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Le relazioni indo-iraniane: cooperazione regionale e pressioni statunitensi su Nuova Delhi

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Il rapporto tra India e Iran, solitamente proficuo, ha subito un significativo peggioramento negli ultimi anni. L’intera recente vicenda collegata all’approvigionamento indiano del petrolio iraniano dimostra come l’India stia subendo una continua pressione internazionale affinché interrompa i propri legami commerciali con Tehran. Questa pressione è contemporanea alla volontà di Nuova Delhi di rafforzare la cooperazione con i vicini attori regionali nel contesto della competizione caratterizzante il “Nuovo Grande Gioco” in Asia Centrale e Meridionale.

 

La scorsa settimana il governo indiano ha risolto una scottante questione legata all’approvigionamento energetico. A partire da agosto, infatti, avrebbero potuto essere interrotte le importazioni di petrolio provenienti dall’Iran a causa di un ritardo nei pagamenti da parte delle compagnie petrolifere di Nuova Delhi. La somma degli arretrati ammontava a circa 5 miliardi di dollari, il cui mancato versamento nelle casse di Tehran avrebbe potuto comportare delle negative conseguenze per l’intero sistema di relazioni indo-iraniane.

Il petrolio di Tehran rappresenta circa il 18% delle importazioni di greggio dell’India, preceduto da quello dell’Arabia Saudita, la quale garantisce una percentuale di poco superiore a quella iraniana. Quasi i due terzi delle importazioni indiane di petrolio, circa 2,2 milioni di barili al giorno, giungono dal Vicino Oriente, in particolare da Iraq, Kuwait ed Emirati Arabi Uniti, i quali garantiscono l’8-10% circa ciascuno di approvigionamento petrolifero.

A partire dalla fine del 2010 i pagamenti all’Iran, mediante la Reserve Bank of India, erano stati bloccati a causa delle pressioni statunitensi sull’India, la quale aveva appoggiato nel 2007 le sanzioni contro l’Iran; seguite dalla decisione dello scorso aprile di limitare il commercio con Tehran che potesse favorire la ricerca nucleare iraniana. Washington e gli alleati occidentali avevano esortato Nuova Delhi a non utilizzare il tradizionale sistema di transazione monetaria gestito dall’Asian Clearing Union (ACU), operante dal 1974 su iniziativa dello United Nations Economic and Social Commission for Asia and Pacific (ESCAP). Gli Stati Uniti sostenevano la mancanza di trasparenza dell’istituto e per i possibili finanziamenti indiretti da parte dell’India del nucleare iraniano, celando in realtà una chiara politica di pressione nei confronti di Nuova Delhi, in modo da isolare Tehran. L’India, di fronte a questi ostacoli, a partire da marzo cominciò ad attivare dei canali alternativi, mediante la banca tedesca EIH; a loro volta interrotti a causa delle pressioni statunitensi e israeliane sulla Germania affinché ostacolasse i pagamenti indiani per il petrolio iraniano.

A causa dei ritardi, le compagnie petrolifere indiane hanno contratto un elevato debito nei confronti dell’Iran, il quale ha posto come termine ultimo per i pagamenti il mese di agosto. Il ministro delle finanze di Nuova Delhi, Pranab Mukherjee, ha sostenuto la scorsa settimana che i problemi legati al pagamento del petrolio sono definitivamente superati, come confermato dallo stesso Iran. Il debito sarà pagato mediante una banca statale turca, la Halkbank. “Asia Times Online” riferisce di una possibile pressione statunitense sulla banca turca per il blocco dei pagamenti, come avvenuto nei confronti della Reserve Bank of India. In realtà, nonostante la Turchia sia un paese di primo piano della NATO, appare poco probabile che Ankara si pieghi alle richieste di Washington, dato il nuovo ruolo geopolitico ricoperto dalla Turchia nell’area. Il controllo dei flussi di denaro indiano destinati all’Iran possono avvantaggiare Ankara nella propria competizione con Teheran nella regione.

L’intero problema non è naturalmente terminato con l’avvenuto pagamento da parte dell’India. La questione è legata a importanti considerazioni di carattere geopolitico, alle possibili conseguenze negative per le relazioni bilaterali indo-iraniane e alla competizione in corso in Eurasia per l’approvigionamento delle risorse energetiche; possono essere considerati, inoltre, le implicazioni per il rapporto tra Stati Uniti e India, collegato al legame con Israele e il mondo arabo sunnita, così come la perdita da parte dell’India della propria autonomia decisionale in politica estera avvenuta nel corso dell’ultimo decennio.

 

Il carattere delle relazioni tra India e Iran e le implicazioni geopolitiche

 

