявило, что готово вступить в Евросоюз безоговорочно, но как самостоятельное государство, его бы приняли, даже раньше, чем Молдову.

 

Но сейчас Россия ни моральных ни политических интересов предавать Приднестровье не имеет. А для западников – это ключевой вопрос. Тут размещаются Российские войска, размещается население, которое выступает про-российски, является во многом гражданами Российской Федерации. И препятствуют тому, чтобы Молдова была поглощена Румынией. Этот узел для Европы был и будет. И если Европейцы не поймут, что нужно принимать статус кво и признавать Молдову в ее сегодняшних границах, а Приднестровье в его границах, то мы будем в тупике. А для России в перспективе, я надеюсь, будет формироваться некое объединение – тот же таможенный союз, куда войдет и Россия, и Украина, и Приднестровье, а может быть и Молдова.

Тогда вот это единое экономическое пространство – оно сохранится.

 

А.Г. – Трудности правительства Сильвио Берлускони, как во внутренней политике, с усилением оппозиции и поражениями на выборах, так и во внешней политике, с существенными уступками решениям из-за океана, действия которого противоречат предыдущим этапам итальянской политической жизни – чем  и характеризовались последние годы его работы (Ось Путин-Берлускони-Эрдоган). Все это является тайным оружием процесса вырождения и безвозвратного разрушения как для Италии, так и для Европы. Главным образом война в Ливии, в которой Италия продемонстрировала свое полное бессилие, кажется, что она поставила окончательную точку в попытках построить частично независимую от влияний лобби внешнюю политику, под влиянием которых традиционно находится Европа. Слабость, чтобы не сказать “ненадежность” этой последней фазы правительства Берлускони подорвала отношения между Италией и Россией? Как Вы видите нынешнее состояние отношений между нашими двумя странами?

 

С одной стороны я рад, что опираясь на ось Путин-Берлускони, крепнут какие-то контакты между Россией и Италией. С другой стороны мы все опасаемся, что когда эта ось рухнет или спокойно прекратит свое существование, а это произойдет, то это скажется на наших отношениях, вызовет волну отката.  Потому что очень жаль, что личные отношения Путина и Берлускони доминируют как фактор нашего сотрудничества. Сотрудничество России и Италии должно стоять выше и не зависеть ни от любвеобильных политиков, и ни от кого другого.

 

А.Г. – Но в реальности эта ось уже не существует, потому что политика Берлускони в настоящее время полностью поменялась.  Проиграв последние выборы, и особенно после начала войны в Ливии, он совершил свою сенсационную измену Каддафи. Заметно, что отношения между Италией и Россией сейчас ни такие насыщенные, как раньше. Потому что Берлускони, возможно, снова боится реакции США по причине этой независимой политики, которой Италия следовала в пошлом. Поэтому он сообразовал свои действия с американским диктатом… Но Италия, конечно же, не хотела войны в Ливии.

 

С.Н.Б. – Берлускони попытался занять нейтральную позицию. Я был в Ливии больше 10 лет назад и видел, как в то время начало нарастать экономическое сотрудничество между Италией и Ливией. Сейчас я являюсь председателем комитета экономической солидарности с народами Ливии и Сирии. И считаю, что европейцы, пойдя на поводу у американцев и развязав агрессию против Ливии, конечно не просто нанесли удар по международному праву, извратив резолюцию совета безопасности ООН, они своими руками стали расшатывать стабильность европейского порядка. Стабильность экономической и политической системы безопасности.

 

Я сожалею, что Россия фактически в этом принимает участие, как и Италия. Что позиция России по Ливии очень пассивна и непродумана. Потому что Каддафи – национальный лидер, которого поддерживает большинство населения. Обвинения, которые к нему предъявляются сегодня – это обвинения к руководителю, который пресек массовые беспорядки. Ведь к нему нет обвинений более ранних. Его обвиняют, что он применил силу против тех, кто применил силу по захвату власти. Абсурдная ситуация. Это так можно обвинить любого главу государства. И более того, это серьезный прецедент, что если где-то глава государства будет применять силу против мятежа поднятого в государстве, то можно будет извне его побомбить, чтобы он не трогал оппозицию и сдался на милость мятежников. Вот ведь какая логика. Но я очень надеюсь, что не просто Ливия устоит, но и Каддафи устоит. И что абсолютно не соответствующие закону и статусу международного уголовного суда решения об ордере на его арест будут отменены как ошибочные с принесением извинений.

 

Во-первых, они не могут арестовать его фактически. Во-вторых, ордер на арест и Каддафи, и его сына, и третьего ливийского руководителя – все эти ордера не законны, потому что даже по статуту международного уголовного суда, юрисдикция  распространяется только на те государства, которые подписали и ратифицировали этот статут. А Ливия не является участником международного уголовного суда. Так что я убежден, что сегодня в Ливии очень сильно поигрывают и Италия, и Россия. Американцы всех втянули, а сами устранились. А потом сами отойдут в сторону – расхлебывайте как хотите.

 

А.Г. – Если Каддафи не будет убит, это будет означать, что Америка проиграла…

 

С.Н.Б. – Точно также было понятно, что американцы не допустят выхода живым из Гаагского Трибунала Слободана Милошивеча, который своим существованием постоянно намекал, что в 1999 году не Югославия нарушила международное право. А та коалиция НАТО, которая бомбила Югославию, является преступной. Точно также сейчас они не хотят выпускать из Гаагского трибунала бывшего сербского вице-премьера и политика Воиcлава Шешеля, хотя обвинения против него фактически доказать ничего не смогли. И я с Вами согласен, что победа Каддафи – это катастрофа для Соединенных Штатов Америки. Хотя давайте называть вещи своими именами – моральная победа Каддафи – она практически уже произошла. Его не смогли уничтожить мгновенно. Более того, племена, которые населяют  в Ливию, сплотились вокруг него. Действительно, сейчас вся надежда для Вашингтона и Брюсселя в убийстве ливийского лидера, а не в его свержении.

Антонио Грего

журнал «Евразия» (Италия)

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Libia: Réseau Voltaire denuncia il tentativo dei ribelli libici di arrestare il giornalista Thierry Meyssan

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Fonte: http://www.voltairenet.org/Le-Reseau-Voltaire-denonce-la

Il sito di analisi e informazione Réseau Voltaire denuncia il tentativo dei ribelli libici di arrestare il giornalista Thierry Meyssan

25 agosto 2011, ore : 15 :25

I giornalisti stranieri bloccati da domenica scorsa all’interno dell’Hotel Rixos di Tripoli sono stati evacuati dalla Croce Rossa Internazionale, ieri, mercoledì 24 agosto alle ore 17:00.

Tra il gruppo di giornalisti stranieri si trovavano anche i quattro collaboratori del Réseau Voltaire: Thierry Meyssan, Mahdi Darius Nazemroaya, Mathieu Ozanon et Julien Teil.

Tuttavia, appena i giornalisti sono usciti dall’Hotel Rixos, alcuni ribelli hanno tentato di arrestare Thierry Meyssan, noto per i suoi articoli denuncianti i crimini della NATO. La Croce Rossa Internazionale (CRI) ha impedito l’arresto.

I giornalisti sono stati condotti in un altro albergo, senza più la protezione della CRI

I giornalisti non sono stati in grado di raggiungere l’imbarcazione dell’Organizzazione Internazionale per i Migranti (OIM) che avrebbe dovuto portarli a Malta.

Lo staff del Réseau Voltaire è seriamente preoccupato per l’attitudine dei ribelli riguardo ai propri giornalisti. Il Réseau Voltaire lancia un appello alla comunità internazionale affinché i suoi collaboratori siano protetti e possano lasciare la Libia sani e salvi.

Thierry Meyssan è un cittadino francese residente in Libano. È iscritto al consolato di Beiruth. Giornalista da oltre venticinque anni, ha scritto per testate arabe, sudamericane e russe, tra cui Odnako (Russia) o La Jornada (Messico). È autore di numerose opere di politica internazionale e collabora con diverse emittenti radiotelevisive, tra cui Russia Today, Telesur, Press TV.  È presidente e fondatore del Réseau Voltaire, rassegna indipendente di politica internazionale.

Mahdi Darius Nazemroaya è un cittadino canadese, attualmente corrispondente a Tripoli. Giornalista indipendente, ha pubblicato e rilasciato interviste a diversi media, tra cui Russia Today, Press TV, Al Jazeera, Pacifica KPFA, Global Research, China Life Magazine. Ha pubblicato anche numerosi articoli nel Réseau Voltaire.

Anche i giornalisti Mathieu Ozanon e Julien Teil scrivono per il Réseau Voltaire.

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Daniele Scalea: “In Libia la guerra proseguirà ancora a lungo”

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Fonte: “Agenzia Stampa Italia

 

In Libia la guerra proseguirà ancora a lungo”

Fabio Polese intervista Daniele Scalea

(ASI) Agenzia Stampa Italia ha incontrato Daniele Scalea, segretario scientifico dell’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG), redattore della rivista di studi geopolitici Eurasia, autore de “La Sfida Totale” e co-autore, insieme a Pietro Longo, di “Capire le rivolte arabe”.

E’ sempre più difficile ottenere notizie indipendenti su quello che sta succedendo in Libia. I media mainstream rimbalzano la notizia di una Libia liberata dal Rais Muhammar Gheddafi. Cosa sta succedendo e chi c’è dietro questa rivolta?

Sta succedendo che, dopo l’assassinio del generale Younes (comandante militare del CNT) da parte degli estremisti islamici, il fronte dei ribelli si è spezzato. La NATO, nel timore che la missione si concludesse con un clamoroso insuccesso, ha preso in mano la situazione e, con l’ausilio di ribelli islamisti in loco ma principalmente servendosi delle sue forze speciali, di mercenari stranieri e d’intensissimi bombardamenti aerei, è riuscita a conquistare Tripoli. I governativi hanno opposto una fiera resistenza, ma ormai appaiono quasi completamente debellati nella capitale.

Tuttavia, ritengo che la situazione in Libia sia ben lungi dal potersi considerare stabilizzata. La guerra, a mio giudizio, proseguirà ancora a lungo, sebbene i media occidentali la proporranno da oggi in poi come “lotta al terrorismo” o qualcosa di simile. Il punto è che i vertici del Governo libico sono stati scacciati da Tripoli, ma non eliminati. Ed allo stato attuale possono contare ancora sul controllo di molte città e l’appoggio della maggior parte delle tribù. Certo possibili mediazioni e corruzioni potrebbero far deporre le armi ai lealisti, ma bisogna rendersi conto che, dopo Gheddafi, il quadro libico risulterà ancor più frastagliato e confuso. Lui è l’elemento di stabilità nel paese, ed il CNT è ancora un’entità poco rappresentativa e che riunisce componenti molto, troppo eterogenee al suo interno (dagli ex affiliati a Al Qaeda ai liberali espatriati negli USA). Inoltre, il ruolo decisivo delle truppe straniere nella vittoria della battaglia di Tripoli (ed eventualmente della guerra civile) non farà che ridurne il prestigio presso la popolazione ed i capitribù.

La caduta di Tripoli, in realtà, aumenta il rischio di fare della Libia una nuova Somalia. La soluzione negoziale che sembrava stesse uscendo dagl’incontri di Djerba avrebbe garantito un futuro migliore tanto al paese quanto alla regione mediterranea. Ma, evidentemente, non è questo l’obiettivo dell’alleanza atlantica.
Ieri per la prima volta fonti della difesa britannica hanno confermato che uomini dei S.A.S. – i corpi d’elite britannici – sono da settimane in Libia dove hanno avuto un ruolo chiave nella presa di Tripoli. Cosa potrebbe succedere nel “dopo regime”? Verrà inviata una missione di peacekeeping internazionale o il mantenimento della sicurezza verrà affidato al Consiglio di Transizione Nazionale libico?

Le truppe straniere – atlantiche e delle monarchie arabe – sono già nel paese, e dunque non se ne andranno. Il CNT, per quanto visto finora, non è in grado di assumersi l’onere di stabilizzare il paese. Credo che l’invasione di Tripoli abbia segnato una svolta nella guerra di Libia: la sua trasformazione in una vera e propria invasione ed occupazione straniera del paese. Anche se, ovviamente, le parti in causa eviteranno di chiamarla per il suo vero nome. Minimizzeranno il ruolo dei soldati stranieri nel conflitto, e non parleranno più di guerra, ma di lotta del nuovo governo (plausibilmente un governo fantoccio degli occupanti) contro i resti del passato regime per pacificare il paese.

Il portavoce del ministero degli esteri cinese ha dichiarato: “Sappiamo dei recenti cambiamenti nella situazione libica e chiediamo il rispetto della scelta del popolo della Libia. La Cina è pronta a cooperare con la comunità internazionale per giocare un ruolo attivo nella ricostruzione della Libia”. Che ruolo potrebbe avere la Cina – sempre attenta alle vicende globali – nel post Gheddafi?

La Cina si comporta sempre allo stesso modo: non rifiuta il dialogo con nessuno, non ingerisce negli affari interni di nessuno. A Pechino sarebbe stata bene la permanenza al potere di Gheddafi; ora sta bene l’insediarsi del CNT. Il suo unico interesse è tornare a commerciare al più presto con la Libia, convinta che l’amicizia del paese nordafricano s’otterrà coi rapporti economici e finanziari.

Fra pochi giorni ricorre l’anniversario della firma del trattato di amicizia Italia-Libia. Il trattato è stato sospeso unilateralmente e l’Italia ha preso parte all’attacco militare della NATO. Quali effetti economici e strategici ha portato e porterà per l’Italia questo cambiamento?

In questo momento il ministro Frattini, tra i principali artefici dell’intervento italiano contro la Libia, sta godendosi il suo momento di gloria: alla fine la fazione scelta pare abbia vinto la guerra, e promette di non rivedere in negativo i rapporti con l’Italia. Il fatto che tali risultati si siano ottenuti con un plateale ed indecoroso voltafaccia e tradimento, basterebbe già da solo ad invitare a non fregarsi troppo le mani. Ma il gongolare è ancor più ingiustificato perché, purtroppo per Frattini e per l’Italia, difficilmente i suoi sogni si realizzeranno. La Libia rimarrà a lungo instabile, in preda a scontri intestini. Il flusso di petrolio e gas riprenderà ma in maniera meno regolare che in passato. E gli architetti della guerra e del cambio di regime – Gran Bretagna, Francia e USA – non lasceranno certo che l’Italia continui a godersi la fetta più grossa della torta libica.

Contemporaneamente a quello che sta accadendo in Libia si è parlato spesso della situazione in Siria. Nei telegiornali scorrono esclusivamente le immagini di quella che, dagli occidentali, è stata chiamata “rivoluzione siriana”. Secondo lei, è vicina una risoluzione ONU contro il governo di Bashar al-Assad? E come potrebbe reagire la Russia che ha l’unica base militare nel Mediterraneo proprio in Siria?

Questa è una previsione molto più difficile da fare, poiché vi sono segnali contrastanti. Da un lato, il successo finale (o percepito tale) dell’attacco alla Libia potrebbe suggerire alla NATO di ripetere l’esperimento in Siria. D’altro canto, la Libia potrebbe trasformarsi in un grattacapo ancora maggiore, e di lunga durata, se come ho ipotizzato le truppe straniere dovessero stabilirvisi per pacificarla (ecco perché il ministro La Russa ha auspicato lo stanziamento di soldati africani e arabi, anziché europei e nordamericani). Inoltre, in Siria sembra apparentemente passato il momento peggiore per il governo: ha concesso riforme importanti, gode dell’appoggio della maggioranza della popolazione (perché anche il grosso dell’opposizione è ostile alla lotta armata ed all’intervento straniero), è riuscita a reprimere le insurrezioni armate, per quanto permangano ancora focolai di violenza, spesso alimentati da oltreconfine. Le monarchie autocratiche del Golfo faranno pressione per un intervento della NATO in Siria, perché sperano di instaurare – come in Libia – una nuova monarchia islamista, e di sottrarre un alleato all’Iran. La Russia, a rigor di logica, dovrebbe opporsi ad un nuovo tentativo d’erodere la sua influenza nel mondo, ma l’atteggiamento arrendevole l’ha già portata a piegarsi più volte, soprattutto quando la posta in palio si trovava al di fuori dello spazio post-sovietico.

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“La Cina da impero a nazione”: intervista a Diego Angelo Bertozzi

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Fonte: “Il Democratico

 

Ormai da anni la Cina è additata come la grande potenza del futuro: la sua inesorabile ascesa commerciale, economica e sempre più anche politica, culturale e militare, è sotto gli occhi di tutti. S’intravede, nella vita di tutti i giorni, quando entrando in un negozio si nota una sequela d’oggetti “Made in China”, o quando in edicola appaiono corsi a puntate di lingua cinese, o quando il vice-presidente della potenza egemone, Joe Biden, è costretto a dirsi sostenitore dell’unità territoriale cinese dopo che gli USA hanno ricevuto una plateale tirata d’orecchie sulla questione del debito. 

Eppure della Cina – della sua realtà presente e della sua storia, della sua cultura e visione del mondo – in Italia si sa poco o nulla. Prova, nel suo piccolo, a colmare parzialmente questa lacuna un libro di recente pubblicazione, La Cina da impero a nazione, di Diego Angelo Bertozzi, Edizioni Simple. Come recita il sottotitolo stesso dell’opera, essa si focalizza sul periodo “Dalle guerre dell’oppio alla morte di Sun Yat-sen (1840-1925)”. La scelta non è casuale né di scarso rilievo. È infatti in quel periodo che la Cina s’apre totalmente – per causa di forza maggiore (esterna) – all’influenza occidentale; ed è sotto quell’influsso occidentale che si dipana tanto la crisi del millenario Impero e della tradizione confuciana, quanto l’emergere di nuove ideologie più o meno “europeizzate”, tra cui il comunismo destinato a prendere il potere ed imprimere il suo marchio sulla Cina contemporanea. Il bresciano Diego A. Bertozzi, infatti, non è un sinologo bensì uno studioso del movimento operaio: il suo interesse per la Cina, ed i conseguenti studi affrontati, derivano dalla realtà comunista del paese. Scopo più che mai manifesto di quest’opera è scovare le radici dell’ideologia oggi dominante nell’ex Celeste Impero.

Al di là del sicuro interesse del tema – un argomento storico, sì, ma cui si guarda mirando al presente, e dunque esaltandone i caratteri d’attualità – un altro pregio di questa lodevole opera è lo stile divulgativo. Bertozzi appare rigoroso nel suo argomentare, ma chiaramente vuol rivolgersi ad un pubblico non specialista, e quindi dà sfoggio delle sue capacità di sintesi e di comunicazione chiara e diretta, scevra dagli arzigogoli intellettualistici che tanto vanno di moda soprattutto in Italia. Sarebbe anzi importante, trovandoci in una repubblica democratica in cui i cittadini sono chiamati ad eleggere i propri governanti sulla base di programmi concreti (o almeno così avrebbe dovuto essere in linea di principio), che esistesse una florida ed abbondante letteratura divulgativa ma nel contempo dalle solide basi scientifiche. Libri come quello di Bertozzi, se trovassero epigoni nella scelta dei temi (pregnanti per l’attualità) e nello stile (semplice e piano), potrebbero avvicinare alla lettura ed all’informazione un popolo, come quello italiano, che oggi vi appare in gran maggioranza refrattario. Coi ben noti tragici risultati sulla selezione dell’élite dirigente del paese.

Abbiamo incontrato Diego Angelo Bertozzi, ponendogli alcune domande circa il suo libro La Cina da impero a nazione (il quale contiene anche una corposa prefazione, di sapore strategico-geopolitico, firmata da Andrea Fais).

 

 

Il suo libro si concentra sul periodo 1840-1925. Può spiegarci perché questi sessantacinque anni furono tanto importanti nella storia della Cina?

Parto dal discorso ufficiale di Hu Jintao del 1 luglio scorso per le celebrazioni del 90° di fondazione del Partito comunista cinese. Ebbene l’opera di costruzione della Cina socialista è collegata alle umiliazioni subite dalle potenze coloniali e alle lotte intraprese dai cinesi per salvare la nazione: dai Taiping, al movimento degli Yihetuan (i “Boxers”), passando per i programmi di occidentalizzazione, dal tentativo riformista di Kang Yu-wei del 1898, fino alla rivoluzione nazionalista del 1911 personificata da Sun Yat-sen e al movimento del Quattro Maggio 1919. Questa valutazione è ormai un patrimonio acquisito del Partito e la si trova in diversi documenti ufficiali.

A mio avviso non è infatti possibile capire fino in fondo il ruolo del movimento comunista, e in generale quello rivoluzionario cinese, se non lo si colloca in quella autentica lunga marcia di sofferenze e umiliazioni rappresentata da uno dei peggiori esempi di colonialismo e imperialismo della storia moderna e contemporanea.

I sessantacinque anni oggetto della trattazione collocano su questa linea la nascita del moderno nazionalismo cinese, la faticosa gestazione di un movimento antimperialista fino alla nascita delle prime avanguardie comuniste. Il Fronte unito tra comunisti e borghesia nazionale si ripeterà più volte nella recente storia cinese e non è azzardato ritenere che anche oggi, con l’ingresso degli imprenditori privati nel Pcc, si stia rivivendo questa formula con un Pcc che da avanguardia di classe si presenta anche come avanguardia dell’intero paese.

Nella sua analisi identifica le radici dell’affermazione del comunismo in Cina: esse sono individuate in particolare in quelle correnti più “occidentalizzate” della cultura e del pensiero cinese moderno, talvolta persino “cristianizzate” come il movimento dei Taiping. Oggi molti commentatori parlano d’una riscoperta del confucianesimo in Cina (anche se va ricordato che già Mao riprese alcuni dei suoi slogan dalla tradizione nazionale). È secondo lei corretto affermare che la Cina stia facendo la pace con se stessa, col proprio passato, portando un’ideologia “occidentale” come il marxismo-leninismo nell’alveo della millenaria cultura cinese?

È vero, fin dalle sue prime esperienze politiche Mao Zedong rivendica le tradizioni storiche e culturali del passato cinese. Basti pensare al suo collocare nel passato imperiale cinese la vocazione rivoluzionaria dello sterminato mondo contadino.

I tentativi di salvare il paese “rubando” i segreti alle potenze occidentali hanno accompagnato gran parte della storia cinese trattata nel libro. I Taiping furono i primi ad abbozzare riforme costituzionali sulla base dei sistemi occidentali ancora scarsamente conosciuti. In questi tentativi si puntò, senza successo, ad innestare le innovazioni tecniche senza intaccare il patrimonio culturale-ideologico cinese, in primis quello confuciano, al massimo reinterpretandolo in chiave moderna. Sarà solo dopo la prima guerra mondiale che questo patrimonio – il confucianesimo divenne architrave ideologica dell’impero con la dinastia Han (206 aC – 220 dC) – lo si indicherà come una delle cause del decadimento del Celeste Impero. I comunisti per oltre un decennio cercheranno, inoltre, di adattare il marxismo-leninismo allo specifico contesto cinese, cercando di liberarsi da interpretazioni dogmatiche provenienti da ambienti legati a Mosca e alla Terza Internazionale. Alterne fortune, quindi, per Confucio nella storia recente.