L’India e l’Iran hanno avuto, a partire dalla fine della Guerra Fredda, una proficua relazione, un rapporto strettamente collegato agli storici legami culturali esistenti tra il Subcontinente indiano e la civiltà persiana. Questa connessione ha subito una crisi a causa dell’avvicinamento indiano alla strategia statunitense in Asia Centrale e Meridionale, avvenuto in particolar modo nel corso dell’ultimo decennio e grazie all’azione in politica estera adottata dall’attuale coalizione progressista governativa guidata dal Congresso. Durante la Guerra Fredda, prima del 1979, l’India e l’Iran appartenevano a blocchi contrapposti: Nuova Delhi era maggiormente legata all’Unione Sovietica, mentre Tehran aveva un ottimo rapporto con Washington e Islamabad. In seguito alla rivoluzione khomeinista, l’Iran mantenne delle proficue relazione con il Pakistan islamico, piuttosto che con la secolare India. A partire dall’inizio degli anni novanta il legame tra Iran e India si è andato sempre più rafforzando, contraddistinto da importanti accordi di tipo commerciale e da una politica comune a riguardo di determinate questioni geopolitiche. In particolar modo per quanto riguarda l’Afghanistan, l’Iran non ha mai appoggiato il governo talebano filo-pakistano, favorendo, assieme all’India e alla Russia, attraverso una comune azione in Tagikistan, l’Alleanza del Nord afghana. Per quanto concerne Kabul, l’Iran rappresenta per Nuova Delhi un importante alleato per il commercio con l’Afghanistan e per il mantenimento dell’influenza indiana sul paese. Nell’attuale fase in cui gli Stati Uniti e la NATO sembrano volersi disimpegnare in Afghanistan, visto anche l’interesse statunitense per la ricerca di un potenziale nuovo ruolo attivo per il Pakistan, l’India potrebbe trovare nell’Iran un importante alleato per i propri interessi in Afghanistan. Non è comunque da sottovalutare il fatto che Nuova Delhi possa cooperare anche con Cina e Pakistan, dato il miglioramento dei rapporti con i due paesi avvenuto negli ultimi mesi. In questo senso verrebbe favorita la cooperazione regionale e l’azione della Shanghai Cooperation Organisation (SCO) nel paese, vista anche l’intenzione cinese e russa di includere a breve Nuova Delhi e Islamabad nell’organizzazione come membri permanenti.

Tehran rappresenta un’importante risorsa per l’India non solo per gli interessi indiani in Afghanistan, ma anche per il nuovo ruolo ricoperto da Nuova Delhi in Asia Centrale. L’India sta, infatti, cercando di migliorare le proprie relazioni con le repubbliche centro-asiatiche, in modo da poter garantire una propria penetrazione economica nell’area, con evidenti implicazioni per l’approvigionamento energetico. Nuova Delhi ha siglato recentemente degli accordi commerciali in particolare con l’Uzbekistan e il Kazakistan. L’azione indiana in questi paesi è legata, inoltre, alla possibile cooperazione economica tra Nuova Delhi e questi Stati che potrebbe estendersi anche all’Afghanistan. Uno dei problemi attuali dell’India è legato alla mancanza di collegamenti terrestri con le repubbliche centro-asiatiche. Un proficuo rapporto con l’Iran, e potenzialmente con il Pakistan, potrebbe giovare al superamento di tale ostacolo, dal momento che la possibile presenza di due Stati ostili a occidente comporterebbe delle evidenti ripercussioni negative per gli interessi indiani in Asia Centrale e Afghanistan.

Oltre al rifornimento di petrolio, Tehran potrebbe garantire l’approvigionamento di gas naturale, mediante il gasdotto IPI, la cui costruzione in Pakistan dovrebbe iniziare a partire dalla fine del 2011, grazie al finanziamento cinese. L’ipotetica pipeline non è mai stata del tutto abbandonata dall’India, ma sembra che nell’intera vicenda legata ai gasdotti Nuova Delhi abbia scelto il TAPI, seguendo le pressioni statunitensi. Non convincono comunque le preoccupazioni indiane sulla sicurezza adottate come giustificazione della mancata partecipazione all’IPI. Il TAPI attraverserebbe ugualmente due Stati contraddistinti da problematiche legate all’insicurezza dei loro territori, l’Afghanistan e il Pakistan. Durante il mese d’agosto si sono svolti importanti colloqui tra il Turkmenistan, l’India e l’Afghanistan. Nuova Dehli e Ashgabat si sono accordate sul prezzo del gas naturale, rendendo dunque fattibile la costruzione della pipeline. A questo proposito è comunque da ricordare la recente attenzione posta dalla Russia, alleato militare dell’India, sia sull’IPI sia sul TAPI. Questi progetti, infatti, se realizzati, renderebbero il mercato europeo dipendente interamente dal gas naturale russo, dal momento che sia il gas iraniano sia quello turkmeno potrebbero essere indirizzati verso oriente. La Gazprom ha manifestato il proprio concreto interesse per la realizzazione della parte del gasdotto attraversante il Pakistan, al quale è interessata anche la Cina, con il conseguente possibile miglioramento delle relazioni russo-pakistane. La stessa compagnia russa ha l’intenzione di monitorare la situazione del gas turkmeno, avendo il pieno controllo del giacimento di Dautelabad, ipotetica fonte del TAPI. Recentemente però Ashgabat ha modificato le proprie intenzioni a riguardo della fonte di gas naturale per il TAPI, puntando sul giacimento di South Yolotan-Osman, il quale è già la fonte di gas naturale per la Cina e potrebbe diventare il quinto giacimento per produzione di gas a livello mondiale. In questo caso la Gazprom non ha voce in capitolo e il Turkmenistan potrebbe indirizzare il surplus derivato dal giacimento di Dautelabad verso l’Europa, rendendo possibile la realizzazione della pipeline Nabucco, competitiva al gas russo e sponsorizzata da Washington. In questo quadro saranno da attendere le mosse future dei diversi attori in gioco, ma la Russia si sta attivando per cercare di indirizzare il gas presente in Iran e Turkmenistan verso oriente in modo da soddisfare in primo luogo i propri interessi. Una delle opzioni è il vasto mercato indiano, potenzialmente il secondo o terzo consumatore di gas naturale nei prossimi decenni. Per quanto riguarda l’India sarà necessario comprendere se le autorità di Nuova Delhi opteranno per una politica estera autonoma dagli interessi statunitensi e maggiormente legata alle potenze regionali.

 

Gli ostacoli internazionali per le relazioni indo-iraniane

 

Le relazioni indo-iraniane sono ostacolate dalle pressioni, crescenti negli ultimi anni, esercitate da Stati Uniti e Israele su Nuova Delhi. L’India, in seguito all’accordo sul nucleare civile con Washington, ha mantenuto una politica strettamente legata ai desiderata statunitensi, a costo anche di ledere i propri interessi strategici. Gli accordi commerciali con l’Iran sono cospicui e l’approvigionamento di petrolio ha un giro d’affari intorno ai 12 miliardi di dollari l’anno. La stessa alleanza strategica con Israele, cresciuta in seguito alla fine della Guerra Fredda, ha determinato una perdita d’autonomia nella politica estera indiana in determinate questioni. Per quanto riguarda il proprio rapporto diplomatico con Tehran, l’India non può non tener conto di un altro importante ostacolo, fattore spesso sottovalutato. Nuova Delhi ha un fondamentale legame con i paesi del Vicino Oriente guidati dalle monarchie arabe sunnite e capeggiati da Riyad, i quali vedono nell’Iran una minaccia per la stabilità della regione. Arabia Saudita, Kuwait, Bahrain, Qatar, Emirati Arabi Uniti e Oman rappresentano per Nuova Delhi un’importante risorsa in termini commerciali, lavorativi ed energetici. Milioni d’indiani lavorano nei paesi arabi, il cui lavoro consta in circa il 40% delle rimesse degli emigrati verso l’India; il loro numero è destinato ad aumentare di circa il 5-10% nel prossimo decennio. Il commercio ammonta a circa 114 miliardi di dollari e potrebbe raddoppiare a partire dal 2014. Come ricordato in precedenza, il mondo arabo sunnita rappresenta anche un’importante fonte d’approvigionamento petrolifero per l’India. Nuova Delhi si trova di fronte a una duplice pressione, una proveniente da Stati Uniti e Israele, l’altra derivante dal mondo arabo, molto spesso molto più forte rispetto a quella israelo-statunitense. A questo proposito la decisione indiana di appoggiare le sanzioni contro l’Iran nel 2007 deriva da questa doppia spinta, la quale influenza sovente le scelte in politica estera dell’India.

La scelta strategica di Nuova Delhi di avvicinarsi sempre più a Washington è spiegata dalla contemporanea crisi nei rapporti tra Stati Uniti e Pakistan, così come dal sempre più stretto legame tra quest’ultimo e la Cina. A questo proposito non sorprende l’ingerenza statunitense nei confronti della politica interna indiana, esemplificata recentemente dalla questione di Anna Hazare, l’attivista gandhiano che sta sfidando il governo nella sua richiesta di un chiaro sistema legislativo contro l’imperante corruzione della società indiana. Gli Stati Uniti hanno ricordato all’India la necessità di garantire il libero svolgimento democratico di manifestazioni di dissenso. E’ evidente che l’azione di Hazare non è dettata, come sostenuto da alcuni esponenti governativi sotto pressione per l’intera vicenda, da un ipotetico finanziamento statunitense nei confronti di Hazare. Il problema della corruzione in India è una grave questione riguardante la società interna che colpisce principalmente le categorie sociali più basse e la classe media. I diversi scandali di corruzione emersi recentemente sono piuttosto legati alle politiche di liberalizzazione di stampo occidentale; gli scandali sono, infatti, cresciuti notevolmente a partire dal 1991. E’ piuttosto da sottolineare il fatto che la politica estera indiana stia subendo una considerevole pressione da parte degli Stati Uniti; oltre alla recente ingerenza sulla questione Hazare e sul pagamento dei rifornimenti petroliferi all’Iran, si può ricordare la richiesta statunitense della scorsa settimana affinché l’India interrompa i rapporti commerciali con la Siria e intensifichi la propria azione contro il regime di Assad. La scelta pochi mesi fa dell’Ayatollah Khamenei di appoggiare le rivendicazioni di autonomia del Kashmir, potrebbe portare l’India a un cambiamento di rotta nella propria politica estera, data la sensibilità indiana nei confronti della tematica kashmira, della quale non ha mai inteso accettare ingerenze esterne.

La questione dei pagamenti indiani del petrolio iraniano è un importante capitolo del complesso e contemporaneo “Nuovo Grande Gioco” delineatosi in Eurasia: la diplomazia attiva russa e cinese in competizione con quella statunitense in Pakistan, paese fondamentale per il transito di gasdotti e oleodotti; competizione evidente anche in Afghanistan, dove si inseriscono gli interessi anche di Pakistan, Iran e India; la spinta statunitense per un possibile dialogo con i talebani, in modo da rendere sicura ed effettiva la presenza di una propria base militare permanente a Kabul, in funzione anti-cinese, anti-russa e anti-iraniana; l’attenzione sempre più forte posta da tutti i diversi attori verso l’Asia Centrale e le sue risorse di idrocarburi; il crescente attivismo dello SCO in Afghanistan, unito alla volontà di includere come membri permanenti Pakistan e India, e potenzialmente l’Iran, nell’organizzazione, in modo da creare un potere controbilanciante l’alleanza atlantica (resta da vedere però come si comporteranno le repubbliche centro-asiatiche, attratte dalla NATO); la contemporanea spinta statunitense (unita a quella israeliana e dell’Arabia Saudita) verso l’India affinché si leghi sempre più strettamente alla strategia degli Stati Uniti.