Oggi la Cina con la sua via originale al socialismo (“socialismo con caratteristiche cinesi”) vive indubbiamente un ritrovato interesse per il suo passato legato ai fasti dell’Impero e in questo passato risalta indubbiamente Confucio. Ci troviamo di fronte ad una Cina orgogliosa in forte sviluppo che sembra cercare, oltre all’ancora ideologica del partito al potere, valori che tradizionalmente hanno anche salvaguardato la coesione sociale. La riscoperta di Confucio, in questo senso, copre parte del vuoto lasciato dalla fine delle campagne di massa che hanno caratterizzato il maoismo. Sono ormai lontani i tempi in cui al pensatore erano riservate condanne assolute in nome di un passato da superare. Si pensi solamente alla campagna “Pi Lin pi Kong” nella quale l’attacco a Confucio altro non era che la critica a Zhou Enlai che insisteva sulla necessità della preparazione culturale per gestire la modernizzazione. La sottolineatura, da Deng in poi, dell’importanza delle competenze rispetto al solo colore ideologico gioca certo a favore della riscoperta confuciana. Lo stesso principio guida introdotto da Hu Jintao della “società armoniosa” – presente anche nello statuto del Pcc, ha certamente un sapore confuciano. Prioritaria è, infatti, l’esigenza di uno sviluppo economico che non intacchi ordine e coesione sociale.

Sun Yat-sen, la cui morte segna il termine temporale della sua narrazione, è il padre del Kuomintang, il partito nazionalista cinese; nella sua analisi sottolinea però l’enorme debito intellettuale e politico del comunismo nazionale nei suoi confronti. Le difficili trattative per la riunificazione del territorio nazionale cinese e l’emergere d’una corrente d’opinione nazionalista all’interno della Cina potrebbero essere le prime avvisaglie d’una riconciliazione storica tra nazionalismo e comunismo, i due figli intellettuali di Sun Yat-sen?

Ancora nel 1940, poco prima della fondazione della Repubblica popolare cinese, Mao Zedong parla dei Tre principi del popolo di Sun Yat-sen come significativi riferimenti nella alleanza antigiapponese e per la futura Nuova Democrazia da costruire. Il Sun Yat-sen a cui Mao fa riferimento è quello del 1924: alleanza con la Russia sovietica, con il Partito comunista e con contadini e operai. Il Kuomintang, a partire dalla svolta repressiva del 1927, eliminerà questi riferimenti interpretando il pensiero del “Padre della patria” in chiave conservatrice e dando risalto, soprattutto, alle sue indubbie componenti autoritarie quali la necessaria “tutela” del partito sul popolo cinese e dando pure spazio ad una rinascita conservatrice del confucianesimo. Taiwan, non scordiamolo, solo negli anni ’80 ha aperto alla democrazia di stampo occidentale.

Oggi è indubbio che lo sviluppo della Cina popolare ripropone all’ordine del giorno una riunificazione, anche alla luce della sua crescente proiezione politico-militare. I legami economici tra le due realtà sono sempre più stretti e massicci sono gli investimenti di Taiwan sul continente. Il dialogo tra comunisti e nazionalisti di Taipei prosegue ultimamente su binari di pacificazione. Da questo punto di vista riveste un ruolo decisivo la natura dei rapporti fra Cina e Stati Uniti ormai in fase di continua evoluzione. Certo, le recenti dichiarazioni di riconoscimento di una sola Cina fatte dal vice-presidente Biden suggeriscono un avvicinarsi del ritorno della “provincia ribelle” alla madrepatria sulla linea sperimentata con Hong Kong e Macao del “Un Paese, due sistemi”.

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La primavera araba e il balance of power in Medio Oriente

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La Primavera Araba ha profondamente segnato il panorama politico del Medio Oriente. Spentosi rapidamente l’entusiasmo per l’ondata democratica, è opportuno domandarsi se e come i cambiamenti occorsi fino ad oggi abbiano influenzato il delicato equilibrio geopolitico della regione. La configurazione pre-rivolta vedeva in Israele, Egitto ed Arabia Saudita i principali alleati della superpotenza americana, con l’asse Iran-Siria a capo dello schieramento “anti-egemonico”. Poco più di sei mesi dopo la “Rivoluzione dei Gelsomini” in Tunisia quest’articolo traccerà un bilancio (parziale) degli effetti delle rivolte nel mondo arabo sugli equilibri geopolitici del Medio Oriente.

 

La storia delle rivolte in Medio Oriente (o Primavera Araba, se preferite) è nota. Il 14 gennaio 2011, a seguito di proteste a Tunisi e in altre città del paese, l’esercito tunisino sancisce la fine politica di Zine El-Abidine Ben Ali, presidente in carica fin dal lontano 1987. Il collega egiziano di Ben Ali, Hosni Mubarak (in carica dall’ottobre 1981) è costretto a dimettersi e ritirarsi a Sharm el-Sheikh circa un mese dopo. Se la caduta di due dei regimi di più lungo corso nella regione non fosse una sorpresa sufficiente, le proteste “contagiano” rapidamente diversi paesi nella regione, portando ad una guerra civile ed a un intervento militare NATO in Libia, a scontri e brutali repressioni in Siria, Bahrain e Yemen (dove il presidente viene ferito da una bomba e deve rifugiarsi per cure mediche nella vicina Arabia Saudita) ed a instabilità diffusa nella regione. Gli esperti sono divisi sulle cause delle rivolte (socio-economiche o politiche?) e sulla natura delle opposizioni ai regimi (“democratiche” o “islamiche?”); tuttavia l’instabilità dei paesi colpiti dalle rivolte-sia quelli dove gli insorti riescono ad ottenere un cambio di regime, sia quelli dove i governanti riescono (al momento) a resistere alla pressione- hanno finora impedito di considerare gli effetti della rivolta per l’equilibrio geopolitico della regione. Quest’articolo si propone di analizzare i cambiamenti conseguenti ai recenti sviluppi-tenendo sempre a mente come la situazione attuale sia soggetta a repentini mutamenti. Per tracciare un bilancio critico occorre partire dallo scacchiere geopolitico della regione prima dei recenti sconvolgimenti.

 

L’equilibrio pre-rivolte

Quest’analisi si occuperà principalmente del Medio Oriente tradizionale (dall’Egitto ad Ovest all’Iran ad Est) e non del “Grande Medio Oriente” ed in particolare del Maghreb. Quest’ultima è infatti la sub-regione del MENA (Middle East and North Africa) che gode di dinamiche politiche proprie1 e di una certa autonomia rispetto ai temi regionali che caratterizzano il “Medio Oriente”. Un rapido sguardo all’equilibrio geopolitico pre-rivolte mostra la presenza di un blocco dominante costituito dagli Stati Uniti ed Israele dagli alleati arabi della superpotenza, l’Arabia Saudita e l’Egitto. Attorno all’asse Damasco – Teheran si raggruppano invece le principali forze anti-status quo, cui fanno riferimento Hamas ed Hezbollah. Questo equilibrio è figlio del cruciale biennio 78-79, caratterizzato dalla defezione dell’Egitto dal campo arabo e filo-sovietico con gli accordi di Camp David e dalla rivoluzione in Iran. La rete di alleanze costruita nella regione dagli statunitensi durante la guerra fredda sembrava uscire rafforzata dal passaggio dall’epoca bipolare a quella unipolare. La variabile geopolitica più rilevante sembra essere il progressivo re-inserimento della Turchia nell’arena mediorientale- accentuata dall’avvento di Erdogan dell’Akp nel 2002 ma già individuabile negli anni 90- ed al progressivo distacco di Ankara da Israele fino allo stato di aperta ostilità che caratterizza le relazioni dal 2009 in poi2.

 

La prima fase:l’inizio della rivolta

Le proteste in Tunisia e la caduta di Ben Ali furono accolte con stupore e crescente preoccupazione in molte capitali mediorientali: il rischio di “contagio” nella regione appare immediato, con la Giordania di Re Abdallah e l’Egitto di Mubarak travolti da un’ondata di proteste. Cairo e Amman rappresentano due degli alleati più fedeli degli Stati Uniti nella regione, nonché due paesi confinanti con Israele e ambedue in buoni rapporti con Gerusalemme (la Giordania firmò la pace con Israele nel 1994, e da quel momento i rapporti videro un progressivo e costante miglioramento). L’11 Febbraio Hosni Mubarak, “il Faraone” al potere dall’uccisione di Sadat nel 1981 è costretto a lasciare la presidenza al generale Tantawi a seguito di oltre due settimane di proteste. In questa fase l’equilibrio geopolitico sembra spostarsi chiaramente a favore dell’asse anti-americano: la rivolta d’Egitto minaccia di “spostare” il gigante arabo, considerato saldamente nel campo filo-occidentale, verso una posizione pre-79. Il 14 Febbraio, tre giorni dopo la caduta di Mubarak, la protesta monta in Bahrain. Questo piccolo arcipelago d’isole ha una discreta importanza da un punto di vista geopolitico ma una rilevanza immensa dal punto di vista simbolico. Ambedue gli aspetti sono da inquadrare nell’ambito della rivalità tra le due potenze del Golfo, la monarchia wahabita Saudita e la repubblica Islamica d’Iran. La popolazione del Bahrain è in maggioranza (70% circa) sciita, mentre la famiglia reale è sunnita e storicamente supportata dall’Arabia Saudita. Le proteste in Bahrain vengono immediatamente inquadrate nell’ambito della rivalità tra le due potenze del Golfo – un tentativo della Repubblica Islamica di far leva sulla maggioranza sciita della popolazione per sottrarre il Bahrain alla sfera d’influenza saudita. Ad aggravare la minaccia per Riyad, la minoranza sciita presente nella regione orientale dell’Arabia Saudita sembra venire coinvolta nelle proteste. Tra fine febbraio ed inizio marzo, con Mubarak disarcionato in Egitto e l’Arabia Saudita in evidente difficoltà, le rivolte arabe sembrano poter spostare l’equilibrio geopolitico a favore di Iran e Siria. La rete di alleanze costruita dagli americani sembra vacillare dalle fondamenta- Cairo e Riyad sono i due più preziosi alleati dell’occidente nel mondo arabo.

Seconda fase: tra Golfo ed Egitto

 

La metà di Marzo segna uno spartiacque importante per ciò che riguarda le conseguenze delle rivolte arabe sull’equilibrio geopolitico della regione. Tre sono i cambiamenti principali:

Tra l’8 e l’11 marzo un efficace dispiegamento di forze nelle provincie orientali ed a Riyad permette alle autorità saudite di fermare le crescenti proteste nel regno. Il 14 marzo l’Arabia Saudita, dopo aver schiacciato la rivolta interna, invia un contingente di truppe in Bahrain a supporto della famiglia reale. Con l’appoggio dei sauditi le autorità del regno riescono a reprimere le proteste dell’opposizione sciita-lo sgombero di Piazza della Perla il 18 marzo sancisce una vittoria decisiva per il governo. Lo stesso giorno re Abdullah vara un piano multi-milionario allo scopo di placare lo scontento tra i suoi sudditi. Washington e le altre capitali occidentali possono tirare un primo sospiro di sollievo: re Abdullah è riuscito (almeno per il momento) a riguadagnare controllo nella regione del Golfo (con l’eccezione del periferico Yemen). Uno degli assi fondamentali della politica americana nella regione è-almeno per il momento-salvo.

Buone notizie giungono per Israele e gli Stati Uniti dall’altro fronte caldo della prima fase, quello egiziano. Il filo-occidentale generale Tantawi ed il Consiglio supremo delle forze armate, organo dell’esercito che sta gestendo questa fase di opposizione sono adesso saldamente in controllo della situazione e sembrano in grado di pilotare il paese verso una transizione se non tranquilla quanto meno guidata. Il rinnovato ruolo dell’esercito sembra anche una garanzia verso una certa continuità politica ed un argine verso il crescente ruolo degli islamisti-in particolare la Fratellanza Musulmana- colti inizialmente di sorpresa dalle rivolte ma capaci in un secondo momento di riorganizzarsi ed aspirare a giocare un ruolo importante nel paese. Il 21 marzo la stragrande maggioranza degli egiziani che si recano alle urne conferma le modifiche costituzionali che permetteranno al paese di votare nei successivi sei mesi. La partita in Egitto è dunque ancora in bilico.

Marzo vede l’inizio delle proteste in Siria. La scintilla scocca nella città meridionale di Deraa, dove le forze di sicurezza del regime aprono fuoco durante il funerale di un manifestante ucciso pochi giorni prima in una delle prime proteste nel paese3. Nelle settimane seguenti la rivolta “contagia” Latakia, Homs ed altre città del paese. Le ripercussioni della rivolta in Siria sul piano geopolitico sono evidenti: il regime degli Al-Asad rappresenta lo strenuo difensore della causa araba che ha retto-in alcune fasi anche da solo- il peso dell’opposizione all’egemonia americana ed israeliana. Se un indebolimento di Damasco potrebbe essere visto in chiave positiva da americani e israeliani, il caos in cui il paese rischia di precipitare in caso i manifestanti riescano a liberarsi del presidente Al-Asad preoccupa le capitali occidentali e ancor di più Gerusalemme4.

 

Questa seconda fase dimostra come i regimi pro-occidentali non siano gli unici ad essere interessati dalle proteste. Le crescenti difficoltà del regime di Bashar Al-Asad rappresentano una minaccia per gli oppositori di Stati Uniti e Israele nella regione, in particolare per l’Iran. Contemporaneamente gli accadimenti nel Golfo confermano come il potere economico dell’Arabia Saudita rappresenti un argine contro le proteste nella regione e gli eventuali tentativi iraniani di espandere la propria influenza nella regione. Nell’Egitto rivoluzionario i “Generali” sembrano avere assunto il controllo della situazione garantendo così una certa continuità alla politica estera del paese. La “seconda ondata” di rivolte segna un moderato miglioramento dell’equilibrio geopolitico a favore delle forze filo-occidentali, impegnate dal 19 marzo in una complicata campagna aerea in Libia.

Terza fase: la lunga impasse.

La fase che va da Aprile a Luglio è caratterizzata dal progressivo deterioramento della situazione in Siria, dove una spirale di proteste e feroce repressione governativa costa la vita ad oltre 1500 persone. Il presidente Bashar Al-Asad prova a più riprese a lanciare un “dialogo nazionale”, tentativo vano di fronte alla brutalità con cui ogni forma di dissenso viene affrontata. Nella seconda metà di Maggio è oramai divenuto evidente come il regime stia lottando per la sua sopravvivenza. Il dato fondamentale di questa fase è tuttavia il repentino peggioramento delle relazioni con la Turchia, dovuto alla condanna del governo di Ankara verso quello siriano e dalla crisi dei profughi siriani a cavallo tra giugno e luglio. L’abbandono dell’alleato siriano da parte dell’ambizioso governo di Ankara5 rappresenta una significativa svolta per gli equilibri della regione.

Nel Golfo, le forze conservatrici e filo-occidentali sembrano avere riguadagnato saldamente il controllo mentre l’Iran sperimenta una certa instabilità interna dovuta ai turbolenti rapporti tra “i radicali” vicini al presidente Ahmadinejad e l’Ayatollah Khamenei6. In Egitto la transizione verso elezioni presidenziali e parlamentari sembra procedere senza grossi intoppi. Il governo provvisorio tiene sotto controllo le proteste che ciclicamente interessano soprattutto Il Cairo.

 

Il bilancio geopolitico

Un bilancio delle conseguenze delle rivolte sull’equilibrio geopolitico della regione sarà necessariamente provvisorio ed impreciso. La situazione è incerta in evoluzione in alcuni paesi chiave (Egitto e Siria). E’ tuttavia possibile già trarre delle conclusioni.

– Qualunque sia l’esito della transizione democratica in Egitto, è lecito aspettarsi dei cambiamenti nella politica estera del paese dei Faraoni. E’ infatti plausibile che un governo democraticamente eletto, anche se“sorvegliato” dall’esercito, non possa mantenere lo stesso allineamento filo-occidentale e filo-israeliano tenuto dall’Egitto dal 1978 in poi. L’opinione pubblica in buona parte contraria a questa scelta mal digerirebbe una politica estera à-la-Mubarak. Se la presenza dell’esercito è garanzia di una certa continuità, è naturale aspettarsi (quanto meno nel medio termine) un Egitto capace di giocare un ruolo più autonomo e propositivo nella regione. In particolare, è possibile attendersi un graduale allontanamento dagli Usa e Israele ma non una ridiscussione della pace di Camp David – non in questa fase.

    – Le difficoltà economiche in cui Il Cairo si trova fanno presagire la necessità di coltivare e se possibile migliorare i rapporti con l’Arabia Saudita ed i paesi del Golfo. L’Arabia Saudita potrebbe dunque fungere da tramite tra la superpotenza americana ed il “gigante arabo” risvegliatosi. Riyad appare come uno dei vincitori delle rivolte arabe fino a questo momento- in ragione del fatto che i Sauditi siano riusciti a contenere i danni in una situazione oggettivamente complicata grazie soprattutto alle immense risorse finanziarie. L’Arabia Saudita vede con la Primavera Araba il suo ruolo crescere ulteriormente-a patto che i sauditi siano effettivamente riusciti a spegnere i focolai di protesta interna. La maggiore solidità delle monarchie conservatrici e filo-occidentali di fronte alle rivolte potrebbe rappresentare un vantaggio per Riyad e i suoi alleati nel confronto con il rivale del Golfo- l’Iran.

      – L’indebolimento del regime di Bashar Al-Asad in Siria, che lotta in questi giorni per la sua sopravvivenza, rappresenta di per se uno sconvolgimento degli equilibri geopolitici della regione. Fin dal ‘79 Damasco e Teheran hanno rappresentato l’opposizione all’egemonia israelo-americana nella regione, la Siria grazie alla sua centralità nella regione ed alla “coerenza” della sua politica di opposizione ad Israele rappresenta il fulcro di un’alleanza che comprende Hamas ed Hezbollah. Il supporto incondizionato offerto da Teheran all’alleato siriano dimostra l’importanza di Damasco nell’equilibrio geopolitico della regione ed in particolare il suo valore come alleato dell’Iran.

        – A seguito della repressione in Siria, le relazioni tra Damasco ed Ankara sono rapidamente peggiorate fino al punto di far considerare ad alcuni analisti la possibilità di un intervento militare turco nella regione di confine. Se questa eventualità sembra (al momento) assai improbabile, l’allontanamento di Ankara da Damasco dopo un decennio di sorprendenti miglioramenti nelle relazioni tra i due paesi rappresenta un accadimento fondamentale- capace in prospettiva di mutare sostanzialmente gli equilibri nella regione.

           

          In conclusione, la primavera araba ha creato un Medio Oriente “a geometria variabile”, una regione del Golfo che ha visto un inasprimento della rivalità tra Iran e Arabia Saudita con Riyad capace di respingere “l’attacco” di Teheran in Bahrain. Nel Levante l’instabilità della Siria rischia di coinvolgere l’intera regione, mentre una soluzione della crisi a Damasco appare al momento lontana. Nel frattempo due dei giganti della regione, Turchia e Egitto, sono in una fase di ridefinizione dei propri interessi strategici e della propria politica di alleanze (seppure per ragioni profondamente differenti) e possono ambedue ambire, nonostante i rispettivi problemi domestici, ad un ruolo di leadership nella regione.

           

           

           

          * Francesco Belcastro è dottorando in Relazioni internazionali presso la University of St. Andrews (Scozia).

           


          1 Buzan and Waever, Regions and powers: the structure of international security “, Cambridge University Press, 2003

           

          2 Hasan Kosebalaban “The crisis in Israeli Turkish relations. What is its strategic significance?” Middle East policy, Vol. XVII no.3

           

          3 http://www.guardian.co.uk/world/2011/mar/19/syria-police-seal-off-daraa-after-five-protesters-killed

           

          4 L’iniziale riluttanza delle autorità Israeliane ad esprimersi sulla rivolta in Siria può essere spiegata anche con una certa preoccupazione verso la prospettiva di una caduta di Al-Asad.

           

          5 Sulla “nuova politica turca” vedi Tiberio Graziani, “Mediterraneo ed Asia Centrale:le cerniere dell’ Eurasia”, Eurasia, 1/2011

           

          6 http://www.guardian.co.uk/world/2011/jun/23/iran-ahmadinejad-ally-corruption-arrest

           

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          Propedeutica alla teoria politica

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          L’Autore si pone l’obiettivo di delineare, brevemente ma in modo esaustivo, i contenuti e le finalità della teoria politica. Secondo l’autore tale disciplina deve occuparsi, innanzittutto, dei problemi prepolitici o metapolitici, vale a dire di tutte le questioni che riguardano le origini dell’insediamento dell’uomo nel mondo. Dopodichè si presenta la necessità di prendere in considerazione la politica con le sue tre importanti finalità, vale a dire il bene comune, la sicurezza esterna e la concordia interna e la prosperità. Infine, l’Autore sostiene che si devono analizzare le questioni relative alla cosa pubblica, quali il concetto di Popolo, Nazione, Stato, partiti politici, sistemi partitici, regimi politici e di governo, comunità internazionale, rapporti internazionali, diplomazia e organismi internazionali.

           

           

          Cominciamo dalla terminologia. Teoria, termine che proviene dal greco theorein = considerare, indica un insieme d’idee che sono sistematicamente rapportate tra loro e che appartengono tanto alla filosofia quanto alla scienza.

          Il filosofo si domanda sul perché delle cose, invece lo scienziato s’interroga sul come.

          Ogni teoria politica si fondamenta sulla base di una concezione specifica dell’uomo, del mondo e dei suoi problemi. Per avallare quest’affermazione, bisogna tener presente che per i greci l’uomo è antthropos, che etimologicamente significa “colui che indaga su ciò che ha visto”, “colui che prende in esame”. Laddove per i romani l’uomo è homo che proviene da humus con il significato di “colui che è fermo sulla terra”, “il terracqueo”. Se proseguiamo avanti con quest’approssimazione etimologica possiamo spiegare il perché la filosofia era dei greci e il diritto dei romani, che sono le conquiste più genuine e specifiche da loro raggiunte.

          Allo stesso modo abbiamo avuto durante il secolo XX teorie politiche marxiste, liberali, fasciste, socialdemocratiche e, nel nostro ambito, peronisti, radicali e conservatrici.

          Innanzitutto, questa disciplina deve prendersi cura dei problemi prepolitici o meta politici come quelli che concernono le origini dell’insediamento dell’uomo nel mondo e che svilupperemo in due punti: a) il nomos della terra e b) sul potere.

          Subito dopo viene l’obiettivo specifico della politica con le sue tre finalità: il bene comune, la sicurezza esterna e la concordia interna e, per ultimo, la prosperità. Infine, si conclude con l’analisi dei temi e dei problemi della cosa pubblica, che sono quelli che preoccupano alla comunità nel suo insieme, come: Popolo, Nazione, Stato, partiti politici, sistemi partitici, regimi politici e di governo, la comunità internazionale, i rapporti internazionali, diplomazia e organismi internazionali.

           

           

          Il nomos della terra

           

          L’idea che abbiamo della norma deriva dal termine nomos che proviene dal verbo greco nemein che ha tre significati: 1) raccogliere, prendere, cogliere o appropriare, 2) spartire, dividere, limitare o distribuire e 3) approfittare, sfruttare, utilizzare o dare possesso.

          Questo concetto di nomos della terra, è fondatore e non scaturisce da un principio d’ordine precedente. Esso stabilisce il rapporto fondante dell’uomo con la natura e con gli altri uomini, c’indica l’originario e primigenio rapporto dell’uomo con la terra. In tal modo, l’uomo in quanto raccoglitore e cacciatore osserva come la terra ha in se stessa una misura interna di giustizia: a chi si sforza essa offre il raccolto e la caccia.

          In un secondo momento l’uomo, in quanto agricoltore, ara la terra e fissa i confini tra ciò che è fecondo e ciò che è incolto. La terra concede una seconda misura di giustizia: il raccolto per chi lo lavora.

          In un terzo momento, l’uomo smette il suo peregrinare e s’insedia, si stanzia sulla terra distribuita e delimitata con il fine di sfruttare e approfittare con regolarità i suoi frutti. Da questo momento sorge la politica, la quale altro non è che l’azione che consente di organizzare ciò che è politico. Tutti i nomos implicano un rapporto di potere.

          Stando a Platone – ormai già vecchio nel suo ultimo e breve dialogo Epinomis o sulle leggi -, i tratti tipici che rendevano i greci superiori ai barbari erano: 1) l’educazione o paideia, 2) possedevano l’aiuto dell’oracolo di Delfi e 3) la loro fedeltà nell’osservanza delle leggi. Questi tre tratti hanno fatto in modo che i greci perfezionassero tutto quello che hanno ricevuto dai barbari. Questi tre elementi hanno consentito ai greci d’inventare e di avere politica.

           

           

          Il politico e la politica

           

          Molto opportunamente il celebre intellettuale greco contemporaneo, Cornelius Castoriadis, asserisce che: i greci non furono gli inventori del politico, nel senso della dimensione di potere esplicito da sempre presente in ogni società, inventarono, o detto in altre parole, crearono la politica come scienza che organizza detto potere1.

          Questa distinzione essenziale ci mette sull’avviso a proposito della confusione che ancora oggi persiste tra il politico – dimensione del potere esplicito – e la politica – istituzione congiunta della società -.

          Noi vogliamo richiamare l’attenzione sul fatto che anche quando dalla decade degli anni ’70 cominciò ad imporsi nelle diverse lingue europee una distinzione che buona parte del secolo XX aveva ignorato tra: il politico (politisch, le politique, political) e la politica (politik, la politique, politics)2, nel nostro ambiente universitario, accademico e politico qualche volta è ignorato del tutto. Fondamentalmente è l’effetto di una concezione funzionalista e sociologista dei nostri scientisti politici.

          In tal modo il politico è ciò che è durevole, s’indirizza verso l’essenza, poiché la comprensione del problema corrisponde all’essere della politica. Come categoria speciale dell’essere politico appartiene alla sfera della natura umana. Invece, la politica è ciò che è perituro, l’attività dell’uomo per organizzare il politico appartiene al dominio del fare.

          La cosa propria e specifica della politica è il politico il cui dominio è determinato da ciò che è pubblico, il quale si caratterizza dalla distinzione che esiste tra amico e nemico ma questo nemico non è il nemico privato (inimicus) bensì il nemico pubblico (hostis) colui che m’importuna o mi contrasta. Quando nel 1965 si portò a termine nella Sorbona la difesa di una tesi su questo tema, il professor Jean Hyppolite, traduttore di Hegel, e importante cattedratico contestò quella tesi asserendo: Ho commesso un errore, pensavo che lei non avrebbe mai finito la sua tesi. Ma se lei avesse ragione e la nozione di nemico costituisce il punto centrale del politico, allora non mi resta altro che seminare il mio giardino. Al che il candidato rispose: Lei non ha commesso un errore, bensì due. Per quanto concerne il primo l’ha riconosciuto e non insisterò più, il secondo, invece, è credere che sia sufficiente coltivare il suo giardino per eliminare il nemico. J. Hyppolite rispose: Se lei persiste non mi resta altro che suicidarmi.

          – Allora sarà il suo terzo errore professore, rispose il candidato, giacché se lei si toglie la vita il suo giardino rimarrà senza protezione, sua moglie e i suoi figli anche e il suo nemico avrà vinto.

          Ribadiamo che il nemico non può essere altro che il nemico pubblico (hostis), poiché tutto ciò che concerne la comunità diventa, per solo questo fatto, questione pubblica. Il noto brano evangelico si riferisce al perdono del nemico privato, quando afferma: diligite inimicos vestros = Amate i vostri nemici (Mt. 5,44) e non diligite hostis vestros.

          Il pensiero light, il pensiero debole, il pensiero politicamente corretto ha visto in questa distinzione essenziale un appello alla guerra più che alla convivenza e ha tentato diluire, persino cancellare, questa distinzione per rimpiazzarla con quella di avversari o amici con una visione opposta, senza avvertire che la faccenda non si limita ad una questione di nomi più o meno gradevoli all’udito, bensì di essenze.

          L’idea di raggiungere la pace tra gli amici è assurda, poiché di natura l’amicizia è uno stato di pace. In realtà, la nozione di nemico politico (hostis) è quella fondamentale per capire nella sua completezza l’idea di pace. In questa forma possiamo affermare la nozione che sostiene che chi rifiuta l’idea di nemico è un nemico della pace (anche malgrado lui) perché fare la pace vuol dire farla con un nemico.

           

           

          Sul potere: Legalità e Legittimità

           

          Alla distinzione che esiste tra pubblico e privato e a quella che esiste tra amico e nemico, adesso dobbiamo aggiungere quella che intercorre tra il comando e l’obbedienza o detto in termini politologici, tra governanti e governati.

          La natura del potere richiede due condizioni indispensabili: che non sia sporadico ma stabile, permanente e continuo, caratteristiche che in politica definiscono la sua maggiore o minore istituzionalizzazione, e che sia collettivo, il che obbliga al potere politico di essere obbligatoriamente pubblico.

          È legittimo tutto ciò che si fonda nel diritto, nella ragione e nel valore. Nel diritto la legittimità si vincola alla legalità, in ordine alla ragione e al vero e in ordine al valore e a ciò che è buono. Attualmente, la teoria politica non può essere intesa come quella di un tempo, in altre parole solo una teoria del potere, bensì deve essere intesa come una teoria dell’autorità legittima.

          Si distinguono tre forme di legittimità che accompagnano l’esercizio del dominio o del governo: a) quella tradizionale, che poggia nella validità perenne delle tradizioni, b) quella di tipo carismatico, che si basa nella sottomissione nei confronti del valore esemplare di una persona, c) quella razionale o legale, fondata nella fiducia verso la legalità dei regolamenti e del diritto. Le prime due sono conosciute anche come legittimità di esercizio e la terza come legittimità di origine.

          Dunque, queste legittimità sono semplicemente formali, poiché solo caratterizzano alcuni tratti della legittimità, ma i principi reali o meta politici della legittimità sono i fini verso i quali si consacrano i diversi regimi politici.

          Esaminati dal punto di vista della teoria politica, disciplina della quale stiamo parlando, questi fini teorici sono tre: il bene comune, la sicurezza esterna e la concordia interna e la prosperità.

           

           

          L’oggetto specifico della politica

           

          La politica la possiamo definire non come l’arte di ciò che è possibile, secondo quanto affermato da Leibniz e ripetuto in seguito fino alla nausea, ma come l’arte di rendere possibile ciò che è necessario, come la definì Maurras, intendendo per necessario quelle carenze che l’uomo possiede per attuare la sua essenza. L’oggetto specifico della politica è costituito dalla riuscita dei tre fini appena menzionati: il bene comune, la sicurezza esterna e la concordia interna e la prosperità.

          In genere, tutto ciò che opera e, nello specifico l’uomo, lo fa per raggiungere un interesse o un bene, ecco perché il bene abbia l’effetto di causa finale. In questo modo, il bene o fine ultimo della politica è il raggiungimento del bene comune, che può essere inteso sotto le sue molteplici accezioni: eudaimonia o felicità in Aristotele, salus populi in Hobbes, interesse comune in Rousseau, bene dello Stato in Hegel, bene del paese in Tocqueville o bene comune in Freund. Di sicuro quel bene comune o bene del popolo consiste nella sicurezza, intesa come la protezione contro i nemici esterni, nella pace interna e nello sviluppo della ricchezza e del benessere dei suoi abitanti.

          In questo modo vediamo come in un primo momento – quello della sicurezza esterna – il presupposto del bene comune è condizionato dal rapporto amico – nemico e, in questo senso, il compito della politica consiste nel superare quest’avversione e stabilire la pace.

          Il raggiungimento della vita buona, il famoso eu zen greco o la bona vita romana, dal punto di vista della politica interna si denomina concordia = cum cordis che significa condividere il cuore, sentire allo stesso modo. Così come compagno proviene da cum panis, che vuol dire compartire il pane. La concordia presuppone il superamento dell’inimicizia interna. Questa concordia interna si fondamenta sulla partecipazione in un progetto comune, con dei valori da raggiungere, e che in politica s’intendono come obiettivi o fini.

          Osserviamo come la sicurezza e la concordia costituiscono i due aspetti di uno stesso bene, il fine della prassi politica, intesa come raggiungimento del bene comune o bene del popolo. Questi due aspetti assicurano la pace. Siccome la felicità presuppone un minimo di prosperità, non può esserci pace interna senza prosperità (lavoro, salute, educazione, giustizia).

          Osserviamo, pertanto, come la politica in quanto arte della realizzazione che cerca di rendere possibile ciò che è necessario ha, inoltre, l’esigenza d’essere efficace. Questa comunità di vedute e d’identità di sentimenti espressi mediante la concordia si concretizza nelle idee di Patria e di Popolo, di Nazione e di Stato, il che ci fa pensare al terzo e ultimo dei punti di questa propedeutica alla teoria politica.

           

           

          Patria e Popolo

           

          La patria come pater = terra dei padri, c’indica non solo il luogo di nascita, che non abbiamo scelto, ma anche il patrimonio e la tradizione comune, culturale, etnica, linguistica, religiosa che ci segna sin da quando esistiamo e che ci differenzia dal resto dei mortali. Alla patria è vincolato il paese e questo è legato con il paesaggio, ossia, quello spazio geografico e storico che ci comprende. Da ciò trae origine il nostro carattere di paesani.

          In questo modo i paesani, i figli del paese, conformiamo un popolo, vale a dire, una comunità di uomini e di donne uniti dalla comune coscienza di appartenere ad un mondo di valori (culturali, religiosi, linguistici, ecc.), ma non necessariamente con una coscienza politica comune. I popoli non decidono come devono essere, semplicemente sono, esistono. Quando posseggono una coscienza politica di ciò che vogliono essere, si passa all’idea di Nazione o a quella di appartenere al popolo di tale o quale Nazione.

           

           

          Nazione e Stato

           

          Possiamo definire brevemente la Nazione come progetto di vita storico che si dà un popolo quando si trasforma in una comunità politica. È il popolo quando possiede un proposito politico definito.

          L’idea di progetto (pro-iectum) significa, come il suo nome lo indica, qualcosa da realizzare, ma allo stesso tempo un progetto politico genuino esige un ancoraggio verso il passato, estasi temporale che il pensiero progressista rifiuta completamente, poiché quando esso si rivolge verso il passato lo fa sempre come vittima. L’idea dell’antico lo spaventa, perché l’avanguardia è il suo metodo.

          Nella politica odierna non solo esiste un’incomprensione storica, bensì, per quanto abbiamo appena detto, esiste un’incomprensione funzionale dell’idea di progetto.

          Dunque, ogni progetto si pensa genuinamente da una tradizione di pensiero nazionale, altrimenti sarebbe un prodotto della ragione illuminista, quindi si trasformerebbe in un nulla di progetto o in un progetto inverosimile.

          Il fine della politica nazionale come architettonica della nostra società, deve scaturire da un fondamento metafisico che mi suggerisce che la realtà (l’ente) è ciò che può essere di più. È da quel poter essere dove deve agire la politica se è tale e non sola apparenza. E se agisce su ciò che può arrivare ad essere, lo deve fare con pro-getti, di modo che la politica potrà essere il principale agente del cambio della realtà economica, sociale e culturale. Altrimenti continuerà a convalidare e a consolidare lo statu quo vigente.

          Per quanto concerne lo Stato inteso come la nazione giuridicamente organizzata, non possiede un essere in sé (Stato fine come pensò il fascismo) bensì esiste negli e attraverso i suoi apparati. Non è neanche la macchina per mantenere il dominio di una classe sull’altra (come pensò il marxismo-leninismo), bensì è lo strumento del governo che serve per la gestione e il raggiungimento del bene comune, inteso questo come felicità del popolo e grandezza della nazione.

           

          (traduzione di Vincenzo Paglione)

           

           

          * Alberto Buela, filosofo, è membro del Centro de Estudios Estratégicos Suramericanos e del Comitato Scientifico di “Eurasia”.

           

           

          Note:

           

          1 Cornelius Castoriadis, Le monde morcelé, Paris, seuil, 1990, p. 125. Quest’autore riprende la distinzione che esiste tra la politica e il politico, formulata dall’eminente politologo e giurista Carl Schmitt e sviluppata successivamente, nei nostri giorni, nella scuola del realismo politico da autori come Julien Freund, Gianfranco Miglio o Michel Maffesoli.

          2 Jerónimo Molina, Julien Freund: lo político y la política, Madrid, Sequitur, 2000, p. 34

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          Kim Jong-Il rafforza i rapporti con la Russia e apre al Sud

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          Il 24 agosto il leader coreano Kim Jong-Il ha incontrato il presidente della Federazione russa Dimitri Medvedev in una base militare nei pressi di Oulan-Oude, in Siberia.

          Durante l’incontro bilaterale, Kim Jong-Il ha confermato la possibilità di costruire un oleodotto che, attraversando il territorio della RDPC collegherebbe l’estremo oriente russo con la Corea del Sud (un’infrastruttura da 1.100 km). L’accettazione della proposta da parte del massimo esponente della politica nordcoreana ha colto di sorpresa i responsabili del governo di Seul.

          Il recente scontro a fuoco tra i due eserciti (15 agosto) ha inasprito i rapporti già tesi tra i due governi: da Seul, a differenza di quanto traspare dai giornali occidentali, non giungono proposte di riappacificazione e le provocazioni militari sono all’ordine del giorno. Ovviamente un’apertura di questo livello non è vista di buon occhio, poiché rischia di far “cadere il palco” della propaganda che vuole il nord come governo fomentatore dell’odio. Inoltre il Sud teme di diventare troppo dipendente da Pyongyang.

          Nonostante le paure di Seul, l’oleodotto è fondamentale per soddisfare il fabbisogno energetico dello stato sudcoreano, uno dei più grandi acquirenti di energia al mondo.

          La Corea Popolare si è detta già decisamente favorevole alla costruzione del oleodotto, come confermato già a luglio ai responsabili della Gazprom, anche perché la gestione porterebbe nelle casse di Pyongyang oltre 100 milioni di dollari all’anno, oltre a garantire la copertura della necessità energetica del paese socialista.

          Tra Russia e RDP Corea è già in fase di sviluppo un progetto per la costruzione di una ferrovia tra Khasan e Radgin, che appare come il primo passo per una rete ferroviaria trans-coreana. Inoltre Mosca ha già annunciato l’avvio di un programma di aiuto alimentare in RDPC.

          Durante l’incontro russo-coreano, Kim Jong-Il ha anche confermato l’intenzione di riprendere i colloqui a sei sul dossier nucleare, senza condizioni preliminari. Intenzione ripetuta anche nel colloquio con il Presidente cinese Hu Jintao, come confermato dall’agenzia di stampa cinese Xinhua.

          Anche su questo piano le reazioni americane e sudcoreane sono fredde.

          Il leadere coreano ha anche confermato di essere disposto ad intraprendere un cammino comune con la Corea del Sud per la denuclearizzazione completa della penisola coreana.

          Con questo incontro la Russia si pone come mediatrice nell’annosa questione che attraversa il 38° parallelo e come garante di un’apertura della Corea popolare.

          Nello stesso tempo, Pyongyang conferma che la sua strategia politica, pur energica e determinata, non è indirizzata a perseguire una politica aggressiva nei confronti del Sud.

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          Le relazioni russo-statunitensi, tra reset e nuovi screzi

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          Con il seguente articolo cercheremo di analizzare gli effetti dell’incontro Lavrov – Clinton e del caso Magnitsky sulle relazioni tra Mosca e Washington. Dopo un sintetico background dei principali problemi che i due Paesi dovevano discutere, analizzeremo successi e fallimenti dell’incontro citato per poi concentrarci sul’importanza della presa di posizione statunitense riguardo a Magnitsky e su quanto questo atto sembri conflittuale con la politica perseguita da Washington. Chiuderemo con alcune considerazioni sui possibili sviluppi futuri.

           

          Il recente viaggio della delegazione russa guidata dal Ministro degli Esteri Sergei Lavrov a Washington e l’incidente diplomatico scaturito dal caso Magnitsky fanno riaprire il dibattito sull’efficacia del c.d. reset delle relazioni russo-statunitensi voluto dal Presidente Obama. Nel seguente articolo cercheremo di fare il punto della situazione seguendo questo schema:

           

          – inizieremo con una breve presentazione della situazione diplomatica e dell’incontro Lavrov – Clinton;

          – in seguito, parleremo del peso del caso Magnitsky sullo stato delle relazioni tra i due Paesi;

          – concluderemo infine con delle valutazioni sugli eventi citati ed i potenziali sviluppi futuri;

           

          Apriamo la trattazione con alcune sintetiche note di background.

          Dal 2009, i Presidenti Obama e Medvedev hanno deciso di concerto di “ripartire da zero” in tema di relazioni internazionali tra i loro rispettivi Paesi, cercando di lasciarsi alle spalle le tensioni del periodo Bush jr. Il c.d. tentativo di reset ha visto le due controparti concentrarsi su di una rinnovata cooperazione, le cui principali tappe sono individuabili nei seguenti eventi: consenso di transito sul territorio russo per le truppe NATO operative in Afghanistan; lancio dell’accordo New START in tema di disarmo nucleare; operazioni antiterrorismo congiunte tra militari USA/NATO e russi.

           

          A fronte di questi successi, questo nuovo appeasement non è riuscito ancora a sciogliere alcuni nodi critici, si pensi ad esempio alle tensioni georgiane e le discussioni sulla difesa missilistica europea, senza dimenticare la “lotta per procura” in tema di approvvigionamento energetico dell’Europa, i nuovi screzi scaturiti dalla gestione della crisi libica e sulla gestione dei diritti umani sul territorio russo – con rinnovata attenzione al caso Magnitsky, di cui riparleremo infra.

          Su queste contrastanti basi è stato presentato, con grande spinta mediatica da ambo le parti, il viaggio di una delegazione del Cremlino a Washington, culminato con l’incontro tra il Ministro degli Esteri russo Lavrov e Hilary Clinton per il 13-14 luglio: scopo del meeting era quello di “fare il punto” sulla rinnovata cooperazione tra le due potenze, gettando le basi per lavorare sui futuri sviluppi delle relazioni diplomatiche tra i due Paesi.

           

          Ambo le parti hanno lasciato trapelare un notevole ottimismo sulle potenzialità dell’incontro. Anche sui media governativi del Cremlino si parlava di un meeting dai possibili grandi risultati, pur senza fornire le basi adeguate sulle quali costruire queste assunzioni. In una lunghissima intervista rilasciata al magazine online RT (ex Russia Today) una settimana prima della partenza per Washington, Lavrov ha sottolineato gli ottimi risultati raggiunti dal reset per poi sottolineare i punti caldi del meeting, in particolare in tema di cooperazione militare e diplomatica.

           

          Una volta concluso l’incontro, ambo le parti confermavano lo stesso entusiasmo ostentato in precedenza: limitiamoci per ora ad elencare i temi principali e gli accordi di massima.

          In tema di difesa missilistica europea si è parlato dell’intenzione di cooperare onde evitare screzi e di “impegno di Obama e Medvedev per intavolare una futura possibile cooperazione”, senza però dare né dettagli né calendari.

          Riguardo allo START, se ne è parlato solo per citarne “l’ottimo funzionamento”, senza ulteriori approfondimenti.

          E’ stato ovviamente citato il caso Libia, alquanto scottante viste le numerose critiche fatte dal Cremlino all’azione della NATO, senza contare il mancato appoggio di Mosca a qualsivoglia operazione militare sin dall’inizio della crisi. Ebbene, in questo frangente la Russia si è definita, nonostante alcune “leggere differenze”, “più vicina agli USA che all’Europa”, pur senza fornire basi pratiche a tale affermazione; la Clinton ha poi parlato dell’impegno ad accelerare il processo politico in Libia e la cacciata di Gheddafi.

          Si è parlato del caso del nucleare iraniano, riguardo al quale le due potenze hanno affermato l’impegno congiunto, nel quadro IAEA, per controllare l’azione del governo di Teheran.

          In tema commerciale, Lavrov ha riferito di un incontro positivo tra il Ministro russo per lo Sviluppo Economico Nabiullina ed Obama, per poi sottolineare come gli USA si siano definiti “ben disposti” a patrocinare l’ingresso della Russia nel WTO. Infine si è parlato di impegno a perseguire la semplificazione del regime di visti per viaggi d’affari e la cooperazione in tema di adozioni a distanza.

           

          Nonostante questo clima positivo – al quale hanno contribuito anche alcuni media – le relazioni tra i due Paesi hanno incontrato un nuovo punto di minimo a causa del ritorno in auge dell’impegno USA sul caso Magnitsky. Riassumiamo brevemente i fatti: Sergei Magnitsky era un legale della Hermitage Capital, coinvolto come testimone in un caso di corruzione di ufficiali governativi. In seguito, visto il suo interesse per faccende “scomode”, lo stesso Magnitisky è stato prima accusato e poi incarcerato per corruzione, per poi perdere la vita in carcere nel 2009, in circostanze poco chiare.

          Il Senato statunitense già dallo scorso maggio era al lavoro su di una proposta di legge – il Sergei Magnitsky Act – per creare una lista nera in tema concessione visti ai danni di soggetti coinvolti in atti lesivi verso attivisti russi per i diritti umani – progetto questo ampiamente mal visto dal Cremlino. Con l’entrata in vigore dell’atto, numerosi ufficiali governativi russi sono stati impossibilitati ad entrare in territorio USA, per lo scontento generale del governo di Mosca che ha immediatamente chiesto una revoca del decreto pena rappresaglie.

          La Casa Bianca ha risposto negativamente, in nome dell’impegno degli Stati Uniti nella promozione dei diritti umani in Russia come nel resto del mondo.

          La reazione di Mosca non si è fatta attendere: il Cremlino ha risposto con una blacklist uguale e contraria, che mette al bando ufficiali statunitensi coinvolti nei casi che vedono cittadini russi sottoposti a giudizio negli USA. Ma la rappresaglia non finisce qui: la Russia ha comunicato che, se la lista nera non sarà revocata, il supporto alle truppe NATO (in Afghanistan in particolare) potrà essere immediatamente interrotto, aprendo la porta ad una nuova crisi strategica tra le due potenze.

           

          Arricchiamo i fatti con un’ultima nota: il supporto militare russo alla Siria, altro topic ignorato durante il detto meeting, è stato denunciato pubblicamente il 12 agosto dalla Clinton stessa, che ne ha chiesto l’immediata cessazione. La risposta moscovita non è stata ancora resa pubblica.

           

          Sulla base di questi fatti, è opportuno fare alcune riflessioni, iniziando dai contenuti del tanto pubblicizzato meeting di Washington.