L’avvenuto pagamento all’Iran dimostra una direzione precisa della politica estera dell’India, anche se un definitivo superamento delle recenti incomprensioni indo-iraniane è ancora molto lontano. L’India sembra comunque propensa a indirizzare la propria politica estera verso la cooperazione regionale, dato il miglioramento dei rapporti con la Cina e con lo stesso Pakistan. Un diverso indirizzo delle relazione indo-pakistane è possibile ed è testimoniato dalla riapertura del dialogo tra i due paesi avvenuto a Mohali lo scorso marzo e dalla recente visita del nuovo ministro degli esteri pakistano Hina Khar Rabbani a Nuova Delhi lo scorso luglio.

 


*Francesco Brunello Zanitti, Dottore in Storia della società e della cultura contemporanea (Università di Trieste). Ricercatore dell’ISaG per l’area Asia Meridionale, è autore del libro Progetti di egemonia (Edizioni all’Insegna del Veltro, Parma 2011). In “Eurasia” ha pubblicato Neoconservatorismo americano e neorevisionismo israeliano: un confronto (nr. 3/2010, pp. 109-121).

 

 

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Due bandiere

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Due bandiere

Dell’aggettivo che le qualifica parlerò alla fine.

Della prima bandiera parlerò subito. Si tratta della bandiera dei “diritti umani”. Buona per tutti gli usi e che caratterizza l’Occidente ormai da vent’anni. Della seconda invece parlerò soltanto a conclusione di queste considerazioni relative agli eventi definiti poeticamente “primavere arabe” ed in particolare all’odiosa e feroce aggressione alla Libia da parte dei “buoni”, autodefinitisi “volenterosi”, i sostenitori appunto dei “diritti umani”, in una parola, l’Occidente. Che strano modo per caratterizzare una civiltà con un punto cardinale anche se qualificato come democratico! Ma procediamo con ordine.

Un po’ di storia non guasta

Gli anni che vanno dalla caduta dell’impero sovietico ad oggi, e che, con la caduta dell’”Impero del Male” avevano fatto dire a molti sconsiderati che andavamo verso un mondo tutto “latte e miele”, sono stati caratterizzati da guerre scatenate proprio dall’Occidente “buono” che si è premurato di distruggere la Jugoslavia e di gettare nel panico una vasta area del mondo nota come Medio Oriente, abitata in gran parte da musulmani sia sunniti che sciiti, (e anche da cristiani) quel Medio Oriente all’interno del quale, nel 1947, i “buoni” avevano fatto nascere lo Stato d’Israele, poco preoccupandosi poi del fatto che questa decisione aveva comportato una pulizia etnica di più di 750.000 palestinesi. Una zona, da quel momento, nevralgica e piena di tensioni per tutti.

Di questa zona, con la scomparsa dell’URSS, l’Occidente “buono” decise di ridefinirne confini e ruoli. C’era già stato un incidente di percorso in Iran, con la sostituzione di un accomodante Scià (accomodante verso gli interessi dell’Occidente ben’inteso ! e non certo verso i propri sudditi, sottoposti ad una feroce dittatura da parte del Re dei Re) con una Repubblica islamica. Incidente di percorso, che nemmeno una guerra lunga otto anni condotta dell’Iraq, assurto a paladino dell’Occidente contro le belve komeiniste (gli iraniani) era riuscito a sanare, ma gli elogi (e le armi) per Saddam Hussein si erano sprecate !

Dal 1991 in poi, per Saddam le cose cambiarono. Ci fu la prima guerra del Golfo, che Bush padre diresse contro l’Iraq accusato di aver invaso il Kuwait (ed era vero !) ma condannato da un’unica risoluzione dell’ONU, senza tirare in ballo la diplomazia. Passi ! Ma dopo il cessate il fuoco, si continuò a tenere sotto il terrore di bombardamenti a gogò l’intero popolo irachen, per quasi un decennio.

Con Bush figlio le cose non andarono meglio. Ci fu l’11 settembre 2001. Nell’ottobre gli americani erano già in Afghanistan, alla caccia di un Bin Laden vivo o morto. Una “guerra infinita” dissero allora. Ma il peggio per l’Iraq (e per Saddam Hussein) non era ancora arrivato. Nel frattempo, Bush figlio aveva cominciato ad allargare lo spazio che intendeva ridefinire strategicamente ed aveva cominciato a parlare di Grande Medio Oriente. E’ soltanto con il marzo 2003 però che viene veramente in piena luce la “bontà” dell’Occidente. Una campagna mediatica diffonde la notizia, poi confermata insistentemente da Bush e da Blair (con sceneggiata di Colin Powell all’ONU, e relativa esibizione di una piccola fiala, capace a sentir lui di distruggere mezzo mondo!), che l’Iraq è in possesso di armi di distruzione di massa !