           

          L’incontro di luglio ha vagamente la connotazione di una sorta di evento “promozionale” per le relazioni internazionali dei due Paesi, più che un vero e proprio nuovo step nel riassetto dei rapporti tra le due potenze. Il meeting ha fondamentalmente confermato i risultati raggiunti dalle due nazioni tramite il dialogo, con alcune aggiunte configurabili un po’ troppo come di intenti e di principio che realmente pratiche. La vera novità giace sul piano commerciale e sull’integrazione russa nel sistema WTO, fattore da troppo tempo pendente e che di certo necessita di una soluzione. Tenere la Russia alla berlina è sempre stata una decisione statunitense, e dunque l’idea di integrazione di Obama si configura come un importante passo avanti nei rapporti tra i due Paesi. L’obiettivo USA è quello di sfruttare l’intesa economica come base per la normalizzazione permanente delle relazioni internazionali, accanto alla costruzione di una più salda base comune per il contenimento dell’Iran: in ogni caso, visto il comportamento storico degli USA, il fatto aiuta la percezione esterna a vedere il tutto come una vittoria diplomatica russa, che vede soddisfatte le proprie richieste di integrazione dopo “appena” 18 anni – tutto questo a danno ulteriore della reputazione della politica estera obamiana in patria.

          In ambito prettamente militare e strategico si sperava di più dal punto di vista del problema dei “nuovi euromissili” e di altri temi caldi, sui quali è ricaduto un assordante silenzio. Non si è parlato della situazione dei confini georgiani né degli interessi configgenti nel Caucaso, per non parlare dell’ “abitudine” russa ad approvvigionare di armamenti Paesi “non graditi” agli USA. Infine, anche le discussioni di principio sui diritti umani, tanto cari alla Casa Bianca solo quando non è lei a violarli, sono state assenti ingiustificate: tutto questo è, da un certo punto di vista, facilmente esplicabile in nome del generale clima di appeasement creato per e dal meeting. Parlare di Georgia e di carceri russe con Mosca è sempre motivo di screzio, e pertanto si è preferito lasciare tali questioni fuori della porta per porre l’enfasi sui risultati ottenuti – ed ottenibili – in altri campi.

          Ma proprio in quest’ottica sembra ancora più una “stecca” l’idea statunitense di fare muro sul caso Magnitsky: era ovvio che legiferare in quel modo sul tema si concretizzasse come una fortissima presa di posizione nei confronti dell’azione del governo russo sul proprio territorio, e che Mosca prendesse il tutto come una “invasione di campo” del proprio spazio giuridico e politico – attenendoci ai fatti, gli USA hanno oggettivamente legiferato per colpire cittadini di un altro Paese sospettati di crimini in un altro Paese.

          Washington ha fatto una tipica mossa da Guerra Fredda, atta a delegittimare internazionalmente il proprio avversario sul piano politico-internazionale senza badare troppo alle conseguenze di rappresaglia: e se davvero Mosca metterà in pratica quanto minacciato, l’intero lavoro del tanto decantato reset subirà una battuta d’arresto di proporzioni storiche.

           

          La politica di Obama oscilla tra tentativi di riconciliazione e azioni aggressive gestite in maniera opinabile e poco lungimirante, specchio dell’epoca di tensioni che si cerca forzosamente di superare, apparentemente senza averne la vera volontà politica: per ogni passo avanti se ne fanno due indietro.

          I rigurgiti di durezza nella politica della Casa Bianca potrebbero anche essere visti come un tentativo del governo di non alienarsi troppe simpatie sia nelle due Camere che nell’elettorato: la politica di Obama viene percepita come molto debole in maniera trasversale, e pertanto occasionali esibizioni di “muscoli” potrebbero aiutare il Presidente a mantenere la propria posizione alle prossime elezioni, o almeno dargli una mano in ambiti differenti dell’attività governo. Non dimentichiamo inoltre il ruolo della frangia libertaria, ancora più aggressiva nei confronti del Presidente rispetto ai repubblicani “ortodossi”: i vari supporters del Tea Party, nell’ambito della già attivata maratona elettorale di Ron Paul, si configurano come i principali demolitori della politica obamiana tramite campagne stampa capillari.

           

          Le anomalie politiche del Cremlino, invece, mettono Mosca in una posizione particolare. Il ruolo del “poliziotto buono” viene interpretato con perizia dal Presidente Medvedev, reduce da numerosi successi politici internazionali, mentre l’altra faccia del governo russo, Vladimir Putin, preferisce rappresentare ancora l’ideale di dura “politica di potenza” di una Russia vecchio stampo. Già poco dopo il ritorno di Lavrov in patria, Putin ha colto l’occasione per esprimere il suo dissenso vero la politica estera di Washington, con alcune affermazioni riconducibili più a delle minacce un po’ vuote che a delle vere e proprie dichiarazioni di peso – “minacce” che si sono intensificate dopo la pubblicazione della blacklist.

          La duplicità dell’esecutivo russo si può inquadrare come il tentativo di soddisfare al contempo delle esigenze di politica interna ed estera. Il Medvedev dai toni meno aggressivi, ufficialmente slegato dalle logiche della “vecchia Russia”, serve a presentare al mondo un Paese incline al dialogo e all’abbandono di vecchie rivalità. Putin invece rappresenta l’opposto, quello che piace alla maggior parte dell’elettorato di Russia Unita, e cioè un “duro” che è in grado di tener testa agli Stati Uniti e che può riportare la Russia agli antichi splendori. L’anomalia sulla quale si basa il sistema politico di Mosca si tramuta in un interessante punto di forza: il Cremlino ha sia un leader “per la nazione” che un leader “per l’estero”, potendo così mantenere una linea duplice senza perdere né consenso in patria né credibilità internazionale – cosa che gli USA non possono fare. Sarà comunque interessante vedere come si scuoterà questo equilibrio interno russo dopo le prossime elezioni, con un possibile “scambio di posto” tra i due politici.

           

          In conclusione, non resta che parlare del potenziale futuro delle relazioni russo-statunitensi.

          Allo stato attuale dei fatti, tiene banco il braccio di ferro innescato dagli USA sul caso Magnitsky: bisognerà vedere se l’escalation di rappresaglie partirà o meno. La Russia potrebbe certo giustificare l’interruzione dei buoni rapporti con gli USA sulla base del Magnitsky Act, ma un simile modus operandi potrebbe comunque rivelarsi un’arma a doppio taglio: si darebbe a Washington – e di conseguenza al resto del mondo – la dimostrazione di essere un Paese chiuso e un partner poco affidabile. Mosca potrebbe comunque disinnescare il problema allentando di poco la presa sui dissidenti (cosa che sta tentando di fare in questi giorni), quanto basta per recuperare punti all’estero e poter “controbattere” meglio gli USA, togliendo loro l’arma morale. Accanto a questo rimane il caso Siria – al momento solo embrionale – che comunque potrebbe essere un’ulteriore variabile di irrigidimento delle relazioni, tenendo in mente le pessime basi gettate con l’affare Magnitsky. Sperando che le prospettive di integrazione economica contribuiscano a mantenere savi i governi delle due potenze, non resta che attendere le prossime mosse del Cremlino per poter effettuare nuove valutazioni.

          *Giuliano Luongo collabora come analista per il progetto “Un Monde Libre” della Atlas Economic Research Foundation

           

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          Tripoli: capo di un gruppo islamista alla guida dei “ribelli” libici

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          Fonte: http://www.voltairenet.org/Tripoli-ex-lider-de-un-grupo

          La ribellione armata di Tripoli, secondo quanto riportato giovedì scorso dal giornale argentino El Khabar, sarebbe stata guidata da un ex emiro del Gruppo islamico dei combattenti libici ( (LIFG), Abdelhakim Belhadj. Secondo la stessa fonte, Abdelhakim Belhadj sarebbe stato detenuto, in passato, nel 2004, per fatti di terrorismo dagli statunitensi in Asia e in seguito inviato in Libia.

          Nel marzo del 2010, Saif Al Islam Gheddafi, figlio del leader libico, avrebbe liberato Belhadj in seguito ad una amnistia nazionale fatta per centinaia di islamismi (fondamentalisti) detenuti in Libia. Il gruppo di Belhadj, legato, secondo le autorità libiche, ad Al Qaeda, aveva dichiarato di rinunciare alla lotta armata.

          Secondo il quotidiano El Khabar, il fatto che proprio questo ex emiro –  fondamentalista, legato ad un gruppo islamico – sia stato nominato a capo della “liberazione” di Tripoli dai “gheddafiani”, dimostra che il salafismo (movimento sunnita che auspica un ritorno all’Islam originario basato sul Corano e la Sunna, ndr.) è predominante nell’opposizione armata libica, nota con l’etichetta di “ribelli”.

          Inoltre, la frequente apparizione di Belhadj sugli schermi di Al-Jazeera (TV che appartiene al Qatar, un paese coinvolto nell’attacco alla Libia con gli Stati Uniti, la Francia e  l’Inghilterra) fa prevedere un suo “ruolo chiave” nella Libia di domani.

          Si ricorda anche che Abdelhakim Belhadj, attualmente potente governatore militare di Tripoli del fronte dei “ribelli”, è  stato ospite nelle prigioni della CIA ed è noto alle autorità statunitensi.

          Meglio conosciuto in passato con il nome di Abdallah Abu al-Sadek, Abdelhakim Belhadj vanta un eccellente curriculum islamista. Coinvolto nello “jihad” in Afghanistan nel 1988, la sua organizzazione contava, prima degli attacchi dell’11 settembre a New York, due campi di addestramento in Afghanistan, dove sono stati accolti ed addestrati volontari stranieri di Al Qaeda. La sua collaborazione con i servizi segreti occidentali proverebbe che Al Qaida è stata sempre pilotata dalla CIA.

          Manifestazioni contro Muammar Gheddafi, al potere da oltre 40 anni, sono scoppiate in Libia a metà febbraio 2011, prima di tramutarsi in una ribellione, sostenuta militarmente dai paesi della NATO.

          Il 22 agosto i ribelli hanno – grazie all’aiuto militare delle potenze occidentali – finalmente preso la capitale, ed ora controllano più del 90% del territorio. Tuttavia, finora, ci sono ancora molte sacche di resistenza pro-Gheddafi in città.

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          Thierry Meyssan del Réseau Voltaire e gli altri giornalisti salvi a La Valletta

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          Réseau Voltaire: http://www.voltairenet.org

          Riportiamo una lettera giunta in Redazione da Thierry Meyssan, fondatore di Réseau Voltaire di Axis for Peace, concernente il suo viaggio da una Tripoli in preda  ai “ribelli” del CNT.

          La Valletta (Malta) – 29 agosto 2011 ore 14: 37

          Cari amici,

          52 persone sono riuscite a fuggire a bordo di un piccolo peschereccio, dopo lunghe trattative multilaterali. Siamo arrivati tutti al sicuro a La Valletta (Malta) dopo 36 ore di mare. Tutti, compresi i nostri amici di PressTV e Telesur.

          Al nostro arrivo a Malta, ha avuto luogo una piccola cerimonia con le autorità locali e tutti gli ambasciatori interessati alla nostro viaggio, ad eccezione di quello francese che era indispettito.

          Ne prossimi giorni, dopo un momento di indispensabile riposo vi fornirò alcuni dettagli

          Grazie a tutti. Il vostro impegno è stato grande. Vi dobbiamo la vita.

          Thierry

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          Avevamo visto giusto: vanno all’attaco dell’oro dell’Italia

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          href=”http://attiliofolliero.wordpress.com/2011/08/30/avevamo-visto-giusto-vanno-all%e2%80%99attacco-dell%e2%80%99oro-dell%e2%80%99italia/”>30/08/2011 por

          Fonte: http://attiliofolliero.wordpress.com/2011/08/30/avevamo-visto-giusto-vanno-all%E2%80%99attacco-dell%E2%80%99oro-dell%E2%80%99italia/

          Caracas 28/08/2011

          Avevamo visto giusto, quando in un nostro precedente articolo avevamo parlato di “attacco all’oro dell’Italia”.

          Romano Prodi scrive al Sole24ore e propone come soluzione alla crisi gli EuroUnionBond (Eb)! Scrive testualmente il Romano Prodi: “Noi crediamo invece che gli Eb servano all’unità, alla stabilità e alla crescita dell’Unione economica e monetaria (Uem) e all’euro e quindi alla Ue. Bisogna però progettare bene gli Eb partendo da una impostazione economico-istituzionale che adotteremo nel seguito (senza rinvii ad altre, salvo a una di Quadrio Curzio sul Mulino 2/2011)”

          Prima di vedere come saranno impostati gli Eb, vediamo chi li ha proposti, prendendo a prestito sempre le parole di Prodi: “Questi titoli dei debito pubblico “europeo” sono stati presentati come mezzo per ristrutturare i debiti pubblici nazionali degli Stati membri della Uem. L’abbiamo avanzata in molti mentre altri l’hanno criticata. Nel dicembre 2010 la proposta è stata fatta sul Financial Times da due ministri dell’economia: Jean-Claude Juncker (presidente dell’eurogruppo) e Giulio Tremonti”.

          Il Financial Times di Londra! Gli attacchi all’Italia non sono arrivati proprio dagli anglosassoni? Passaiamo all’impostazione di questi Eb, sempre utilizando le parole di Prodi. Ovviamente, per la lettera integrale che illusra il progetto del signor Romano Prodi rimandiamo a Ilsole24ore; qui citiamo l’ultima parte che ci interessa: “L’Italia dovrebbe conferire 180 miliardi di euro in totale di cui 79 milioni di once in riserve auree, valutabili oggi a circa 101 miliardi di euro, più altri 79 miliardi di euro che a nostro avviso dovrebbero essere azioni di società detenute dal ministero dell’Economia (Eni, Enel, Finmeccanica, Poste ecc). Società che oggi non sono privatizzabili, dati i prezzi di mercato …”

          E bravo il signor Prodi! Dopo aver svenduto il “carrozzone” dell’IRI, adesso ci vuole far perdere pratcamente quasi tutto l’oro e le imprese che non possono essere privatizzate perchè valogono pochissimo per via dei prezzi di mercato”. Pero’ tutte insieme (Eni, Enel, Finmeccanica, Poste ecc…) le cediamo in garanzia per ottenere prestiti a lungo termine, gli Eurobond. Il signor Prodi ci sta dicendo che le migliori imprese italiane, in tutto o in parte ancora in mano allo stato, valgono 79 miliardi, ossia meno degli interessi sul debito che annualmente paga l’Italia!

          Altro bell’affare che si prepara per l’Italia, per il popolo italiano! Mentre le banche centrali di tutti i paesi del mondo cercano di comprare oro per pararsi il fondoschiena, il Prodi nazionale lavora per farcelo perdere, ovviamente assieme alle ultime imprese ancora in mano allo stato

          Purtroppo l’Italia, anzi gli italiani dopo aver fidato in Berlusconi, tra i peggiori governi della storia d’Italia, sicuramente rimetterà in gioco il Prodi nazionale o un suo sostituto, al fine di farsi derubare (il termine giusto) delle ultime ricchezze, appunto l’oro e le ultime imprese pubbliche, senza dimenticare le imprese municipalizzate, di cui nella lettera di Prodi non c’è cenno, ma quell’eccetera posto dal Prodi bnen potrebbe rimandare a queste.

          Il signor Prodi, il futuro governante dell’Italia (lui o un suo alter ego) invece di pensare a come riattivare la domanda, a come creare occupazione, a come permettere la crescita del paese e quindi anche l’aumento delle entrate dirette ed indirette dello stato e per conseguenza la riduzione del debito, lui pensa solo a come ristrutturae il debito con gli EuroUnionBond, ossia sostituire il debito attuale con altri debiti, sia pure a lungo termine, garantiti dall’oro e dalle ultime imprese pubbliche.

          Nelle sue precedenti attuazioni al governo del paese, il signor Prodi (o chi per lui, Amato, Ciampi, Draghi, ecc…) ci fece incassare qualche soldo dalle privatizazioni, che sevirono a dare l’illusione di una riduzione del debito, ma poi questo debito prese a carescere ancora più di prima sia perchè i governanti che si sono succeduti in questi ultimi vent’anni hanno continuato a spendere sempre più di quanto avevano a disposizone, sia perchè sono venuti a mancare gli introiti derivanti dalle imprese svendute.

          Adesso il signor Prodi (o chi per lui),  in combricca con Berlusconi/Tremonti (che hanno preparato il terreno con il comma 18 dell’art. 10 della Legge Finanziaria 2011) ci farà alleggerire anche delle ultime imprese pubbliche e di tutto l’oro dello stato (la quarta riserva in assoluto al mondo) e l’Italia si ritroverà sempre più nei guai, o meglio il proletariato italiano si ritroverà nei guai; il capitale che ancora non è andato via dal Belpaese, andrà via a breve e quindi la prospettiva per il l’Italia è veramene nera, nel senso che il popolo sempre più affamato, prima o poi esploderà e dato che le repressioni non si addicono ai regimi democratici, per poterle fare non si esiterà al ricorso alla dittatura. Da anni stiamo avvertendo qual è il reale pericolo cui va incontro l’Italia. Il cerchio si chiude.

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          Islam e Europa: una reazione uguale e contraria

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          Fonte: Eric Walberg.com

          Così funziona una delle leggi fondamentali della fisica. A fronte delle recenti “azioni” nell’Occidente –la crisi economica e la rampante islamofobia-, vi è un’inesorabile “reazione”, cosicchè gli eterni valori dell’Islam continuano a manifestarsi, nota Eric Walberg.

          Il Ramadan esemplifica il potere della chiamata spirituale dell’Islam. Il rigido digiuno è più una prova per la spiritualità, per la volontà, un segno di devozione, che un semplice espediente sanitario. Ed è proprio questo culto dello “spirito al di sopra della materia” che frustra i secolaristi occidentali, così abituati a ridurre ogni mania dei consumatori  a un capriccio. Perché i musulmani sono così determinati nell’alimentare credenze e rituali antichi mentre decollano in direzione della società capitalista moderna? Critiche secolari archiviano l’Islam come un dannoso, se non pericoloso, anacronismo. Perché interrompere cinque volte la giornata lavorativa di un uomo per pregare, rallentare l’intero ordine economico per un intero mese ogni anno, vietare l’alcool e gli interessi – i pilastri della società occidentale?

          Il ricco e compiaciuto occidente secolare, dopo secoli di conquiste e dopo l’imposizione dei suoi domini coloniali e ora neocoloniali, si è ritrovato ora in un ossessionante vicolo cieco. Guerre, rivolte, dipendenza da droghe, corruzione, carestie, catastrofi ecologiche… C’è poco di cui rallegrarsi e non si trova una spiegazione coerente della situazione stagnante e del proseguimento che si prospetta. Dunque la pretesa che il mondo musulmano segua le orme dell’occidente sembra vana.

          Per i non credenti, esistono leggi sociali che possono aiutare a capire il continuo rilievo dell’Islam. Una di queste è il detto di Mayer Rothschild: “Dammi il controllo del denaro di una nazione e non mi preoccuperò di chi ne fa le leggi”. L’altra è quello di Carl Clausewitz: “La guerra è la continuazione di una certa politica tramite altri mezzi”. Insieme, essi intendono sottolineare i problemi economici e politici che hanno portato alla crisi attuale. In sintesi, il dominio delle banche (in opposizione ai governi che rappresentano la volontà popolare) sul controllo della politica economica ha creato un mondo in cui la politica è asservita ai loro bisogni (interessi e profitti), e la politica che promuove gli interessi delle banche è – basta guardarsi attorno – fatta di guerra e speculazione (si legga: saccheggio e furto).

          Questa è la “logica” base della società occidentale moderna, specialmente negli ultimi tre decenni, dopo lo smantellamento,  lo screditamento, e bene o male l’assorbimento all’interno dell’ordine economico occidentale dell’alternativa al capitalismo, l’Unione Sovietica. Questo trionfo sul “nemico” ha sgombrato il campo al meccanismo Rothschild-Clausewitz. Si decanta la democrazia elettorale, ma questa è solo una banale facciata, poiché mentre l’opinione pubblica rifiuta ampiamente la guerra e l’egemonia dei banchieri, nessun partito politico è in grado di essere eletto per rappresentare questo volere popolare.

          I credenti non hanno bisogno di spiegazioni sul perché o sul come dell’avanzata dell’Islam e del terribile vicolo cieco in cui si trova l’occidente. L’Islam promuove un ordine sociale in cui non vi siano usurai parziali che usano il loro monopolio finanziario per controllare l’economia e la politica, un ordine sociale in cui la pace (l’Islam) è il più grande successo della società, l’obiettivo di ogni “politica”, a cui tutti debbano sottomettersi. Se venisse presentata una scelta tra il caos attuale e la vera alternativa islamica, vi sono pochi dubbi che l’alternativa islamica sarebbe la scelta plebiscitaria della gente comune, sia in Europa che in America, nonostante il fatto che i musulmani rappresentino solo il 2-8 per cento della popolazione in occidente.

          ***

          Di certo questo ordine sociale è l’ideale. La storia dell’Islam ha attraversato alcuni periodi con governi retti e altri con governi tutt’altro che retti. Esso ha avuto inizio con vittorie militari e con la diffusione del Califfato dall’Atlantico al Pacifico. La maggioranza delle popolazioni conquistate decise di adottare questa religione efficiente, convertendosi dal politeismo, dal Buddismo, dal Cristianesimo e dall’Ebraismo, ma non, contrariamente ad un pregiudizio occidentale, “tramite la spada”. In tutti i vari ordini politici islamici, i Cristiani, gli Ebrei e gli altri hanno continuato a professare la propria fede, godendo di una pacifica coesistenza con i musulmani. Non c’è stato alcun periodo di conquista imperiale e di genocidio equivalente all’ordine imperiale occidentale in atto dal quindicesimo secolo ad oggi.

          La marcia dell’Islam verso Ovest fu fermata dalla Spagna e alle porte di Bisanzio dall’imperatore Carlomagno nel nono secolo. La penisola iberica – Al-Andalus – fu la perla della civilizzazione islamica tra il 711 e il 1492, come provincia del Califfato degli Omayyadi, e in seguito del Califfato di Cordoba e dell’Emirato di Ganada.

          Gli islamofobi ritraggono oggi l’Europa come in pericolo di una nuova conquista musulmana, e i politici e i mass media aizzano persone come il norvegese  Anders Breivik, che invoca la pulizia etnica di tutti i musulmani dall’Europa, similmente a quando i conquistatori cristiani espulsero musulmani e ebrei in seguito alla Reconquista spagnola nel quindicesimo secolo. Ma si consideri per un momento l’eredità della Spagna moresca. Questo periodo ha visto Musulmani, Ebrei e Cristiani vivere in armonia, creando una società prosperosa, pacifica, in uno dei momenti più alti della Storia spagnola. Sotto il Califfato di Cordoba, Al-Andalus divenne un faro della cultura, e la città di Cordoba diventò uno dei centri  culturali ed economici più importanti del bacino del Mediterraneo e del mondo islamico.

          Come parte dell’Alleanza delle Civiltà, la Spagna sta riscoprendo oggi questa epoca aurea, avvenuta prima della riconquista cristiana della Spagna che ha visto torture, omicidi, conversioni forzate e espulsioni di musulmani e ebrei, e il genocidio di nativi americani in seguito alla “scoperta” del continente americano di Cristoforo Colombo.Mentre Al-Andalus è durata otto secoli, il periodo post-islamico della Spagna è durato solo sei secoli, e soffre la povertà se comparato all’età aurea islamica che l’ha preceduto.

          Ciò è stato riconosciuto dall’attuale leader spagnolo, il Primo Ministro socialista Josè Luis Rodrìguez Zapatero, quando ha co-sponsorizzato l’Alleanza delle Civiltà insieme al Primo Ministro turco Recep Tayyip Erdogan nel 2005, come un modo per “creare un ponte sulla frattura” tra Occidente e Islam, tramite progetti per i giovani, educazione, media e migrazione. Si sono tenuti dei convegni a Madrid (2008), Istanbul (2009) e Rio de Janeiro (2010).

          Data la corrente tirannia del denaro che caratterizza la civiltà occidentale, non è sorprendente che il tentativo di Zapatero/Erdogan di portare pace e comprensione tra le fedi in contatto in Spagna e nel Medio Oriente sia accolta con scherno e risentimento da Israele e dai suoi  sostenitori nell’Occidente. Primatisti israeliani come Soeren Kern stravolgono le ottime mosse in direzione del dialogo tra Est e Ovest come una copertura per “le nazioni musulmane nel Golfo Persico e in Nord Africa che stanno contribuendo con grosse somme di denaro a gruppi in città e cittadine in Spagna”.

          Eppure in Europa è in atto una dialettica più duratura. Nonostante gli sforzi energetici delle lobby israeliane di oscurare l’Islam, l’ondata repulsiva contro I’apartheid israeliana continua a crescere in Europa, e specialmente in Spagna. Ilan Pappe descrive come tutti gli ambasciatori israeliani in Europa sono più che lieti di terminare i loro mandati, accusando la propria inabilità di parlare nei campus e lamentandosi dell’atmosfera generalmente ostile in Europa in questi giorni. L’ambasciatore israeliano in Spagna, Raphael Schutz, ha appena terminato il suo mandato a Madrid, e in un articolo di opinione sull’edizione ebrea dell’Haaretz ha sommarizzato cioè che aveva appena terminato come una permanenza assai spiacevole, aggiungendo di essere stato vittima dell’antico antisemitismo locale, e ha comparato la situazione a quella dell’Inquisizione di cinque secoli fa.

          In “Perché gli Spagnoli ci odiano” Schutz sostiene che il popolo spagnolo è anti-israeliano perché è antisemita nel subconscio, e ancor’oggi approva l’Inquisizione. Egli ignora il fatto che furono i Musulmani le principali vittime dell’Inquisizione, e che gli Ebrei combatterno e soffrirono fianco a fianco ai loro alleati musulmani quando gli invasori cristiani invasero la Spagna. Affermare che gli spagnoli che criticano Israele sono razzisti e motivati dalla bigotteria cristiana vecchia 500 anni piuttosto che dalle politiche criminali di Israele è solo un debole attentato alla hasbara (diplomazia pubblica) da parte di disperati diplomatici israeliani che hanno perso da molto tempo la battaglia morale in Europa.

          ***

          I Kern e gli Schutz sono supportati dalla vera Inquisizione di oggi, il Centro Nazionale di Intelligence (CNI), che ha pubblicato a luglio un rapporto in cui informava di decine di milioni di dollari in arrivo in Spagna dal Kuwait, dalla Libia, dal Marocco, dall’Oman, dal Qatar, dagli Emirati Arabi Uniti e dall’Arabia Saudita per supportare i musulmani, e in cui richiedeva uno stretto monitoraggio di questi fondi. Il resoconto del CNI suggeriva che questo denaro potesse essere usato per promuovere tribunali islamici, allontanare le ragazze dalle scuole, e incoraggiare matrimoni forzati. L’istantanea risposta del governo spagnolo è stato l’appello all’incanalazione di tutte le donazioni dagli stati del Golfo arabo attraverso una “Commissione Islamica di Spagna” controllata dal governo.

          Mentre il CNI si occupa unicamente della necessità di monitorare i fondi, persone come Kern obiettano che tutto ciò fa parte di una cospirazione dei paesi musulmani per riprendere il controllo della Spagna.  Egli accusa “gli EAU, insieme a Libia e Marocco”, che hanno contribuito alla costruzione della Grande Moschea di Granada.  Come dice Abdel Haqq Salaberria, un portavoce della moschea, “ciò fungerà da punto focale per il risveglio dell’Islam in Europa. È un simbolo del ritorno all’Islam tra la gende spagnola e tra gli indigeni dell’Europa”. Ancor peggio per gli islamofobi, i musulmani a Cordoba stanno chiedendo al governo spagnolo di permettere loro il culto nella cattedrale principale, che originariamente era la Grande Moschea di Al-Andalus ed è oggi un Patrimonio Mondiale.

          Soffermandosi sul finanziamento saudita alla costruzione dei Centri Culturali islamici e delle moschee a Madrid e altrove, Kern evoca lo spauracchio del Wahhabismo saudita, sostenendo che molti musulmani immigrati in Spagna siano poveri, e che il loro tenore di vita ed il basso livello d’istruzione li rendano suscettibili alla propaganda saudita, ignorando il fatto che l’Arabia Saudita è un vicino alleato degli USA, che il Wahhabismo è la branca più moderata dell’Islam, e che l’unico vero modo per migliorare la situazione della sicurezza è incrementare il tenore di vita e il livello di educazione dei poveri.

          Nonostante questo gridare “Al lupo!”, sono in atto tentativi di reintegrare l’Islam nella fabbrica della cultura spagnola. Di recente il Marocco ha co-sponsorizzato un seminario a Barcellona intitolato “Valori musulmani ed europei”, spiegando che la costruzione di grandi moschee potrebbe essere “una valida formula” per combattere il fondamentalismo islamico in Spagna. Secondo Noureddine Ziani, un immam marocchino stabilitosi a Barcellona, “È più facile disseminare idee fondamentaliste in piccole moschee stabilite in garage, piuttosto che in grandi moschee che sono aperte a chiunque”. Usando questa logica molto ragionevole, la Spagna dovrebbe accogliere più fondi libici per le Grandi Moschee, piuttosto che partecipare all’impegno NATO per la distruzione dello stato libico e per la creazione di un campo fertile per il terrorismo.

          Ziani ha anche affermato che i valori islamici sono compatibili con i valori europei e che la cosiddetta civilizzazione “giudeo-cristiana” occidentale è in realtà “islamico-cristiana”. Il costrutto culturale “eredità giudeo-cristiana” è entrato nella nostra lingua solo negli anni quaranta in reazione al Nazismo, ed è usata dall’elite imperiale nel suo “scontro tra civiltà” contro l’Islam. Un concetto utile per un impero in larga parte cristiano in cui le elite ebree hanno un ruolo dominante, ma che è rifiutato dagli studiosi seri, sia cristiani che ebrei. Lo studioso del Talmud Jacob Neusner lo chiama “un mito secolare promosso da persone che a loro volta non ci credono davvero”. Non solo Ziani, ma anche studiosi americani come Richard Bulliet sono a favore dell’uso di “islamico-cristiana” per caratterizzare la civiltà occidentale.

          La Spagna ha subito numerosi attacchi terroristici a ridosso dell’11 settembre, in particolare le bombe dell’11 marzo 2004 a Madrid, ma non è mai stata presentata alcuna prova che suggerisse che Al-Qaeda o i musulmani ne fossero gli artefici. Molti osservatori hanno individuato i Baschi e altri movimenti indipendentisti come i colpevoli, o addirittura la stessa polizia spagnola come parte di un’operazione sotto falsa bandiera. La realtà della Spagna oggi è che non esiste alcuna minaccia esterna dall’Islam, ma al contrario un disagio domestico dovuto alla crisi economica e alla paralisi politica.

          Questa fosca situazione ha spinto i giovani aventi diritto a boicottare le elezioni in Spagna a maggio e –ironicamente—a emulare i loro eroi, principalmente musulmani, della Primavera Araba costruendo tendopoli per protestare contro la mancanza di una democrazia effettiva. Come i rivoluzionari egiziani hanno preso in prestito le loro tecniche dalla controparte occidentale per abbattere i loro padroni, così gli Spagnoli li stanno imitando a loro volta –una vera Alleanza di Civiltà. Giovani europei, statunitensi e canadesi sono allo stesso modo impressionati dalla perseveranza e dalla risoluzione dei Palestinesi contro Israele e i suoi sostenitori, un’inquisizione giudaico-cristiana del ventunesimo secolo che perseguita i musulmani, non solo in Palestina, ma nella cosiddetta Eurabia e in Nord America.

          Gli islamofobi plasmano la verità a proprio favore, attaccando l’Alleanza delle Civiltà come un “ponte a senso unico” che mina dalle fondamenta la società europea. Ma le relazioni dell’Occidente con il mondo arabo mostrano esattamente l’opposto –l’Occidente ha invaso e continua a cercare di plasmare il mondo musulmano per adattarlo ai requisiti del capitalismo. Tenere conto del fatto che i Musulmani si reggano con decisione alle proprie credenze e tradizioni costituisce un importante contributo alla ricerca di una via di uscita per un mondo tormentato dalla crisi.

          Le rivolte in Gran Bretagna provano che i Musulmani sono un beneficio per la società europea, dal momento che sono intrinsecamente pacifici e ubbidienti. I Musulmani della East London Mosque e l’Islamic Forum Europe hanno giocato un ruolo importante nell’aiutare a combattere i saccheggi e a preservare la salute pubblica. Tre musulmani sono morti a Birmingham mentre difendevano negozi dai saccheggiatori, benchè dai media furono semplicemente chiamati asiatici. “Quando accusati di terrorismo siamo musulmani, quando veniamo uccisi da saccheggiatori diventiamo asiatici”, ha detto con amarezza uno studente musulmano ad Al-Jazeerah.

          Piuttosto che lo “scontro tra civiltà” evocato dagli islamofobi, coloro che vorrebbero una giustizia sociale ed economica possono trovare ispirazione nelle eterne verità dell’Islam, guardando all’eredità –passata e presente—islamico-cristiana propria dell’Europa per scoprire un’alleanza di civiltà che rifiuta la guerra, il furto, la degenerazione morale e il razzismo. Questa è la lezione che il Ramadan offre all’Occidente oggi.
          Traduzione di Alessandro Parodi

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          UE e Islanda: le prospettive di un allargamento

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          Con la seconda riunione della conferenza di adesione con l’Islanda tenutasi lo scorso 27 giugno, hanno preso il via i negoziati sostanziali di ingresso dell’isola all’Unione Europea. I lavori sono accompagnati da molti dubbi all’interno dell’UE, a causa del crack finanziario delle principali banche islandesi del 2008, che ha prodotto un enorme debito nei confronti dei contribuenti di Olanda e Regno Unito. I due Paesi hanno richiesto un risarcimento a Reykjavik, ma la popolazione islandese, in due consultazioni referendarie consecutive, ha bocciato l’accordo che prevedeva il rimborso attraverso denaro pubblico. Per quanto l’eventuale ingresso dell’isola possa apportare benefici all’UE, questo mancato risarcimento ad Olanda e Regno Unito – congiuntamente alle questioni relative alla riforma della politica comune della pesca – potrebbe essere un ostacolo per il nuovo allargamento europeo.


          Relazioni storiche fra Islanda e UE

          L’Islanda, in passato, non ha mai palesato la volontà di un vero coinvolgimento nella politica di integrazione europea ed ha per lungo tempo limitato il suo interesse alla sola cooperazione economica con i Paesi del Nord Europa. Nella metà degli anni Cinquanta, aderì al “Nordic Council”, un’associazione che gestisce rapporti privilegiati fra tutti i Paesi scandinavi, ma che non ha mai avuto un confronto su temi politici veri, per cui è rimasta solo un forum per dibattiti fra Stati affini.

          Dal 1970 entrò, come associata, nell’EFTA (European Free Trade Association, 1959), di cui già facevano parte Austria, Danimarca, Svezia, Svizzera, Portogallo, Norvegia e Regno Unito e a cui si aggiunsero successivamente Finlandia e Liechtenstein. Questa organizzazione fu creata su iniziativa della Gran Bretagna come alternativa alla Comunità Economica Europea e, quando essa stessa ne uscì nel 1973 per aderire alla CEE, l’associazione perse di importanza. Oggi parte di questi Paesi sono entrati a far parte dell’UE, cosicché l’EFTA risulta essere formata da Norvegia, Liechtenstein, Svizzera e Islanda, appunto. Il motivo per cui l’Islanda aderì a quest’area di libero scambio è da ricercare nella tipologia della sua economia a “senso unico”, ossia incentrata sulla pesca quale suo unico traino produttivo. L’EFTA ha lo scopo di favorire gli scambi economici e commerciali tra i Paesi membri attraverso una progressiva riduzione delle tariffe doganali interne. Tuttavia, fino a tutti gli anni Ottanta, l’Islanda aveva tra i Paesi della Comunità Europea i principali partners commerciali. Di fatti, e in linea con lo spazio EFTA, nel 1972 il Paese sottoscrisse un accordo bilaterale di libero scambio con la CEE, che poté rafforzarsi nella seconda metà degli anni Ottanta quando iniziò una più stretta integrazione fra le due organizzazioni regionali CEE ed EFTA basata non più su accordi bilaterali fra i singoli Stati.

          Il Presidente della Commissione Jacques Delors, sulla base del Libro bianco del 1985, in cui egli stesso tracciava le linee per il completamento del mercato unico, propose una nuova formula di collaborazione: la SEE (Spazio Economico Europeo). Nel 1994 l’Accordo SEE entrò in vigore con lo scopo di creare una zona di libero scambio tra gli Stati dell’UE e i tre dell’EFTA (la Svizzera ne aveva bocciato l’adesione in seguito a referendum nazionale). L’Accordo SEE voleva creare un mercato unico basato sull’aquis communautaire, nonché, quindi, sulle quattro libertà fondamentali (libera circolazione di merci, capitali, servizi e persone) e sulle norme sulla concorrenza. Nell’accordo non vennero tuttavia incluse le politiche comuni in materia di agricoltura e pesca. Lo spazio SEE acconsentiva, dunque, ai Paesi che ambivano alla membership dell’UE di compiere un primo importante passo per un progressivo adeguamento a tutti i vincoli comunitari e permetteva a chi volesse tenersi fuori dal processo di integrazione comunitaria di rimanere solo legato a vincoli associativi.

          In effetti, gli aspetti più difficili da gestire, per l’Islanda, sono da sempre quelli relativi alla Common Fishery Policy dell’UE. La CFP definisce per ciascun Stato membro, delle quote di pescato per ciascuna specie e promuove l’industria ittica mediante l’utilizzo di strumenti regolativi e sostegno al mercato. Dal 2009, con il Trattato di Lisbona, il settore della pesca è diventato un’area di competenza esclusiva dell’UE.

          L’Islanda ha sempre ritenuto che senza pesca il Paese non potesse produrre ricchezza. In questo senso Reykjavik ebbe un lungo contenzioso con la Gran Bretagna (le cosiddette “Guerre del merluzzo”) a causa della delimitazione delle proprie acque territoriali – da 4 a 50 miglia dalla costa – che si conclusero nel 1976 con un accordo provvisorio, ma ancora in vigore, che ha fissato il limite a 200 miglia. E quanto la pesca sia importante lo dimostrano i dati sulle esportazioni: tra il 1991 ed il 1995, il 77% delle esportazioni furono prodotti ittici e il Paese è stato tra le prime venti nazioni al mondo per volume di pesca. Di contro, l’agricoltura è quasi assente e l’industria non soddisfa i consumi interni.

          Nell’ultimo decennio l’Islanda si è trasformata da sola industria della pesca in un Paese dai sofisticati servizi finanziari, dando input ad un nuovo tipo di economia. Tuttavia, la crisi bancaria e valutaria che ha colpito il Paese nell’ottobre del 2008 ha condotto le due principali banche islandesi, la Icesave e la Landsbanki, ad essere sottoposte a procedimento di liquidazione. Le passività delle banche ammontano a circa 3,8 miliardi di ISK (corona islandese). Dapprima il Governo ha chiesto l’assistenza del Fondo Monetario Internazionale (FMI), poi ha nazionalizzato le banche, il che ha comportato l’assunzione da parte del Paese dei debiti contratti dai due istituti bancari.

           

          Rapporti attuali con l’Unione Europea

          Lo spazio SEE diede, perciò, all’Islanda la possibilità di cooperare con l’Unione Europea, senza entrare a farne parte pienamente. Ciò permise comunque l’adesione al Trattato di Schengen di cui applica le disposizioni relative all’abolizione dei controlli alle frontiere, il rilascio dei visti, la cooperazione ed il coordinamento tra i servizi di polizia e le autorità giudiziarie (EUROPOL). Il Paese applica, altresì, il Regolamento di Dublino II, (2009) in merito alle richieste d’asilo nell’UE. Il Paese partecipa anche, sia pure senza diritto di voto, in un certo numero di agenzie e programmi dell’UE, che riguardano: impresa, ambiente, istruzione e ricerca, contribuendo finanziariamente alla coesione sociale ed economica nell’UE.

          Il 17 luglio 2009 l’Islanda ha presentato domanda di adesione all’UE e il Consiglio Europeo le ha conferito lo status di candidata ufficiale nel giugno 2010. Nel giugno 2010, a Bruxelles, sono iniziati i negoziati di adesione, dopo che la Commissione ha concluso la propria valutazione sulla situazione islandese, affermando che il Paese rispetta in larga parte i principi e i valori dell’UE, come stabilito dai criteri di Copenaghen nel 1993. Infatti, sul piano politico, l’Islanda gode di una forte tradizione democratica e di istituzioni stabili, nonché di un sistema completo di protezione dei diritti fondamentali. Tuttavia, Reykjavik dovrà rafforzare l’indipendenza della magistratura e la prevenzione dei conflitti di interesse e, a tal proposito, il sistema di nomina della magistratura dovrà essere rivisto. Per quanto riguarda l’adeguamento alla legislazione comunitaria, i negoziati prevedono 35 capitoli di diritto europeo ai quali il sistema islandese, in virtù anche dell’Accordo SEE, è già quasi in linea. Restano dubbi, invece, per quanto riguarda il criterio economico: Reykjavik deve restituire 3,8 miliardi di euro ai depositanti di Olanda e Regno Unito. Il piano del rimborso ai due Paesi è stato bocciato con il 60% dei voti dai contribuenti islandesi in due referendum, l’ultimo dei quali avvenuto lo scorso 11 aprile. Il rimborso avrebbe fatto gravare sulla popolazione un debito di circa 12.000 euro pro-capite. Oltre al risanamento del bilancio, il Paese dovrà quindi ristrutturare l’intero comparto finanziario e migliorare la vigilanza su di esso.

           

          Prospettive future

          L’ingresso dell’Islanda apporterebbe notevoli vantaggi all’UE. In primo luogo, l’isola è di grande importanza strategica per Bruxelles dal punto di vista economico-commerciale, grazie all’ampia estensione delle acque territoriali, le più pescose del pianeta e di esclusivo sfruttamento dei pescatori islandesi. Inoltre, l’eccezionale disgelo dell’estate 2008 ha riacceso le mire di molte nazioni nordiche che ambiscono a metter le mani sulle ricchezze dell’Artico, importante fonte di materie prime, sia per l’Islanda che per i Paesi nordici. Secondo lo United States Geological Survey, nei fondali artici ci sarebbero 90 mld di barili di petrolio, 47 mila miliardi di m3 di gas, grandi giacimenti di gas liquefatto, metalli e minerali.

          L’Islanda ha altresì, numerose centrali geotermiche, come quella  di Leirhnjùkur nella grande area vulcanica di Krafla e di Nesjavellir, che sfruttano il calore conseguente all’intensa attività eruttiva e che sono in grado di produrre energia per tutto il Paese e che, quindi, potrebbero costituire fonti essenziali per l’approvvigionamento energetico europeo. Sulle potenzialità energetiche puntano molto anche multinazionali, come le americane Alcoa e Rio Tinto e l’italiana Impregilo, impegnate nella costruzione di due fonderie di alluminio, oltre alle tre già esistenti sull’isola, le più grandi d’Europa. Gli stabilimenti dovrebbero essere completati entro due anni e portare risorse e lavoro al Paese. Vi è poi il caso della Magma Energy che, con un accordo di 322 milioni di euro volto a privatizzare buona parte del settore dell’energia geotermica, ha acquisito, prima del crollo del sistema bancario nazionale del 2008, una delle principali società energetiche islandesi, la HS Orka, dando avvio ad un processo di privatizzazione dell’energia geotermica, considerata patrimonio nazionale islandese.

          Infine, a causa del surriscaldamento del pianeta, la calotta artica si è ridotta sensibilmente e nell’estate del 2008, per la prima volta nella storia, si sono estesi gli accessi a Nord-Est (sopra la Russia settentrionale) e a Nord-Ovest (sopra l’Alaska). L’Islanda, più di ogni altro Paese, offrirebbe quindi all’UE, la possibilità di proiettarsi verso lo spazio artico e di sfruttarne le nuove possibili rotte commerciali.

          In ultimo, tra i vantaggi dell’adesione, come ha affermato il Presidente della Commissione europea Barroso nel 2010, favorevole alla decisione islandese, vi sarebbe quello di dimostrare che l’UE è una realtà interessante, anche con i suoi problemi finanziari, capace di ridare un segno di vitalità al progetto europeo.

          Tuttavia, nel caso in cui l’Islanda riuscisse a portare a termine in un breve periodo i negoziati di adesione, vi è il rischio di creare un precedente, poiché anche altri Paesi, con le stesse difficoltà economiche, potrebbero avanzare le proprie richieste e far valere le proprie ragioni per entrare a far parte dello spazio comunitario.

          In caso di adesione l’Islanda dovrebbe in secondo luogo pensare alla condivisione delle risorse ittiche, tema spinoso per l’opinione pubblica islandese, la quale potrebbe rifiutare l’eventuale membership in un referendum. Secondo l’ultimo sondaggio dell’11 agosto 2011, il 60% degli abitanti è sfavorevole all’ingresso: si tratta per lo più di pescatori e imprenditori dell’industria conserviera, spaventati all’idea di dover dividere col resto dell’Europa il loro mare pescoso. Di fatto, la politica comune per la pesca dell’UE non soddisfa tutti – ad esempio i pescatori irlandesi – ma l’UE stessa potrebbe trarre insegnamento dalla politica della “pesca sostenibile” con proposte di riforma della CFP su suggerimento islandese. Certamente, però, la doppia crisi bancaria e valutaria che ha investito l’isola nel 2008 è all’origine del processo di adesione, nel quale Reykjavik potrebbe aver visto la soluzione ai problemi nazionali dopo il collasso delle sue principali banche ed il conseguente crollo della corona islandese. Il Paese ha cominciato a vedere nell’adesione all’UE e all’Euro, un mezzo per ristabilire la sua economia.

          In conclusione resta difficile prevedere quando l’Islanda riuscirà ad entrare nell’UE. Il dibattito in merito è aperto e complesso. Dal punto di vista politico non vi sono impedimenti significativi, ma, per quanto riguarda il settore economico, dovrebbe probabilmente cercare di ottenere una serie di clausole e dichiarazioni, al fine di sottoporre lo sfruttamento del mare al parere di commissioni scientifiche islandesi e a licenze ministeriali autonomamente gestite.