Scatta l’attacco all’Iraq, una nuova guerra che poco più di un mese dopo Bush dichiarerà conclusa. Ovviamente, le armi di distruzione di massa non c’erano ! Due criminali a piede libero, alla guida di paesi potentissimi, hanno segnato la vita di questi ultimi dieci anni, per fare buon peso, di milioni e milioni di persone, uccidendone centinaia di migliaia, ferendone un numero ancora maggiore, istupidendone addirittura milioni legati allo stesso punto cardinale. E tutto questo all’insegna della “esportazione della democrazia” della “guerra al terrorismo”, servendosi delle più spudorate e menzognere campagne mediatiche, dove il verbo CIA, anche se del tutto estraneo al buon senso è diventato tout court il Verbo !

 

Le “primavere arabe

Ho dovuto fare questo premessa, (altro che Bignami!) per poter esporre con chiarezza il senso di quanto è avvenuto negli ultimi sei mesi, (ovviamente secondo me), in Egitto, in Tunisia, in Siria e in particolare in Libia. Che le campagne irachene a afghane siano state (e continuino ad essere) un fallimento per gli USA non è un segreto per nessuno e per me è dunque facile servirmene come punto di partenza. E che Obama, alla sua elezione, avesse promesso di uscire dalla trappola grandemediorientale, anche questo è assodato.

Non era parso vero a tutti gli sconsiderati che si aspettano sempre qualcuno che faccia meglio dell’altro (presidente), senza mai entrare nel merito del perché le cose accadano, sconsiderati del tutto simili ai tifosi del mondo “latte e miele” e che, purché non debbano impegnarsi, sono pronti a chinarsi a tutti i potenti di turn, l’aver trovato un presidente, “abbronzato” e democratico. Non era parso vero dicevo, e in questo almeno avevano indovinato: non era vero! Dunque Obama, senza di fatto cambiare in nulla la strategia, ha però dovuto modificare la campagna mediatica. Emblematico il suo discorso di due anni fa al Cairo. (4 giugno 2009) con un recupero del valore dell’islàm che non doveva essere confuso con Al Qaeda (bontà sua!) e soprattutto un invito esplicito a non demonizzare gli USA (visto che di bandiere statunitensi e israeliane se ne bruciavano a iosa), a guardare in casa propria e a liberarsi di dittatori ed oppressori locali. Un vero presidente democratico! Chi potrebbe trovare sconveniente una tale formulazione, sempre che gli USA si facciano gli affari propri?!

Ed eccoci alle “primavere arabe”. Gli Stati uniti sono rimasti pappa e ciccia con Mubarak fino all’ultimo momento e così ha fatto la Gran Bretagna con Ben Ali. E mentre soffia un vento di rivolta e di liberazione, cosa succede in Egitto e in Tunisia ? Di manifestanti ne muoiono, ma dalla Tunisia va via soltanto Ben Ali e in Egitto c’è di fatto un colpo di stato militare. O pensate che la farsa del processo a Mubarak sia una cosa seria? Gli USA danno da tempo immemorabile all’Egitto o meglio all’esercito egiziano 800 milioni di dollari all’anno. Hanno smesso di darglieli? Certamente no!

E veniamo ora alla Libia. I commentatori più avvertiti (e meno venduti) hanno parlato di rivolte e non di rivoluzioni, evidenziando la mancanza di una direzione di questi movimenti, che si sono affidati alla “libertà di Internet”. Ora, a parte il fatto che in Egitto le possibilità di comunicazione si sono ridotte a zero ben presto, ci vuole molta ingenuità a pensare di ribellarsi al potere con uno strumento molto più adatto per darsi un appuntamento amoroso o per andare a mangiare una pizza con gli amici ! C’è bisogno di organizzazione e che organizzazione per fare certe cose. E questo mi ha portato a pensare che Obama fosse contento (purché non si esagerasse) di come si svolgevano le cose.

In Libia invece, le cose sono andate in modo molto diverso. L’organizzazione c’era e come! Peccato che si trattasse dei servizi segreti britannici e francesi che da più di due anni preparavano l’attacco a Gheddafi, servendosi dell’ambiente di Bengasi, legato da sempre a tribù ostili al Rais e che contavano di arrivare al seguito dei vincitori a Tripoli.

E come si è potuto arrivare alla guerra? C’è voluta una menzogna: gli insorti, si è detto (l’impersonale è ironico, lo hanno detto praticamente tutti i mezzi di comunicazione di massa occidentali!), – quegli insorti che ancora oggi non si sa bene chi siano – stavano per essere massacrati, Gheddafi stava preparando un vero e proprio “bagno di sangue”. Pensate che a due giorni dall’insurrezione, Al Jazeera, la televisione del Qatar, stato che si era aggregato alla cricca franco-britannica, parlava di 10.000 morti e di fosse comuni. Dopo sei mesi di guerra, ora si parla di 20.000 morti, le fosse comuni sono quelle scavate dagli insorti e i bombardieri della Nato non si sono fermati un momento!

L’Occidente, “buono” ha riunito subito l’ONU e ha impapocchiato una risoluzione, molto modesta del resto, che fissava una NO-FLY ZONE per gli aerei di Gheddafi in modo da impedirgli di bombardare (?!) Bengasi. Nell’arco di pochi giorni i francesi per primi, seguiti poi da americani e britannici hanno cominciato a bombardare su qualsiasi cosa si muovesse (oltre a tutto ciò che stava fermo) ed ora la “no-fly zone” si è trasformata nel diritto ad un “Gheddafi vivo o morto”. Il diritto internazionale, da sempre monopolio dei potenti, è diventato chiacchiere per gonzi, e dietro queste chiacchiere si sono coperti in Italia tutti, compreso il Presidente della Repubblica, che ha sostenuto che i nostri impegni internazionali ci obbligavano a fare la guerra alla Libia, tacendo che altre nazioni facenti parte della NATO si erano guardate bene dal farla!