           

          Conclusioni

          L’UE porta avanti le trattative tra la voglia di aumentare i propri benefici e la paura di dare origine ad un precedente. Tuttavia, come dimostra la recente conferenza di adesione, i negoziati di adesione procedono a pieno ritmo, nonostante  le incertezze. E’ verosimile che il caso Icesave rimanga irrisolto, in quanto la banca ha ancora debiti verso Olanda e Gran Bretagna, le quali si sono trovate a compensare le perdite nazionali con importi fino a 3,8 mld di euro. Ora che ogni tentativo di accordo è fallito, la cosa finirà con ogni probabilità in tribunale, sotto l’ala della vigilanza dell’EFTA.

          Resta, di fatto, la diffidenza del governo olandese in merito a questo nuovo allargamento; mentre la Gran Bretagna, favorevole all’allargamento, per ora non si sbilancia, anche se l’ingresso islandese potrebbe rappresentare per quest’ultima un importante sbocco nello spazio artico e la possibilità di porsi come ponte per un miglior collegamento tra le acque settentrionali e quelle meridionali del Continente europeo.

          L’Islanda sta portando avanti le trattative sotto la presidenza polacca, nella speranza di concluderli sotto la successiva presidenza danese: queste presidenze, che hanno l’opportunità di rafforzare la cosiddetta “Dimensione settentrionale “ della politica comunitaria – che ha l’obiettivo di creare un quadro comune per la promozione del dialogo, della cooperazione, del consolidamento della stabilità e del benessere di quest’area e di intensificare l’integrazione, la competitività e lo sviluppo sostenibile nell’Europa del Nord – potrebbero facilitare l’Islanda nel rapido avanzamento nel processo di adesione, più di quanto possano evidentemente fare i Paesi mediterranei. Se è vero che attualmente l’Europa si trova di fronte all’importante sfida di rafforzare la propria dimensione mediterranea, è anche vero che ci sono tutte le premesse per un potenziamento della dimensione settentrionale, il che comporterà, per esempio, una maggiore cooperazione con Paesi esterni all’UE e, quindi, principalmente con Norvegia e Russia.

           
          * Donatella Ciavarroni è laureanda in Storia delle Relazioni Internazionali (Università di Urbino)

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          I rapporti con Gheddafi tra schizofrenia, menzogne e geopolitica

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          I titoli entusiastici con cui i principali organi d’informazione hanno riportato la presunta, imminente caduta dell’ultraquarantennale regime di Tripoli si inseriscono perfettamente nella tradizionale disomogeneità che ha caratterizzato la natura dei rapporti intrattenuti da Stati Uniti ed Europa con il colonnello Gheddafi.

          Nell’arco degli ultimi vent’anni a Gheddafi è stata attribuita la responsabilità dell’azione terroristica del 5 aprile 1986 alla discoteca La Belle di Berlino, dell’attentato del 21 dicembre 1988 al Boeing 747 esploso sui cieli di Lockerbie di quello che il 19 settembre 1989 colpì il DC 10 francese mentre sorvolava il deserto del Téneré in Niger.

          Tali azioni, pur rientranti in una lotta combattuta a suon di azioni poco ortodosse commesse da entrambi gli schieramenti (furono americani i missili che piovvero sul palazzo residenziale di Tripoli il 15 aprile del 1986), valsero a Gheddafi il titolo di mandante supremo del terrorismo internazionale oltre all’embargo commerciale alla Libia.

          Su Gheddafi pesava l’appoggio alla causa palestinese, la nazionalizzazione dei campi della British Petroleum (1971) e degli impianti petroliferi della OXY (1972) e l’aver sfidato apertamente la lobby petrolifera.

          La Libia subì l’isolamento internazionale fino al 2003, quando Gheddafi tornò nelle grazie dei governanti europei risarcendo i parenti delle vittime degli attentati degli anni ’80 e aprendo l’economia libica agli investitori stranieri.

          Nel settembre 2003 il Capo del Governo spagnolo José Maria Aznar fu il primo a rompere gli indugi recandosi a Tripoli per farsi garante degli interessi degli investitori iberici che si accingevano a far affluire corpose iniezioni di denaro e capitali in Libia.

          Il 25 settembre dell’anno seguente fu il turno di Tony Blair, che atterrò a Tripoli per sovraintendere a una concessione petrolifera del valore di 200 milioni di dollari che il regime di Gheddafi aveva accordato alla Royal Dutch Shell.

          Nell’aprile del 2004 Gheddafi raggiunse Bruxelles dove incontrò il Presidente della Commissione Europea Romano Prodi, il quale considerò fieramente l’evento come “Il risultato di cinque anni di discussioni tra me e Gheddafi”.

          Sei mesi dopo Silvio Berlusconi presenziò all’inaugurazione di un oleodotto italo – libico , nel corso della quale non esitò a descrivere Gheddafi come “Grande amico di tutta l’Italia”, riferendosi evidentemente agli affari che l’ENI aveva concluso in Libia in relazione allo sfruttamento del giacimento Western Desert e al potenziamento del gasdotto Greenstream che garantiva l’afflusso annuale di 8 miliardi di metri cubi di gas ai terminali siciliani.

          Nell’ottobre dello stesso anno il Cancelliere tedesco Gerhard Schroeder raggiunse Gheddafi per partecipare alle trattative che si conclusero con l’assegnazione dei diritti di trivellazione di alcune aree del deserto libico alla compagnia Wintershall.

          Gheddafi era conscio del fatto che concedendo qualche apertura alle pesanti pressioni internazionali si sarebbe visto riconosciuto quel ruolo di interlocutore credibile capace di attirare quegli investimenti di cui la Libia aveva urgente bisogno.

          Gli fu sufficiente annunciare lo smantellamento dell’arsenale biologico di cui disponeva e rinunciare pubblicamente allo sviluppo dell’energia nucleare per favorire l’archiviazione generale delle colpe che gli erano state attribuite in passato.

          L’Italia, i cui interessi in Libia risalgono al 1911, ha sempre mantenuto uno stretto legame con il regime di Muhammar Gheddafi.

          Furono libici i fondi che nel 1976 furono versati nelle casse di una FIAT regolarmente bisognosa di liquidità per mantenersi attiva sul mercato italiano e internazionale.

          I dati risalenti ai primi mesi del 2011 rivelavano invece che la Libia era il quinto tra i paesi fornitori dell’Italia coprendo oltre il 4% delle importazioni totali, mentre il mercato italiano costituiva circa il 17% delle importazioni libiche, con un interscambio complessivo stimato nel 2010 di circa 12 miliardi di euro.

          La Libia era il primo fornitore di greggio e il terzo fornitore di gas per l’Italia, così come quest’ultima era il terzo Paese investitore tra quelli europei (petrolio escluso) e il quinto a livello mondiale.

          L’importanza che il mercato libico rivestiva per il nostro Paese era dimostrata anche dalla presenza stabile in Libia di un numero esorbitante di aziende italiane.

          Fin dai tempi di Enrico Mattei l’ENI fu una delle principali compagnie estrattive di petrolio e gas operanti in Libia e aveva ottenuto da Gheddafi i diritti di sfruttamento dei giacimenti fino al 2045.

          La Libyan Investment Authority possedeva il 2% circa di Finmeccanica, con la quale era stata sviluppata una cooperazione paritetica altamente strategica inerente il settore dei trasporti, dell’aerospazio e dell’energia.

          Ansaldo Sts, AgustaWestland e Selex, società controllate da Finmeccanica, si erano aggiudicate contratti per un giro di affari che superava il miliardo di euro nel potenziamento del sistema ferroviario e nell’elicotteristica.

          Impregilo aveva vinto i bandi relativi alla costruzione di tre poli universitari e alla realizzazione di numerose opere infrastrutturali a Tripoli e Misurata.

          La Libyan Investment Authority e la Central Bank of Libya avevano acquisito quote del colosso finanziario Unicredit sufficienti per collocarsi al primo posto tra gli azionisti.

          Aziende come Alitalia, Telecom, Anas ed Edison avevano anch’esse ottenuto ricchi contratti in Libia.

          Come è noto, non era solo il governo di Roma a mantenere cospicui rapporti diplomatici e commerciali con Tripoli, ma anche quelli di quasi tutti i principali paesi europei.

          Gli stessi Stati Uniti si erano gettati alle spalle le vecchie tensioni favorendo una distensione dei rapporti culminata con una lettera in cui il Presidente George W. Bush auspicava una “Normalizzazione dei legami politici, economici, commerciali e culturali” con il regime di Gheddafi.

          La Libia rimaneva, alla prova dei fatti, un paese non indebitato e detentore di vaste riserve valutarie che necessitava della modernizzazione delle infrastrutture.

          Era in possesso insomma di tutte le credenziali per attirare gli interessi dei grandi paesi industrializzati.

          Il punto nodale rimane però il petrolio.

          La Libia, collocandosi al nono posto tra i paesi produttori, detiene riserve petrolifere stimate in 36 miliardi di barili.

          Il fatto poi che gran parte dei giacimenti si situi a poco più di 1500 metri di profondità rende particolarmente economiche le operazioni estrattive.

          Se l’ENI era riuscita ad attestarsi su posizioni di dominio, un ruolo comunque rilevante in Libia erano riuscite a ritagliarselo le aziende Total (Francia), Repsol (Spagna) e OMV (Austria).

          Le compagnie europee avevano quindi guadagnato cospicue posizioni di vantaggio rispetto alle proprie concorrenti statunitensi, condizionate dall’embargo disposto a suo tempo dal Presidente Ronald Reagan nei riguardi della Libia.

          Non è tuttavia unicamente il petrolio l’argomento che sta alla base della recente campagna di discredito ripristinata nei confronti di Gheddafi da quegli stessi paesi che fino a pochi mesi prima non avevano esitato a concludere affari più che redditizi con il regime di Tripoli.

          Le ragioni dell’attacco della NATO alla Libia preliminarmente approvato in sede ONU e ammantato da false e ipocrite considerazioni di natura umanitaria vertono sul riassetto degli equilibri che reggono quella particolare regione scossa da consistenti tumulti popolari.

          Agli storici dissidi tra la Tripolitania e la Cirenaica sono andati a sovrapporsi le tensioni interne al regime, spaccato in due fazioni che si contendevano il predominio.

          Dalle frizioni interne alla Libia è scaturito un conflitto a bassa intensità che molti osservatori hanno istantaneamente accostato a quelli tunisino ed egiziano ignorando le enormi differenze che attestavano la particolarità specifica dell’affaire libico.

          A differenza di Tunisia ed Egitto, la rivolta di Libia apparve fin dall’inizio scarsamente omogenea e rivelò il reale gradimento popolare di cui godeva il regime di Gheddafi.

          I bombardamenti targati NATO giunsero sulla Libia per evitare che Gheddafi assestasse il colpo definitivo alle tribù che avevano animato la rivolta.

          Tribù salutate entusiasticamente come forze democratiche dai principali organi informativi occidentali mentre si accingevano a sventolare antichi vessilli inneggianti alla monarchia filo britannica di Re Idris abbattuta proprio da Gheddafi.

          Tribù che una volta decaduto il minimo comun denominatore che ha reso possibile la loro coesione costituito dalla condivisa ostilità nei confronti di Gheddafi riprenderanno a combattersi tra loro innescando una guerra civile affine a quelle che hanno martoriato per interi decenni le popolazioni dell’Africa nera.

          Tribù che uno studio condotto dall’accademia militare di West Point nel dicembre del 2007 riguardante il segmento spaziale che da Bengasi, passando per Darna, si estende fino a Tobruk ha rivelato esser parzialmente composte da un numero esorbitante di terroristi che avevano combattuto in Afghanistan e in Iraq contro le medesime forze d’occupazione da cui hanno recentemente ricevuto forniture di armi ed equipaggiamenti.

          Tribù gravitanti attorno al nucleo etnico Harabi, pesantemente legato alle frange integraliste direttamente coinvolte nella guerriglia sudanese, i cui principali esponenti sono l’attuale Segretario del Consiglio Nazionale Libico Mustafa Abdul Jalil e Comandante dell’Esercito Nazionale di Liberazione Libico Abdul Fatah Younis, ucciso alla fine di luglio.

          Il fatto, inoltre, che l’addestramento delle milizie islamiche che hanno sconvolto il Sudan, provocato la dura repressione del governo di Khartoum che ha a sua volta funto da trampolino di lancio per l’emissione di un mandato di cattura nei confronti del Generale Omar Hassan Al Bashir e per la secessione del Sudan del Sud, sia stato svolto da Israele conferisce un fattore determinante nel minare la presunta spontaneità che numerosi osservatori hanno sostenuto essere alla base delle rivolte.

          Tribù che contribuiranno a scatenare quella geopolitica del caos propugnata dagli Stati Uniti perché funzionale ai loro interessi strategici, che nel caso specifico coincidono con la destabilizzazione di un turbolento paese ricco di petrolio mantenuto sufficientemente saldo da Muhammar Gheddafi per quattro decenni consecutivi.

          Il reale punto di svolta nell’economia della guerra civile libico è però coinciso con la richiesta avanzata dal Presidente venezuelano Hugo Chavez relativa al rimpatrio dell’oro depositato nei forzieri di Londra, per adempiere il quale la Gran Bretagna si è vista costretta ad intervenire molto più massicciamente di quanto non avesse fatto finora a sostegno dei ribelli.

          Nell’arco del suo lungo mandato Gheddafi aveva accumulato corpose riserve auree (si tratta di quasi 150 tonnellate di metallo) di cui la Gran Bretagna ha attualmente urgente bisogno per far fronte alla mossa di Chavez che ha fatto lievitare cospicuamente il valore all’oncia del metallo giallo.

          Il Primo Ministro David Cameron ha quindi deciso di sciogliere le ultime riserve relative e di insinuare la diretta presenza britannica nel conflitto, scelta obbligata dettata dalla necessità di ottenere l’oro necessario da restituire al Venezuela evitando di sospingere alle stelle il valore della materia prima in questione e di esporre il paese al reale rischio di fallimento.

          Malgrado ciò, l’intraprendenza degli aggressori europei finirà inesorabilmente per urtare contro uno nuova Suez (crisi del 1956) predisposta ancora una volta dagli Stati Uniti al fine di mandare in frantumi i loro ultimi residui colonialisti.

          L’installazione di nuove basi nel cuore del Maghreb atte a rafforzare il contingente Africom si congiungerà con il rafforzamento della guerriglia islamica addestrata da Israele dando vita a una sinergia capace di proiettare l’influenza statunitense verso sud, nelle zone interessate dalla penetrazione cinese.

          Mentre il paese finirà per trasformarsi in una nuova Somalia affacciata sul Mediterraneo, il saccheggio delle ricchezze naturali libiche procederà senza intoppi.

          Intanto la demonizzazione del “tiranno” Gheddafi procede senza soste, con scomuniche e anatemi pronunciati da quegli stessi soggetti che in altre non lontane fasi politiche non avevano scorto alcun problema nel trattare con Tripoli e nel ricevere Gheddafi con gli onori normalmente riservati ai grandi leader.

          Dopo le menzogne sui bombardamenti sulla folla che secondo numerose fonti erano stati eseguiti dall’esercito libico su ordine del regime di Tripoli e prontamente smentite dai rilevamenti satellitari russi si era passati alle montature relative alle fantomatiche fosse comuni in cui le forze governative avrebbero sepolto i corpi dei “manifestanti” preliminarmente trucidati.

          Come Niculae Ceausescu era stato additato come responsabile del falso carnaio di Timisoara per mezzo di cadaveri debitamente disseppelliti e agitati dai suoi oppositori come vittime del regime, Muhammar Gheddafi è stato condannato senza appello come responsabile delle stragi di Tripoli con l’ausilio di un’analoga metodologia mistificatoria.

          Gheddafi, in sostanza, non è più il credibile interlocutore di qualche anno fa ma è tornato ad essere il vecchio terrorista della discoteca La Belle, del Boeing di Lockerbie e del DC 10 sul deserto del Téneré che in procinto di cadere – malgrado siano mesi che la sua fine è reiteratamente stata data come imminente – avrebbe ordinato alle forze rimastegli fedeli di aprire il fuoco sui bambini.

          Questa la versione dei ribelli, ripresa e riportata da tutti i principali quotidiani e telegiornali europei e statunitensi che ogni giorno di più dimostrano di aver ereditato il testimone di propugnatori della retorica di guerra che fin dai tempi delle Guerre Puniche ha regolarmente distorto la realtà con le più colossali menzogne e mistificazioni.

           

          * Giacomo Gabellini è collaboratore di Conflitti & Strategie

           

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          La Siria nell’occhio del ciclone Bernard-Henri Lévy, Sarkozy, NATO

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          Fonte: http://www.silviacattori.net/article1853.html

          Boris Dolgov, membro dell’Accademia Russa delle Scienze e dell’Istituto di Studi Orientali di Mosca, dottore in storia, espone qui le sue opinioni sulla situazione in Siria, sulle radici della crisi e sulla posizione della Russia in questa intervista realizzata a Damasco da Guy Delorme per Infosyrie.

           

          25 agosto 2011

           

          Infosyrie : Ci potrebbe dire, innanzitutto, le ragioni della sua presenza a Damasco e Hama?

          Boris Dolgov : Sono qui su invito del governo siriano, e sono uno dei 25 membri della delegazione russa, che comprende rappresentanti del mondo della cultura e del giornalismo, nonché rappresentanti delle associazioni di amicizia russo-siriana.

          IS : C’è la sensazione che l’attuale sostegno della Russia alla Siria ha valore di messaggio verso l’Occidente. Un messaggio che dice in sostanza: «Non siamo ingannati dalla vostra retorica sulla democrazia e sui diritti umani, che servono a legittimare le vostre interferenze e i vostri progetti di destabilizzazione». Lei che ne pensa?

          BD : In effetti si è già avuto questo scenario, questo approccio in Libia, è inaccettabile che questo si ripeta in Siria. In Libia, l’Occidente non sta lottando per la democrazia, ma incoraggia e interviene in una guerra civile. E la Russia non vuole che la Siria sia vittima delle stesse manovre.

          IS : In Francia, si pongono spesso in contrasto Medvedev e Putin, nel tentativo di dividere l’esecutivo russo. Il supporto per la Siria è oggetto di un consenso a Mosca, oppure ci sono delle divergenze?

          BD : Credo in realtà che ci siano due tendenze al Cremlino: una più filo-occidentale rispetto all’altra. Ma per ora, la linea ufficiale è quella del sostegno al regime siriano. Questa potrebbe cambiare in futuro, non lo so.

          IS : Non pensa che gli americani in Siria rifacciano quello che hanno provato a fare una volta alle porte della Russia, sostenendo le rivoluzioni “arancioni” in Ucraina e Georgia, attraverso le ONG?

          BD : Sì, è praticamente la stessa cosa. Alcune forze vorrebbero cambiare il regime di Damasco per installarne al suo posto uno più favorevole all’Occidente.

          IS : Sapete se il presidente Medvedev e il primo ministro Putin hanno frequenti contatti con Bashar al-Asad, in particolare dopo l’inizio della crisi?

          BD : Onestamente non lo so.

          IS: La Russia ha i mezzi per aiutare la Siria ad affrontare, nei prossimi mesi, i vari embarghi tecnologici ed economici con cui gli euro-americani vogliono schiacciare il Paese?

          BD: La Russia sta aiutando la Siria in diverse aree, anche perché i legami tra i due paesi sono antichi oltre che stretti e risalgono ai tempi dell’Unione Sovietica. Detto questo, non penso che eventuali acquisti russi di gas o petrolio siriano costituirebbero la parte principale dell’aiuto di Mosca.

          IS : I media russi trasmettono informazioni circa la presenza in Siria di gruppi armati di orientamento salafita e responsabili dei crimini, o l’informazione è manichea come da noi?

          BD : La maggior parte della stampa russa fornisce informazioni che potremmo definire “neutrali” con dei reportage sull’opposizione e altri sui sostenitori del regime. Le informazioni più dettagliate, meno conformiste, sono fornite da riviste e giornali più “specializzati”. L’esistenza di gruppi armati è inoltre evidenziata da una stampa più impegnata.

          IS : Ma il popolo russo, in generale, è favorevole alla linea filo-siriana, o è sensibile alla propaganda occidentale su questo argomento?

          BD : Gran parte degli intellettuali russi, in particolare dei docenti universitari, è ben consapevole delle sfide e delle vicissitudini della situazione, e sostiene l’approccio pro-siriano da parte del governo russo. Le classi popolari sono, naturalmente, meno sensibili su questo argomento.

          IS : Il rappresentante russo presso la Nato, Rogozin, ha parlato di un imminente attacco delle forze occidentali contro la Siria. Credete veramente che questo sia possibile?

          BD : Sì, penso che sia possibile, specialmente dopo la caduta di Gheddafi in Libia. Ma certamente non subito. Esiste un consenso occidentale per colpire la Siria.

          IS : Ma lei pensa che la Russia, insieme con la Cina, terrà duro nel Consiglio di Sicurezza e non concederà agli occidentali alcuna risoluzione, che, come abbiamo visto nel caso della Libia, potrebbe servire come trampolino per un’aggressione militare?

          BD : Sì, lo penso, in quanto la sovversione della Siria avrebbe conseguenze troppo gravi per la regione. Ma bisogna dire che la situazione economica molto grave che affrontano, tra gli altri, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna dà loro scarse possibilità di impegnarsi in una nuova avventura militare.

          IS : Pensa che l’atteggiamento americano è anche legato alla presenza della base navale russa di Tartus?

          BD : Non è, a mio avviso, la ragione principale, perché la base ha un’attività molto ridotta rispetto ai tempi dell’URSS.

          IS : In caso di una escalation americana ed europea contro Damasco, Mosca che potrebbe fare per difendere la Siria? E perché la diplomazia russa non ha supportato maggiormente Gheddafi?

          BD : L’ho già detto, ci sono due tendenze al Cremlino: una filo-siriana, l’altra che tenta un riavvicinamento con l’Occidente. C’è anche la questione delle relazioni economiche con i Paesi occidentali che non possono essere sacrificate ogni volta per considerazioni strettamente geopolitiche. In ogni caso, ci sarà più chiaro dopo le prossime elezioni presidenziali.

          IS : E che dire della diplomazia russa nei confronti degli altri Paesi musulmani strategici come la Turchia e l’Egitto, o l’Iraq?

          BD : Per quanto riguarda l’Egitto, noto una islamizzazione del Paese che non va nella direzione degli interessi statunitensi e israeliani, e le recenti notizie lo confermano. La diplomazia russa tende a privilegiare il lato pratico, vale a dire i rapporti economici con questi Paesi, a discapito della geo-strategia.

          IS : Come vede il futuro della Siria dopo il nuovo discorso alla nazione di Bashar, e dopo la visita ad Hama? Le cose si stanno calmando, o la crisi, al contrario, si riaccenderà?

          BD : Vedo due tendenze: una positiva, con la ripresa del controllo da parte delle autorità nelle zone e città problematiche, e con il supporto, ne sono certo, della maggioranza dei siriani. Non bisogna dimenticare che il regime baathista ha fatto molto – per esempio l’istruzione e la salute sono gratuiti – e la situazione sociale ed economica in Siria è molto migliore che nei Paesi vicini. A mio parere, però, e questo è il lato negativo, le ragioni principali della crisi sono più al di fuori che dentro i confini siriani. Infatti esistono dei piani per lo smembramento del paese, uno di questi, ad esempio, prevede l’assegnazione di una porzione di territorio siriano alla Turchia, un’altra porzione a Israele, un terzo “pezzo” formerebbe un Kurdistan indipendente. Ma ancora una volta l’intervento straniero contro il Paese mi sembra inconcepibile in questo momento.

          IS : Questo piano di cui parla, chi lo ha escogitato, gli americani, gli israeliani?

          BD : Ho saputo del piano da alcuni articoli di esperti di geopolitica russi. Esso si inserisce, in ogni caso, nel contesto delle relazioni storiche della Siria con la Giordania, Israele, la Turchia. Ad esempio, l’ultimo di questi è l’erede dell’impero ottomano che controllava l’attuale territorio siriano. E oggi Ankara è di nuovo una potenza regionale che senza dubbio non ha rinunciato a recuperare tutti o parte dei suoi ex territori. Israele, poi, naturalmente, ha tutto l’interesse a indebolire la Siria.

          IS : Un’azione militare contro la Siria coinvolgerebbe certamente l’intera regione. Possiamo anche dire che si avvicinerebbe pericolosamente ad una guerra mondiale. In queste condizioni, il veto russo non protegge solo la Siria, ma il mondo intero della follia euro-americana…

          BD : Assolutamente. Ma ripeto che una risoluzione anti-siriana non ha alcuna possibilità di essere sostenuta dalla Russia nel prossimo futuro.

          IS : Lei ha sentito ieri il discorso televisivo del presidente Bashar al-Asad (lei parla correntemente l’arabo). Pensa che questo discorso possa “calmare” i governi occidentali, o sono in ogni caso decisi a cercare l’incidente e ad aggravare la crisi, non importa quali riforme possa promuovere il presidente siriano?

          BD : Le riforme sono necessarie per riconciliare i siriani fra loro. Ma le potenze occidentali vogliono, comunque, un cambiamento di regime. A tutti i costi. Le riforme a loro non interessano.

          IS : Un’ultima domanda: crede che la politica riformista di Bashar possa isolare rapidamente l’opposizione radicale dalle fazioni più riformiste e moderate?

          BD : Ci sono infatti due opposizioni siriane: il dialogo è possibile con una di loro. Soprattutto ora che una legge per il multipartitismo è stata emanata. L’articolo 8 della Costituzione che dichiara il ruolo dominante del Baath continua ad essere un problema, almeno agli occhi dei riformatori. Vedremo se il dialogo può fare avanzare la situazione. Per i radicali, c’è solo il linguaggio delle armi e il potere non può fare a meno di reprimerli.

          IS : Avete delle informazioni sulle dimensioni dei gruppi armati?

          BD : Da quello che so, consistono in poche centinaia di individui. Questo fenomeno è molto piccolo, ma efficace al suo livello.

          IS : Signor Dolgov, la ringraziamo.

           

          Intervista realizzata il 22 agosto da Guy Delorme

          Traduzione a cura di Antonio Grego

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          Neocon statunitensi e Likud israeliani ed il loro rapporto di stretta dipendenza

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          Fonte: ASI – Agenzia Stampa Italia

          (ASI) Abbiamo incontrato Francesco Brunello Zanitti giovane, ma molto preparato, saggista che di recente per i tipi delle Edizioni all’insegna del Veltro, per conto dell’Isag, ha pubblicato il volume Progetti di egemonia. Neoconservatori statunitensi e neorevisionisti israeliani a confronto. Ne abbiamo approfittato per parlare del suo libro e per fare il punto sulla politica militare mondiale ed il ruolo di Usa ed Israele sullo scenario globale.


          Fabrizio Di Ernesto (ASI): Di recente ha scritto un saggio sullo strettissimo rapporto esistente tra Usa ed Israele. Ce ne vuole parlare?

          Francesco Brunello Zanitti: La mia ricerca considera un particolare aspetto caratterizzante la speciale relazione esistente tra Stati Uniti e Israele, ovvero lo stretto legame tra il neoconservatorismo statunitense e il neorevisionismo israeliano, particolarmente evidente durante l’amministrazione di George W. Bush. Il saggio, analizzando le differenti origini storiche e ideologiche, nonché i difformi retroterra culturali dei due movimenti, ha come obiettivo la ricerca delle principali similitudini e differenze tra i due gruppi politici, considerando soprattutto la peculiare visione della politica estera e del ruolo di Stati Uniti e Israele nel mondo, teorizzata e successivamente adottata da neocons e rappresentanti del Likud una volta raggiunto il potere. Le finalità di questo libro non sono quelle di presentare un programma politico comune o un disegno cospirativo dei due movimenti; oggetto di questa ricerca è l’analisi storica di neoconservatorismo e neorevisionismo, mettendo a fuoco le cause che hanno portato alla loro ascesa politica. In seguito si è cercato di comparare i due gruppi, individuando le possibili conseguenze derivate dalla loro influenza esercitata sulla politica estera di Stati Uniti e Israele. La conclusione del mio saggio considera gli effetti negativi derivati dalla concreta messa in pratica degli ideali neoconservatori e neorevisionisti nella passata e attuale situazione vicino-orientale. Ad esempio, l’influenza politica dei due gruppi nelle relazioni internazionali ha generato un aumentato sentimento di diffidenza e sfiducia tra Stati Uniti e Israele da una parte e mondo arabo e musulmano dall’altra. Una delle cause di questa contrapposizione è derivata dall’ideologia fortemente intrisa di pessimismo e dall’autopercezione del carattere di eccezionalità di Stati Uniti e Israele, una visione inculcante un mondo contraddistinto da continue minacce e paure per la propria esistenza. A questo proposito, a conclusione del mio saggio, sostengo un ideale maggiormente aperto al dialogo interculturale, contrapposto alla teoria dell’inevitabile scontro tra civiltà proposto dal neocon Huntington. I due movimenti, in particolare il neoconservatorismo, sono caratterizzati dalla volontà di esportare forzatamente a determinate culture il proprio sistema di valori, tentando di eliminare quelli autoctoni senza tener conto delle conseguenze. Questo elemento è comunque in parte riscontrabile anche nel sistema statunitense generale, non solo in quello neocon. La mia opinione è che una determinata civiltà, con tutti i limiti insiti in questo termine, dei quali si potrebbe discutere a lungo, rappresenti un qualche cosa di peculiare, ma assolutamente non portatrice di caratteri universali da imporre ad altre culture. So bene che una simile visione potrebbe essere considerata utopistica e riconosco la sua difficile messa in pratica. Ritengo però che una politica che si basi sulla violenza continuata, rappresentata non solo dal conflitto armato, ma anche dall’imposizione di determinati valori, sia alla fine una via più semplice e banale, ma foriera di conseguenze negative. Penso comunque che il possibile declino statunitense e la nascita di un mondo multipolare possa andare nella giusta direzione. Bisognerà attendere gli sviluppi futuri e capire se gli Stati Uniti accetteranno il declassamento, condizione che, secondo il mio punto di vista, si pone in netto contrasto rispetto alla tradizionale autopercezione del proprio carattere missionario, salvifico per l’intera umanità; sono pessimista, inoltre, per quanto riguarda Israele: il rafforzamento negli ultimi anni dei gruppi più intransigenti del sionismo che hanno come obiettivo storico la creazione della “Grande Israele” dal Giordano al Mediterraneo, rappresenta un serio ostacolo alla pace in Vicino Oriente.

          Perché la lobby ebraica è così potente a Washington?

          Il sostegno statunitense nei confronti d’Israele non si spiega solamente in termini di strategia geopolitica. Lo Stato ebraico si trova naturalmente in una posizione fondamentale nel Vicino Oriente e nel Mediterraneo e gli interessi statunitensi nella regione sono collegati alla sicurezza d’Israele. Molto spesso, inoltre, il legame tra i due paesi è stato giustificato in base a criteri di carattere morale e religioso: negli Stati Uniti si sente sovente parlare di Israele come unica democrazia della regione, dunque da difendere per i suoi caratteri similari agli ideali statunitensi; oppure che gli ebrei hanno tanto sofferto nel passato e quindi devono essere difesi dagli attacchi contemporanei; infine, si utilizza la religione e la Bibbia, in un paese ancora profondamente sensibile ai temi religiosi, per spiegare il diritto riservato al popolo ebraico di difendere il proprio Stato, erede diretto dell’antico Regno d’Israele biblico. In realtà, penso che tutte queste motivazioni, tranne quella legata alla strategia geopolitica, siano sovente utilizzate retoricamente ed enfatizzate in particolare da gruppi politici come quello neoconservatore, in modo da giustificare determinate politiche altrimenti difficilmente realizzabili. Come ricorda nella sua domanda, esiste, infatti, una potente lobby filo-israeliana a Washington, la quale influenza direttamente la politica estera statunitense in Vicino Oriente. I suoi intenti hanno avuto buon fine a seconda dei periodi storici e in base alla positività o meno delle relazioni israelo-statunitensi. La lobby rappresenta una serie di individui e organismi molto potenti per i mezzi economici a disposizione, i quali controllano numerosi mezzi di comunicazione, tv, radio, giornali, periodici, circoli universitari e sono organizzatori di numerose conferenze e think tank. La mia opinione è che non si tratti di una società segreta che controlli interamente la politica statunitense. Essa pubblicizza la propria azione nel paese, basta consultare il sito ufficiale dell’AIPAC (The American Israel Public Affairs Committee) o quello dell’American Jewish Committee. Non ritengo che la poltica nordamericana sia influenzata solamente da questa lobby, poiché esistono, infatti, numerosi altri gruppi di pressione che influenzano l’amministrazione degli Stati Uniti; quella pro-israeliana è comunque una delle più potenti e ha sovente messo in difficoltà le amministrazioni del paese, sia repubblicane che democratiche. Durante l’ascesa neoconservatrice l’influenza della lobby si è fatta sentire decisamente. Bisogna considerare, inoltre, che la comunità ebraica più numerosa, dopo quella d’Israele, si trova negli Stati Uniti. Il problema dell’intera questione deriva dal fatto che non si può parlare apertamente della lobby israeliana e delle potenziali conseguenze negative derivate dalla sua eccessiva influenza nella politica statunitense, poiché si è incolpati di antisemitismo o di sostenere posizioni contrari all’esistenza di Israele. Come dimostro nel mio libro, è la stessa retorica accusa adottata costantemente da neocons e neorevisionisti per chiunque critichi le azioni violente di Israele, utilizzata per evitare il dibattito e il dialogo aperto.

          Lo stato di Israele è nato grazie al sostegno di Usa, Urss ed Inghilterra. Come mai il paese si è progressivamente allontanato dal colosso comunista?

          L’appoggio sovietico nei confronti del piano di spartizione della Palestina nel 1948 e della conseguente nascita dello Stato d’Israele era giustificato in base a criteri di carattere geostrategico. L’Urss aveva come obiettivo primario il consolidamento della propria influenza nell’area vicino-orientale, sostituendo potenzialmente la Gran Bretagna nella regione, in seguito alla fine del proprio mandato in Palestina. Un’eventuale alleanza con il futuro Stato ebraico avrebbe potuto garantire dei vantaggi in termini geopolitici per Mosca. Il successivo allontamento tra Israele e Unione Sovietica derivò dal sempre più forte legame che le autorità israeliane stabilirono con gli Stati Uniti, i quali individuarono in Israele un importante alleato nel contesto della Guerra Fredda in un’area strategica per le importanti risorse energetiche. La guerra di Suez del 1956, durante la quale Israele contò sul fondamentale sostegno di Francia e Gran Bretagna, rappresentò il momento culminante dell’allontanamento diplomatico tra Mosca e Tel Aviv. E’ da precisare comunque che in questo periodo Israele e Stati Uniti non erano ancora strettamente legati, come invece avverrà nei decenni successivi. Eisenhower fu particolarmente critico nei confronti di Israele per la guerra di Suez; gli Stati Uniti non sostennero militarmente Israele in quell’occasione e, nel caso in cui Tel Aviv non si fosse ritirata da tutti i territori egiziani occupati durante il conflitto, l’amministrazione nordamericana avrebbe interrotto tutti gli aiuti economici garantiti allo Stato ebraico. In questa fase storica gli Stati Uniti, dopo il crollo anglo-francese in seguito alla guerra di Suez, erano intenzionati a controbilanciare l’influenza sovietica come unici rappresentanti del mondo occidentale e non intendevano ancora abbandonare il mondo arabo. Ben Gurion era personalmente un ammiratore degli Stati Uniti e promosse negli anni successivi la creazione di uno stretto legame con Washington, coronato pochi anni dopo. L’alleanza israelo-statunitense crebbe considerevolmente a partire dagli anni ’60, con il contemporaneo ulteriore peggioramento delle relazioni tra Israele e URSS. Quest’ultima aveva cominciato a creare dei canali privilegiati con il mondo arabo, in particolare con l’Egitto di Nasser e la Siria, sostenuti in termini economici e militari. Il legame tra Egitto e URSS e l’influenza strategica sovietica sui paesi arabi in generale crebbe ancora di più dopo il 1967, dopo la guerra dei Sei Giorni, in seguito alla quale l’URSS e il blocco orientale ruppero le relazioni diplomatiche con Israele. In questo modo l’Unione Sovietica si ergeva a baluardo degli interessi arabi, controbilanciando l’appoggio economico, militare e internazionale degli Stati Uniti nei confronti d’Israele. L’allontamento tra quest’ultimo e l’URSS è dunque strettamente legato al contesto della Guerra Fredda e alla competizione geopolitica tra le due superpotenze.

          Alcuni commentatori parlando dell’entità sionista usano il termine Usreale, secondo lei è corretto utilizzare questa terminologia?

          Questa definizione non mi convince e non penso sia corretto utilizzarla. Come ho ricordato in precedenza, gli Stati Uniti non hanno avuto un tipo di rapporto con Israele dalle caratteristiche costanti. Nonostante l’attuale legame israelo-statunitense sia sicuramente una speciale alleanza, non ritengo adatto l’utilizzo di questo termine per descrivere lo Stato ebraico, nonostante l’esistenza stessa del paese sia garantita in gran parte dalla protezione economica e militare di Washington. In realtà penso che il legame tra i due paesi, particolarmente durante l’ascesa neocon, sia caratterizzato paradossalmente da una maggiore influenza di Tel Aviv nei confronti degli Stati Uniti. Ritengo questa terminologia troppo semplificatoria, se si considera l’attivismo nelle relazioni internazionali d’Israele. Tel Aviv ha attualmente una serie di importanti rapporti diplomatici con diversi paesi a livello mondiale, anche con il mondo arabo, attivate con quest’ultimo sia nel presente che nel passato, se si pensa all’asse Ryad-Tel Aviv in funzione anti-iraniana, o ai legami con l’Egitto di Mubarak. Non ritengo gli Stati Uniti, nonostante abbiano grandi responsabilità, i soli artefici dell’attuale situazione in Vicino Oriente e dell’abbandono del popolo palestinese. Già nel 1948, infatti, re Abdullah I di Transgiordania (l’attuale Giordania), non ancora filo-statunitense, discuteva con il neonato Israele di una possibile spartizione della Cisgiordania, divisione poi tramontata per le possibili ripercussioni negative nell’opinione pubblica araba. Il discorso sulle responsabilità internazionali dell’intera vicenda riguardante il conflitto arabo-israeliano-palestinese e il sostegno alle politiche dello Stato ebraico, a mio parere, riguarda un ampio contesto storico, durante il quale le relazioni internazionali hanno subito delle modifiche. Senza dubbio si può parlare di una speciale e unica relazione tra Israele e Stati Uniti, sempre tenendo presente l’ambito storico e i rispettivi gruppi politici al potere. I neocons e i neorevisionisti hanno enfatizzato questa relazione, mentre, ad esempio, durante gli anni ’90 gli Stati Uniti imposero a Israele per i propri interessi geopolitici i negoziati di pace, poi tramontati.

          È opinione comune dire che Israele rappresenti l’unica democrazia del medioriente. A suo modo di vedere ciò concorda con la definizione classica di democrazia?

          Per quanto riguarda Israele, la definizione dello Stato ebraico come unica democrazia del Vicino Oriente è stata sovente utilizzata retoricamente come giustificazione offerta all’opinione pubblica statunitense ed europea per l’appoggio alle politiche israeliane. Personalmente ho dei dubbi a riguardo dell’effettivo carattere democratico d’Israele. A sostegno di questa tesi non prendo solamente in considerazione la discriminazione nei confronti degli arabi che avviene all’interno dello Stato ebraico o gli intenti volti all’annessione di gran parte della Cisgiordania con la continua colonizzazione in violazione delle risoluzioni internazionali. Come punto di riferimento ricordo la vicenda legata al “conflitto” esistente tra “nuovi storici” israeliani e vecchia storiografia, riguardante il revisionismo storico sulla nascita dello Stato, il conflitto con il mondo arabo, nonché il dibattito sull’Olocausto e il sionismo, argomento di una mia ricerca alcuni anni fa. A questo proposito prendo in considerazione la vicenda di Ilan Pappe, storico israeliano, il quale ha sostenuto il fatto che Israele sia una democrazia incompiuta. A questo proposito concordo con la sua visione, dal momento che Pappe, per aver messo in discussione il sionismo, considerato Israele una potenza coloniale e messo in luce, attraverso una documentata e ricca ricerca storica, l’avvenuta pulizia etnica dei palestinesi a partire dal 1948, ha subito un violento boicottaggio, unito alla diffamazione da parte del mondo accademico e di gran parte della società. Oggi Pappe lavora in Inghilterra perché gli è impedita una serena ricerca nel suo paese; in Israele non è possibile mettere in discussione determinate questioni; se gli stranieri che criticano Israele sono considerati antisemiti, in patria i critici israeliani o del sionismo sono visti come dei traditori della patria perché alcuni argomenti sono considerati tabù. In questo modo il pluralismo di idee, nonostante ufficialmente Israele sia considerata una democrazia, è palesemente impedito tanto da mettere in discussione il carattere effettivamente democratico del paese.

          A settembre la Palestina chiederà il riconoscimento ufficiale come Stato. Secondo lei quale sarà l’atteggiamento del Palazzo di vetro?

          Ritengo che la richiesta palestinese non verrà accolta totalmente, dal momento che molto probabilmente gli Stati Uniti porranno il veto in Consiglio di Sicurezza. Potrebbe esserci da parte dell’Assemblea Generale una proposta che conceda la condizione di “Stato osservatore” alla Palestina o la sua inclusione in alcune organizzazioni legate alle Nazioni Unite. Pochi mesi fa Netanyahu ha sostenuto che Israele non ritornerà mai ai confini precedenti al 1967, rispondendo a una richiesta in tal senso di Obama. Ciò dimostra, unitamente all’intransigenza del capo del Likud, la distanza tra l’amministrazione democratica e l’attuale premier israeliano; credo comunque che sia altamente improbabile che gli Stati Uniti si discostino totalmente da una politica filo-israeliana e appoggino le richieste palestinesi. Per quanto riguarda Israele non stupisce che a poche settimane dalla richiesta palestinese all’ONU siano ricominciati gli scontri con Hamas a Gaza, dai quali naturalmente possono derivare implicazioni positive solamente per Tel Aviv, non certo per la questione palestinese, né soprattutto per la popolazione di Gaza. Anche la Germania, paese membro quest’anno del Consiglio di Sicurezza, si è espressa a sfavore della richiesta palestinese, chiedendo da parte delle autorità palestinesi un riconoscimento preventivo d’Israele. Nonostante ritenga che la domanda non verrà accolta, potrebbe essere una buona occasione affinché la questione palestinese riacquisti risalto a livello internazionale. Potrebbe essere una valida opportunità per valutare l’azione del BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) dal momento che sia l’India sia il Brasile sono presenti nel Consiglio di Sicurezza e tutte e cinque i paesi hanno riconosciuto lo Stato palestinese in seguito alla dichiarazione d’indipendenza palestinese nel 1988. Anche se attualmente si tratta di un organismo principalmente economico, una comune azione politica futura da parte dei paesi emergenti a favore della Palestina, contemporaneo all’attuale fase di declino degli Stati Uniti, potrebbe risultare positiva; resta da capire comunque se esistano dei margini di manovra comune e dei risvolti geopolitici che favoriscano l’azione dei paesi in questione; altrimenti l’appoggio nei confronti dei palestinesi non ci sarà neanche da parte del BRICS.

          Gli Usa appaiono una potenza in lento declino, anche le ultime disavventure legate al rischio default sembrano confermarlo. A suo dire lo storico alleato potrebbe risentire dell’indebolimento di Washington? E, se sì, in che misura?

          Penso che Israele potrebbe subire delle conseguenze negative durante l’attuale fase di lento declino statunitense. Gli USA garantiscono non solo un importante appoggio morale e militare, ma anche economico. Gli Stati Uniti sembrano maggiormente inclini a considerare i propri interessi nazionali, come dimostra la recente intenzione di abbandonare l’Afghanistan. Bisogna comunque valutare gli effetti della crisi nei prossimi anni e chi vincerà le elezioni nel 2012. Sarà necessario capire quale indirizzo percorrerà il partito repubblicano, poiché, nonostante il neoconservatorismo sia sicuramente un movimento in declino, non è detto che non ritorni in auge. Collegandomi a questo aspetto ho comunque dei dubbi circa il fatto che gli Stati Uniti abbandoneranno facilmente il proprio ruolo di superpotenza, data la propria autopercezione di eccezionalità e il compito missionario che pensano di ricoprire a livello mondiale. Nonostante la crisi economica statunitense sia evidente e molto pesante, ritengo che Washington stia comunque cercando di mantenere il proprio ruolo globale, riscontrabile ad esempio nel tentativo di ridisegnare il Nord Africa e il Vicino Oriente, vedi i recenti casi libico e siriano, mantenendo un occhio di riguardo per il proprio alleato nell’area. Israele probabilmente non verrà più sostenuto mediante costose campagne militari, ma con altri mezzi, in modo da difendere gli interessi israeliani e statunitensi e per impedire il lento declino di Washington. L’aspetto dell’eccezionalismo statunitense, nonostante abbia una forma diversa a seconda dei periodi storici, è un elemento identitario molto forte negli Stati Uniti e non credo venga abbandonato tanto facilmente.

          In che modo il neoconservatorismo e il neorevisionismo hanno influito nello scontro con altre culture?