C’è una stampa, nota come embedded, che vuol dire letteralmente che dorme insieme, che nega ogni evidenza pur di sostenere la linea occidentale. Io direi che oltre a dormire, mangia a quattro ganasce servendosi delle sue menzogne.

Domenica 28 agosto, la stampa non embedded, riunita all’Hotel Rixos di Tripoli, è stata nel frattempo minacciata di morte da falsi giornalisti CNN rivelatisi agenti CIA (americani) e MI6 (inglesi) e da cecchini delle forze degli “insorti” di fatto miliziani di Al Qaeda sdoganati, insomma veri e propri tagliagole, per impedire loro di uscire a vedere quel che stava succedendo in città.

Ma il troppo è troppo e anche qualche giornalista embedded francese, come l’inviato di France 24 Matteo Mabin, inizia a riferire che il cosiddetto “assedio al bunker di Gheddafi” in effetti è un massacro casa per casa di funzionari medio-piccoli e delle loro famiglie, donne e bambini compresi, da parte dei tagliagole prezzolati dalla NATO. Massacro che il nostro democraticissimo “La Repubblica” attribuisce a Gheddafi (“Scoperto l’ospedale degli orrori: 200  morti“).

Il sudiciume tracima a tal punto che persino la collaborazionista ONU, per bocca di Ian Martin consigliere del Segretario Generale, deve parlare di “abusi compiuti dai ribelli“.

 

Conclusioni

Sempre domenica 28 agosto, su La Stampa, un articolo di Enzo Bettiza sintetizza così la guerra alla Libia:

Una discutibile guerra aerea, imposta senza corrette consultazioni da Parigi a mezza Europa, alla Nato, alle Nazioni Unite, si è prolungata affannosamente per sei mesi e alla fine si è quasi ridotta , come in un surreale gioco di playstation, alla caccia ripetitiva e puntigliosa di un mostro invisibile. E’ a questo punto, anche se per ora non possiamo evocare Pirro,che il bluff umanitario di Sarkosy inizia a mostrare l’occulta corda colonialista. Stanno venendo alla luce i fini materiali della sua impresa che rivrla i tratti cosmetici di un postgollismo di riporto: protezioni indulgenti e oscillanti concesse, dopo il colonialismo storico, ora ai dittatori miliardari ora ai popoli derelitti del Terzo mondo

Mi pare che basti. Resta da dire qualcosa sulla seconda bandiera che sventola un po’ dappertutto e soprattutto nel nostro paese. Essa testimonia una regressione di centinaia di migliaia di anni. Nella nostra catena evolutiva, prima ancora di Homo sapiens compare un’altra specie, Homo erectus. Ebbene, bisogna fare ancora parecchi passi indietro, per trovare una traccia dei nostri tempi disgraziati. Caratterizzati dalla bandiera dei “disumani proni”! Quanto all’aggettivo qualificativo relativo ad entrambe le bandiere, non ci sono dubbi: infami.

Roma, 2 settembre 2011

per gentile concessione del periodico La Responsabilità

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L’origine delle minacce alla Siria, ultimo baluardo del nazionalismo arabo

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Il progressivo acuirsi della tensione all’interno del mondo arabo ha inoppugnabilmente conferito alla religione – in specie dall’11 settembre 2001 in poi – un ruolo cruciale nello scatenamento dei conflitti ed esaltato una presunta incompatibilità fra civiltà islamica e civiltà occidentale sostenuta in tempi non sospetti dal celebre politologo Samuel Huntington.

Ciò che Huntington e i numerosi propugnatori dell’imminente scontro di civiltà si sono guardati dal considerare, tuttavia, è un altro fattore.

Il fatto, cioè, che il fenomeno  più assiduamente preso di mira dalle potenze anglosassoni interessate ad imporre la propria egemonia sul Vicino e Medio Oriente sia espressione della più evidente vocazione europea.

Si tratta del nazionalismo arabo propugnato da uomini politici di notevole spessore animati dalla volontà di riscattare i propri paesi vessati e umiliati da decenni di imperialismo europeo e statunitense.

Non è frutto del caso il fatto che ogni forma e versione della spinta nazionalista – da Mossadeq a Nasser, da Saddam Hussein alla stirpe degli Assad – sia stata duramente colpita fino a scomparire dall’orizzonte politico mediorientale.

Con un’eccezione, che corrisponde alla Siria baathista.

Il Baath è un partito che affonda le radici in Europa dove Michel Aflaq, il suo ideologo principale, si era recato per approfondire la propria conoscenza del Vecchio Continente e studiare filosofia.

Si iscrisse alla Sorbona, dove ebbe modo di leggere le opere di Marx, Lenin, Nietzsche e Mazzini e di assistere all’ascesa al potere di Hitler.

Tornò in patria dopo aver maturato una complessa concezione ideologica frutto dell’assimilazione di svariate componenti del leninismo e del fascismo.

Aflaq concentrò tutti i propri sforzi nella fondazione del partito Baath, incardinato sulle intuizioni della precedente fase europea.

Finì in galera diverse volte a cavallo tra la fine degli anni ’40 e l’inzio degli anni ’50 ma riuscì infine nell’impresa di fondere il Baath con il partito socialista siriano, dando vita a una nuova formazione politica di cui si accingeva ad assumere il ruolo di segretario generale.