          L’autopercezione dell’assoluto carattere di eccezionalità di Stati Uniti e Israele, unito alla considerazione della propria indispensabilità e superiorità morale rispetto alle altre nazioni che giustificano un’ingerenza interna nei confronti degli altri Stati, così come l’idea di essere esenti da quelle leggi inesorabili della storia, sono tutti elementi che hanno influenzato direttamente la politica estera di questi paesi e generato uno scontro con il mondo arabo e musulmano. Altri aspetti peculiari dei due movimenti e forieri di conseguenze negative sono la considerazione positiva delle azioni militari unilaterali, anche preventive, in difesa da determinate minacce, come ho cercato di dimostrare nel libro, esageratamente enfatizzate al fine di creare un clima di terrore adatto all’accettazione da parte dell’opinione pubblica di determinate politiche. Questo potere è stato utilizzato soprattutto per nascondere precisi obiettivi geostrategici: le guerre statunitensi in Afghanistan e Iraq avevano il chiaro intento di stabilire delle basi militari USA in territori strategici per i corridoi energetici e fondamentali per il contenimento di Cina, Russia e Iran. In questo caso il progetto egemonico statunitense non riguarda solamente i neocons. Una possibile interpretazione di quello che sta accadendo in Pakistan, paese nel caos per le violenze interetniche, ma anche per le dirette conseguenze dell’invasione afghana del 2001, è, a mio parere, un chiaro esempio delle volontà egemoniche statunitensi. Ho tentato di spiegare alcuni aspetti della questione in un articolo pubblicato recentemente sul sito di “Eurasia” (http://www.eurasia-rivista.org/gwadar-la-competizione-sino-statunitense-e-lo-smembramento-del-pakistan/9828/). Gli stessi intenti egemonici sono presenti nel neorevisionismo israeliano. Unito al potere della paura esiste l’enfatizzazione dell’odio nei confronti del nemico che ha spesso valori diversi: quello esterno, i sovietici durante la Guerra Fredda o i musulmani in generale dopo l’11 settembre per gli Stati Uniti; gli arabi, i palestinesi e i paesi favorevoli all’indipendenza della Palestina per Israele; ma anche interno, in entrambi i paesi i critici dei rispettivi movimenti erano descritti come traditori della patria. Ho cercato di dimostrare come i progetti egemonici di neocons e neorevisionisti abbiamo comportano non solo dei conflitti militari, ma anche un potenziale scontro tra culture diverse. Dunque ciò che sosteneva Huntington, ovvero che la fine della Guerra Fredda avrebbe generato uno scontro tra civiltà, è stato in realtà favorito dalla successiva azione statunitense e israeliana. Mi si potrà obiettare che considero solo l’azione negativa messa in atto da parte di Stati Uniti e Israele. Ritengo che questi due paesi siano i maggiori responsabili per il recente “scontro” con il mondo arabo e musulmano perché hanno ricoperto il ruolo del più forte, avendo avuto a disposizione potenti mezzi economici e militari.

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          La lezione della Libia per i latinoamericani

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          Fonte: http://licpereyramele.blogspot.com/2011/08/la-leccion-de-libia-para-los.html

          Fino a febbraio di quest’anno sembrava che l’uomo forte della Libia: Muamar Gheddafi, la “guida” della Grande Yamahiriya Araba Libia Popolare Socialista, nome ufficiale dello Stato della Libia, che era riuscito a superare le furie delle rivoluzioni arabi nel Nord Africa e in Medio Oriente rovesciare “due vecchi dittatori pseudo democratici”: Ben Ali, della Tunisia e, Hosni Mubarak, dell’Egitto, entrambi appoggiati dagli USA e dall’Europa, i quali eseguivano con molta larghezza il brutale ma semplice esercizio della realpolitik delle potenze occidentali: individui che fanno ricorso a metodi ripugnanti e che sono eticamente detestabili, ma che affrontano i nostri nemici con molta efficacia e ciò ci soddisfa a tal punto da chiudere un occhio di fronte ai loro eccessi.

          Un altro dettaglio da non sottovalutare e che si differenziava dai regimi egiziano e tunisino era che quello libico si fondava su una tribucrazia (governo delle tribu) il cui sistema operò negli ultimi quaranta anni e che prima dell’invasione occidentale era riuscita a che  “la Libia di di Gheddafi fosse l’unico paese africano con un indice di sviluppo umano simile a quello di qualsiasi paese dell’Europa con un introito per capita di circa 13.000 dollari americani, una speranza di vita dalla nascita di 77 anni, una popolazione di circa 6.530.000 abitanti in un ampio territorio con 1.759.540 Km2, con un indice di povertà che non raggiungeva il 5% e aveva un tasso di alfabetizzazione del 83%, inoltre la Libia possedeva un pingue prodotto interno lordo di circa $ 76.557.000.000” (1).

          Ma Gheddafi aveva commesso un gravissimo gesto d’indisciplina per la triade continentale, dal momento che frappose degli ostacoli nei negoziati con le aziende a capitale nordamericano e inglese per l’estrazione delle sue risorse energetiche (solo agivano in second’ordine), aveva aperto il gioco alle compagnie petrolifere cinesi e la cosa più grave era che voleva abbandonare la valuta americana per le transazioni internazionali il che, agli occhi dei poteri mondiali tradizionali e con la crisi in atto, era davvero troppo.

          Lì ebbe inizio la demonizzazione di Gheddafi e “spontanemaente” apparvero gruppi di ribelli che ruppero il tradizionale equilibrio di potere, in particolare, nella zona della Cirenaica con centro il Benghazi e qui si manifestò il primo movimento: durante alcuni giorni la “stampa seria” divulgò informazioni concernenti l’operato dell’esercito libico che assassinava centinaia di pacifici manifestanti (in genere, le denunce le generava una ONG di Diritti Umani di origine dubbiosa), ma furono trasmesse come dati veritieri; a tal punto che arrivarono giornalisti indipendenti e della catena Telesur del Venezuela, i quali dimostrarono che i presunti attacchi contro la popolazione civile da parte di aerei e carri armati erano falsi e che i “pacifici manifestanti” o “ribelli” passeggiavano per le strade di Benghazi con carri armati e armi automatiche rubate nelle caserme della città.

          Successivamente, in un secondo movimento: le potenze occidentali capeggiate dall’Inghilterra e dalla Francia e appoggiate dagli USA, iniziarono ad esercitare pressioni nel consiglio di sicurezza dell’ONU, affinché si decretasse un mandato per impedire l’utilizzo dello spazio aereo libico da parte delle forze dello stato libico, ma non potè contare con l’approvazione della Cina e della Russia); con questo “mandato” la NATO iniziò le operazioni militari adempiendo al nuovo ordine di ingerenza negli affari interni degli altri stati, stabilito di recente, con il “principio” che si fonda sulla “sua” “responsabilità di proteggere” (?), dove unilateralmente si abrogano le vecchie potenze colonialiste europee e, in questo modo, si avvia l’operazione “Odissea all’Alba” (che fino a venerdì della settimana scorsa rappresentava 20.000 voli sulla Libia e più di 7.500 attacchi terrestri); nonostante il blocco, gli attacchi aerei e misilistici, i ribelli non riuscivano ad avanzare e il paese si divise in due grandi zone, la Tripolitania con la sua capitale a Tripoli (tribu pro Gheddafi) e la Cirenaica con la capitale a Benghazi (tribu contro Gheddafi).

          E qui entra in gioco il terzo movimento, che consiste nella partecipazione diretta degli USA nel conflitto per rompere l’equilibrio inestabile dello stesso (che alla lunga avrebbe favorito la vittoria dei gheddafisti se fosse continuato così), “riorganizzando” i ribelli con l’incorporazione di mercenari e di gruppi di islamisti fondamentalisti come al Qaeda, aggiungendo l’appoggio delle petromonarchie del Qatar e degli Emirati Arabi, in più, l’appoggio logistico, degli armamenti e dei bombardamenti puntuali (utilizzo dei “dron”aerei a controllo remoto senza equipaggiamento), e inserendo la nuova “dottrina militare che difende il nuovo direttore della CIA, il generale dell’esercito David H. Petraeus. La guerra la fanno i corrispondenti “nativi”, mentre che Washington si limita a prepararli per tale scopo e forse per intervenire con la sua aviazione e/o con la sua armata, ma non più con truppe terrestri, così come è avvenuto in Iraq e in Afganistan (2). Da ciò possiamo concludere che sotto l’aspetto militare, gli Stati Uniti conservano ancora un potere unilaterale a livello globale. E approfondendo l’utilizzo dell’arma che maggiore successo gli ha conferito negli ultimi anni per legittimare le sue guerre: le catene mediatiche, grazie alle quali sono riusciti a disinformare gran parte della popolazione mondiale, tergiversando l’informazione e armando uno scenario che non ha nulla a che fare con la verità, bensì con i suoi interessi. Questa concentrazione si è approfondita negli anni ottanta ed è continuata fino ad ora, il che ci porta ad affermare che la concentrazione dei mezzi nelle mani di pochi magnati implica una minore libertà d’informazione e, inoltre, ad asserire che i gruppi mediatici sono interrelati economicamente con il complesso industriale-militare tecnologico nordamericano (la CNN International si può vedere in 212 paesi con una audience giornaliera di mille milioni a livello mondiale, l’impero di Murdoch comprende l’Inghilterra, l’Australia, START TV in Asia, FOX, NBC, ecc.)

          Improvvisamente lo status quo bellico si è rotto e le forze ribelli sono entrate a Tripoli, mettendo in fuga a Gheddafi e i suoi seguaci. La verità è che la NATO con l’appoggio degli USA ha agito direttamente e le immagini dei ribelli libici che hanno occupato la capitale del paese hanno formato parte di uno scenario teatrale più che di uno reale. Dato che giovani privi di esperienza militare non sarebbero mai riusciti a sconfiggere un esercito professionale per quanto indebolito si possa trovare, la falsificazione mediatica è arrivata al punto di utilizzare attori per interpretare la cattura del figlio di Gheddafi, Seif el islam. “Tutto il mondo ha visto come i ribelli arrestavano il figlio del colonnello”, ma la notte successiva, Seif el Islam in persona, comparve sano e salvo davanti ai giornalisti stranieri per smentire le informazioni sul suo arresto. Ma, l’immagine della sconfitta del regime di Gheddafi era già pronta e 11 paesi avevano riconosciuto i ribelli come i nuovi padroni del paese. (3)

          Questa storia di una morte annunciata ci deve far riflettere come agisce il mondo capitalista occidentale atlantista in crisi e i sudamericani dobbiamo prendere appunti su questa realtà, particolarmente dopo il successo dell’operazione NATO-USA per mettere in “ordine” il Nord Africa e insediare il nucleo operativo del Comando Africa (AFRICOM), con vantaggi portuali in Libia e per controllare le risorse energetiche così indispensabili per le loro economie indebolite, in particolare, quella francese e inglese.

          Adesso sappiamo che i nuovi argomenti interventisti si baseranno nella teoria del Diritto di Proteggere e l’arma mediatica spianerà la strada per la sua attuazione. Latinoamerica rappresenta un immenso spazio appetibile agli interessi delle potenze della traide e su questa drammatica esperienza l’UNASUR e il Consiglio di Difesa Sudamericano con il suo CEED, devono disporre delle dottrine per garantire la pace e il benessere nella nostra regione.

          (1) Articolo “El Coronel no tiene quien le escriba”,  Lic. Juan Manuel Lozita

          (2) Allerta per i paesi dell’ALBA per il modello libico: http://www.prensamercosur.com.ar/apm/nota_completa.php?idnota=5245

          (3) Articolo completo in: http://actualidad.rt.com/actualidad/internacional/issue_28811.html

          (trad. di v. Paglione)

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          Iraq: una rivoluzione araba occultata

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          Fin dal 30 gennaio 2011, da Soulinanya a Bassora (Kurdistan iracheno), passando per Mosul e piazza Tahrir di Baghdad, decine di migliaia di civili iracheni hanno marciato tutti venerdì al grido di : “Via Maliki!”, “Barzani fuori!”, “No all’occupazione!”.

          La stampa internazionale in un primo momento diede conto delle manifestazioni e della loro sanguinosa repressione salvo poi calare una spessa coltre di silenzio sugli ulteriori sviluppi della situazione.

          Ciò ha permesso al Primo Ministro Nouri Al Maliki, trincerato dietro le mura fortificate della Zona Verde, di celebrare l’Iraq come “La regione più sicura del mondo arabo”.

          Un altro modo per intimare giornalisti curiosi di “Circolare, non c’è niente da vedere…”.

          Paesi del tanto peggio tanto meglio

          Il Pew Research Center (PRC) si occupa di verificare e catalogare gli argomenti trattati dai mezzi di comunicazione.

          Dalle analisi effettuate da tale istituto emerge che il 56% dei temi trattati negli Stati Uniti nell’arco temporale compreso tra il 31 gennaio e il 6 febbraio scorso riguardava i problemi dei paesi arabi tra cui l’Iraq, mentre alla fine di aprile la percentuale relativa al medesimo argomento non superava il 12%.

          Gli articoli concernenti l’Iraq non riguardavano altro che gli attentati, nonostante le manifestazioni si svolgessero regolarmente.

          “Ciò delinea una visione molto distorta del paese”, ha concluso il think tank in questione.

          A causa dell’occultamento degli eventi, i ricercatori ripiegano quindi su alcune agenzie indipendenti irachene come Awsat Al Iraq oppure, per quanto riguarda il Kurdistan, sui siti Rudaw.net o KurdishMedia.com.

          Una delle principali fonti di informazione sugli sviluppi della contestazione in Iraq corrisponde alla pagina di Facebook della Grande Rivoluzione irachena, ma non per molto tempo ancora.

          In effetti, il governo si appresta ad assimilare a un “crimine cybernetico” la diffusione su internet di messaggi che incitano a manifestare o che si occupano di diffondere notizie relative a incontri antigovernativi, argomentando che tali iniziative turberebbero l’ordine pubblico e potrebbero ipoteticamente degenerare dando luogo a “ribellioni armate”.

          Coloro che contravvengano a tali imposizioni rischiano il carcere a vita e da 25 a 50 milioni di dinari d’ammenda (corrispondenti rispettivamente a 16.250 e 32.500 euro).

          Per niente impressionate dalle minacce del governo, più di 36.000 persone si sono iscritte ad alcuni social network per partecipare attivamente al prossimo raduno di contestazione, ribattezzato Alba di liberazione, che si terrà il 9 settembre in piazza Tahrir di Bagdad e all’interno dei governatorati.

          Tra i suoi organizzatori vi sono i promotori della Grande Rivoluzione irachena e i membri dell’Alleanza del 25 febbraio, del Movimento popolare per la salvaguardia di Kirkuk oltre a studenti e organizzazioni giovanili dell’Iraq libero.

          Chi ne ha sentito parlare, nel momento in cui gli organi di informazione fornivano la loro lettura tratta da dichiarazioni menzognere rilasciate dal Consiglio Nazionale di Transizione libico e da comunicati non verificabili emessi da ignote organizzazioni siriane?

          A giudicare dal suo discorso tenuto nel maggio del 2011 e dedicato alle rivoluzioni arabe, il Presidente Obama non deve esser, evidentemente, rimasto contrariato dal fatto che l’Arabia Saudita, gli Emirati del Golfo e l’odierno Iraq siano tra i paesi meno democratici al mondo.

          I “100 giorni” che, a fine febbraio, Nouri Al Maliki si era concesso per migliorare i servizi pubblici, ridurre la disoccupazione e sradicare la corruzione, non sono stati altro che polvere gettata negli occhi degli iracheni, ai quali non è rimasto che manifestare nuovamente la propria collera all’inizio di giugno.

          Human Right Watch (HRW) riferisce che a Bagdad, il 10 giugno, dei teppisti sostenitori di Maliki armati di bastoni, coltelli e tubi di ferro hanno violentato alcune donne e aggredito dei civili intenti a manifestare.

          Centocinquanta tra poliziotti e militari in borghese hanno infiltrato il corteo.

          Il 17 e il 24 giugno, le forze di sicurezza che avrebbero dovuto proteggere i manifestanti hanno contribuito attivamente ad aprire la strada ai teppisti.

          In Kurdistan, dove regnano nepotismo e corruzione, si sono verificati gli scontri più violenti.

          Swrkew Qaradaxi, un giovane di 16 anni ucciso a Soulimaniya, nello scorso febbraio, dai miliziani di Barzani è stato assurto a simbolo della contestazione.

          Suo padre, ex Peshmerga [termine che contraddistingue i guerriglieri indipendentisti curdi d’Iraq], accusa la cricca dirigente di sparare sulla propria popolazione per conservare il potere: “Saddam Hussein era un nemico esterno al Kurdistan – dice – ma ora ne abbiamo uno all’interno: il governo curdo uccide i curdi. E’ molto peggio”.

          Amnesty International chiede alle autorità regionali d’indagare sugli attacchi subiti dagli attivisti dei diritti umani: fucilazioni, rapimenti, torture.

          Il grottesco progetto governativo di parcheggiare i contestatori in tre stadi di Bagdad – in nome del diritto dei commercianti a non essere ostacolati dai manifestanti nell’esercizio delle proprie attività (!) – non era realizzabile.

          In caso di gravi pericoli – ovvero mettendo in pericolo la Zona Verde – Nouri Al Maliki, che assolve alle funzioni di Ministro della Difesa e di Presidente del Consiglio di Sicurezza Nazionale, si è assicurato nel marzo scorso il sostegno del generale curdo Babacar Zebari, Capo di Stato Maggiore dell’esercito.

          Quest’ultimo, favorevole al mantenimento delle truppe americane in Iraq, si è detto pronto ad affrontare qualsiasi minaccia… Interna.

          Traduzione di Giacomo Gabellini

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          Libia: le quattro verità dell’ex capo del DST Yves Bonnet

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          Fonte: http://algerie.senego.com/libye-les-quatre-verites-d%E2%80%99yves-bonnet-l%E2%80%99ancien-patron-de-la-dst 25/08/2011

          Yves Bonnet, Prefetto emerito, ex capo della Direzione della sorveglianza del territorio (DST) e fondatore del Centro Internazionale per la Ricerca e Studi sul Terrorismo (AVT-CIRET), si è recato in Libia per un mese con una delegazione internazionale di esperti. L’obiettivo era quello di incontrare i belligeranti e di valutare la situazione nel paese. Commenta, per France-Soir, le conclusioni della sua relazione missione.

          Lei ha incontrato, in successione, i pro-Gheddafi di Tripoli e i ribelli del Consiglio nazionale di transizione (CNT) a Bengasi. Quali sono state le sue prime impressioni?

          In Occidente, in Tripolitania, c’è ancora uno stato di diritto. Tutto funziona. Questo non è il caso della Cirenaica (Bengasi).

          La vostra dichiarazione di missione descrive l’attuale conflitto una “guerra civile”, mentre Bernard-Henri Levy dice, intanto, che tutte le tribù libiche si sono unite contro il colonnello Gheddafi e il suo regime …

          Ciò che non ha potuto verificare BHL, è la reale popolarità di Gheddafi in Tripolitania. Non possiamo ignorare la dimensione tribale in questo paese, anche se il CNT lo nega, lo rifiuta. Prendete il Presidente della CNT di Tobruk: questo è semplicemente il capo della tribù locale. Quanto a Gheddafi, che ha in passato fatto molto per i Tuareg, prendendo le loro parti contro l’autorità del Mali (il popolo Tuareg vive tra la Libia e l’Algeria e alle frontiere del Mali, Niger e Burkina Faso). Ci siamo incontrati con i Tuareg del Niger, che hanno attraversato il deserto a piedi per venire a combattere al suo fianco.

          Il popolo di Tripoli può avere altra scelta che sostenere Gheddafi?

          Ci siamo spostati liberamente a Tripoli e abbiamo potuto parlare con la gente. La popolarità di Gheddafi si spiega con la situazione sociale della popolazione, che è particolarmente avanzata. Il regime non è tenero in termini di libertà, di sicuro. Ma il tenore di vita è buono. I libici sono spesso proprietari delle loro case, possiedono una macchina e le prestazioni sociali sono assicurate. Gli ospedali sono un livello comparabile a quelli che troviamo qui. Quello che sta accadendo in Libia non è una rivoluzione sociale ed economica come in Tunisia o in Egitto. Si tratta di una rivoluzione politica. “I primi giorni della rivoluzione sono un taglia e incolla”.

          Lei parla di “operazione pianificata con cura“, riguardo i primi giorni della rivoluzione…

          Ciò che mi è apparso chiaro, visitando quattro località del CNT, tra Bengasi, Derna e Tobruk, lo scenario è che le prime ore della ribellione siano esattamente le stesse. Copia e incolla. Si comincia con una manifestazione studentesca, con 15-20 persone. La polizia reprime, ci sono uno o due morti. Che a sua volta porta all’organizzazione di una grande manifestazione che mette in fuga le autorità. Queste ultime, ogni volta, non cercano di prendere le cose in mano. Abbiamo le prove che gli ordini impartiti da Tripoli erano di non fare nulla. Infatti, il campo è stato lasciato ai ribelli, che hanno attaccato gli uffici dello Stato,: stazioni di polizia, municipi, palazzi di giustizia. Tutto ciò che poteva rappresentare l’autorità di Tripoli è stata saccheggiato e distrutto. Ho concluso che non vi erano istruzioni. Noto per inciso che in quel momento, la responsabilità per il mantenimento dell’ordine incombeva sul Generale Younis (ex ministro degli interni di Gheddafi), che è ormai diventato il capo di stato maggiore dei ribelli libici.

          Accusate i ribelli di aver “derubato” e “ucciso” centinaia di lavoratori africani.
          Questi sfortunati si sono trovati intrappolati nel fuoco incrociato. Accusati di essere mercenari al soldo del colonnello Gheddafi dai bengasini, sono stati derubati dalle forze dello stesso Gheddafi, quando hanno cercato di fuggire in Tunisia o in Egitto.

          Possiamo parlare allora, così come fa la vostra missione, della “natura razzista dell’insurrezione”? Noi dei neri, non ne vogliamo sentire parlare. Si sono schierati con Gheddafi!”. “Nicolas Sarkozy ha intrapreso questa strada troppo avventatamente”.

          Con la vostra lettura, si capisce che non stimate molto il CNT…

          Il CNT è la Torre di Babele. È gente simpatica, intelligente, aperta sul palcoscenico, per compiacere l’Occidente. Ma dietro di loro, si vedono le figure del vecchio regime, come l’ex ministro della Giustizia di Gheddafi, Mustafa Mohamed Aboud al-Jelil, coinvolto nel caso delle infermiere bulgare (come presidente della Corte di appello, aveva confermato le condanne a morte), che sono al comando carica. Questo è inquietante … E poi ci sono gli islamisti, anche se fanno molta attenzione a non mostrarsi troppo. Il ramo libico di al-Qaida è molto vivo e si trova in Cirenaica. In questa regione, si sente il peso della religione. La posizione delle donne è sottovalutata, devono indossare il velo. Ci sono anche dei barbuti, cosa molto sintomatica. Il velo e la barba descrivono i comportamenti della società. Descrivere il CNT come istituzione democratica sembra quindi prematuro. Oggi, questo non è il caso.

          Non siete tenero con Nicolas Sarkozy.

          Non vi dirò il contrario. Lui solo ha deciso unilateralmente di tagliare i legami con un paese. Senza previa consultazione. E’ qualcosa di grave. Ha intrapreso questa strada troppo avventatamente. La Francia ha riconosciuto il CNT come stato quando non lo è . La cosa straordinaria è che nessuno ha detto niente. A mio parere, legalmente, non ha alcun valore. Ci si chiede dove sia il diritto in tutto questo.

          Come vedete evolvere le cose?

          L’ignoto: si metteranno le mani sui terminali petroliferi. Ma il pericolo principale è la divisione del paese. Con conseguente destabilizzazione dei paesi vicini dell’Africa sub-sahariana come il Niger e il Mali. Questo è ciò di cui alcuni diplomatici arabi hanno paura. Alcuni leader politici occidentali non sembrano aver letto i rapporti delle loro intelligence. Con la Libia, disponevamo di un blocco solido contro al-Qaida e contro l’immigrazione clandestina. È appena saltato.

          Traduzione di Alessandro Lattanzio

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