Il programma della nuova organizzazione prevedeva la rinascita del mondo arabo, la formazione di un’unica nazione araba basata sui modelli europei di cui i singoli paesi sarebbero divenuti province, la scolarizzazione delle masse imperniata sui principi di solidarietà e progressismo.

La struttura portante della nazione unitaria di cui Michel Aflaq e il suo compagno Akram Hurani intendevano promuovere la costruzione sarebbe dovuta scaturire dalla sintesi di elementi storici, culturali e geopolitici fusi in totale, armonica compenetrazione.

Da greco – ortodosso quale era, Aflaq sapeva che la realizzazione di un progetto tanto ambizioso non avrebbe mai potuto contemplare qualsiasi discriminazione di natura confessionale e infatti si premurò di esaltare il carattere laico dello Stato da costruire escludendo qualsiasi riferimento alla religione.

L’idea di dar vita a una nuova nazione araba che avrebbe dovuto ospitare drusi, copti, sciiti, sunniti, cattolici ecc. si amalgamò ben presto con la versione di socialismo panarabo di cui la parentesi nasseriana fu la massima espressione.

Tuttavia, fu proprio l’ascesa di Nasser a scompaginare l’unità del nuovo movimento politico e frammentò il Baath in  una costellazione di correnti e fazioni.

I panarabisti intendevano avvicinarsi all’Egitto, i nazionalisti preferivano profondere tutti gli sforzi necessari alla costruzione di una Siria potente e solida, l’ala radicale guardava con favore al modello sovietico ed auspicava che fosse lo Stato a dettare le regole dell’economia mentre quella più moderata propugnava una visione mista in cui la tradizionale cultura del bazar entrasse in simbiosi con i grandi progetti industriali di cui il paese aveva bisogno.

Malgrado permanesse un solido fondamento politico condiviso da tutte le correnti come la ferma opposizione all’imperialismo e al colonialismo, cementata negli anni dalla tragica pulizia etnica della Palestina, una frangia del Baath intendeva accordarsi con l’Unione Sovietica mentre altre diffidavano del comunismo e del governo di Mosca.

L’audace politica propugnata da Nasser – fondata su un capitalismo di stato ostile al modello liberista e allo stesso tempo tiepidamente favorevole all’alleanza con i paesi del blocco comunista (considerato come l’unico, indispensabile contraltare all’insanabile ostilità delle potenze occidentali) – esercitò una forte influenza nella determinazione delle dinamiche politiche del Vicino e Medio Oriente.

I modelli autoritari europei guardati con favore da Aflaq e il nasserismo costituirono il perno attorno al quale si sviluppò l’intero nazionalismo arabo;dalla formazione dei sistemi a partito unico alla radicalizzazione del culto della personalità dei leader politici, fino all’industrializzazione organizzata e diretta dallo Stato.

Nel loro tentativo di conseguire una modernizzazione dei propri paesi assestandosi su una posizione di relativa terzietà rispetto all’antagonismo bipolare capitalismo/comunismo, molti esponenti del nazionalismo arabo sono stati colpiti duramente in virtù della loro debolezza.

La Siria è attualmente l’unica superstite in virtù della propria posizione geopolitica fondamentale e delle scelte strategiche compiute a suo tempo da Hafez Assad – salito al potere nel 1970 dopo una lunghissima serie di faide interne al Baath – che si era allineato alla direttrice sovietica per garantirsi il proprio ombrello protettivo.

Una volta crollata l’Unione Sovietica il regime guidato da Bashar Assad – figlio di Hafez – è stato inserito nel novero degli “stati canaglia” e minacciato direttamente, da Stati Uniti e Israele in primo luogo.

Da allora la posizione della Siria è andata progressivamente peggiorando.

Il Quadrennial Defense Review Report redatto nel settembre 2001 riportava che: “Le forze armate statunitensi devono mantenere la capacità, sotto la direzione del Presidente, di imporre la volontà degli Stati Uniti a qualsiasi avversario, inclusi Stati ed entità non statali, cambiare il regime di uno stato avversario od occupare un territorio straniero finché gli obiettivi strategici statunitensi non siano realizzati”.

Si trattava di porre le basi del progetto relativo al “Grande Medio Oriente” che il Presidente George W. Bush presentò pubblicamente in occasione del vertice del G8 del giugno 2004.

Tale progetto prevedeva un ridisegnamento degli assetti geopolitici dell’area territoriale che si estende dal Marocco al Pakistan in modo da renderli funzionali agli interessi statunitensi.

Dopo l’occupazione dell’Afghanistan venne immediatamente rinsaldata l’asse Washington – Tel Aviv, al fine di placare le ambizioni indipendentiste palestinesi e favorire l’affermazione di Israele al rango di potenza egemone dell’intera regione.

Successivamente, l’Iraq venne aggredito unilateralmente, il Baath iracheno scardinato, Saddam Hussein condannato a morte e sostituito da un regime confacente agli interessi statunitensi.

Nel 2005, l’assassinio dell’ex Primo Ministro libanese Rafik Hariri istantaneamente attribuito al regime di Damasco innescò la miccia della rivolta antisiriana meglio nota come Rivoluzione dei Cedri, alimentata e sostenuta attivamente dal Comitato statunitense per un Libano libero creato da Ziad Abdelnour, banchiere espatriato che godeva del pieno supporto israeliano.

Nel marzo dello stesso anno il tono delle minacce rivolte verso Damasco assunse contorni inquietanti.

“Gli Stati Uniti ordinano ai siriani di andarsene dal Libano”, tuonò il Dipartimento di Stato, che si guardò bene dall’ingiungere ad Israele di fare lo stesso in relazione alle Alture del Golan sottratte alla Siria fin dal 1967.

Il vessillo del “Grande Medio Oriente” agitato da George W. Bush è stato evidentemente ripreso da Barack Obama, che unitamente al Presidente francese Nicolas Sarkozy ha più volte minacciato la Siria, intimando al regime di Bashar Assad di farsi da parte e lasciare che la “democrazia” faccia il suo corso, esattamente come in Libia.

Il regime di Gheddafi rappresentava un’ulteriore espressione del nazionalismo laico arabo, anch’esso preso di mira dagli Stati Uniti e dalle potenze europee loro sottoposte.

Il fatto stesso che siano stati i regimi laici del Vicino e Medio Oriente ad esser presi di mira con inaudito vigore dalle potenze anglosassoni e dai loro alleati dimostra quindi l’inconsistenza della concezione di Huntington incardinata sulla presunta insanabile conflittualità tra Occidente e civiltà islamica.

Ma comprova, soprattutto, il fatto che le potenze interessate ad estendere la propria egemonia sul mondo arabo hanno considerato come un enorme pericolo quelle forze modernizzatrici potenzialmente suscettibili di favorire il processo di emancipazione dei popoli del Vicino e Medio Oriente.

Giacomo Gabellini è collaboratore di Conflitti & Strategie

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Quel “buco” che inghiotte popoli e stati

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Fonte: “Il Secolo d’Italia

 

Ancora tu? Ma non dovevamo non vederci più? Devono aver pensato questo, gli italiani, di fronte al riemergere del problema dei problemi: il debito pubblico. Una cosetta, per capirci, da 1890,6 miliardi di euro. Che certo non nasce ieri. E mentre il governo cerca di districarsi fra i veti (interni ed esterni all’esecutivo) proprio per arginare la voragine, noi cerchiamo di guardare un po’ più a fondo dentro questo buco nero che ormai da anni sembra perseguitare governi e, soprattutto, cittadini.

Che cosa è?
La definizione ufficiale del debito pubblico data dal Consiglio europeo è la seguente: «Per debito pubblico si intende il valore nominale totale di tutte le passività del settore amministrazioni pubbliche in essere alla fine dell’anno, ad eccezione di quelle passività cui corrispondono attività finanziarie detenute dal settore amministrazioni pubbliche». Più genericamente, l’Enciclopedia Treccani spiega trattarsi dell’«importo complessivo dei prestiti che lo Stato, le aziende statali autonome, le regioni, le province, i comuni, le istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza, le imprese e gli enti speciali appartenenti allo Stato contraggono periodicamente a fronte del deficit di bilancio […]. La copertura del d.p. viene di solito realizzata con l’emissione di titoli di Stato (Bot, Cct ecc.) o con l’aumento delle imposte correnti». Per farla breve e parlare (è proprio il caso di dirlo) “in soldoni”: si ha debito pubblico quando le spese dello Stato sono maggiori delle sue entrate. Elementare. O forse no.

Quando si è formato…
Facciamo un po’ di storia. In Italia il rapporto  percentuale tra il debito e il Prodotto interno lordo era di circa il 30% negli anni ’50 e ’60. Negli anni ’70 veleggiava tra il 44 e il 55%, con punte del 65. In quell’epoca, il resto dell’Europa stava più o meno come noi. Il problema è che i nostri cugini d’oltralpe rimarranno su quei valori per tutto il ventennio successivo. Da noi, invece, accadrà qualcosa. Di strano e di pericoloso. Gli anni ’80, infatti, vedono il nostro deficit ampliarsi a dismisura: a metà del decennio (in piena era Craxi), il rapporto debito/Pil supera l’80%, nel 1990 siamo già al 94,7%. Ma la corsa non si ferma, toccando l’apice nel 1994, con un preoccupante 121,8%. Da lì in poi saranno alti e bassi, sempre su valori folli, sia pur con lievi diminuzioni tra il ’95 e il 2005 (sia con i governi di sinistra che con quelli di destra) per poi tornare a risalire.

…e come
Stabilire le responsabilità della creazione di questo abisso senza fondo sarebbe ovviamente difficile. Quando si parla di grandi meccanismi e lunghi periodi, del resto, è probabile che il colpevole non sia una persona ma, piuttosto, un sistema, una tendenza, una mentalità. Sicuramente determinati da una serie di concause. Gli analisti, comunque, si dividono. C’è chi attribuisce le responsabilità all’espansione del welfare successiva ai grandi mutamenti sociali degli anni ’70. Chi alla classe dirigente socialista dell’epoca craxiana, cui viene rimproverata una cera mancanza di oculatezza finanziaria. Qualcun altro va più indietro, precisamente al ferragosto del ’71, quando gli americani (Nixon, per la precisione) posero fine al regime dei cambi fìssi instaurato dagli accordi di Bretton Woods. Il precedente sistema basato sulla convertibilità aurea del dollaro, infatti, aveva retto fino all’invasione dei mercati internazionali da parte dei petrodollari. La svolta di Nixon decretò la nascita della finanziarizzazione senza controlli, con denaro nato letteralmente dal nulla e senza corrispettivi reali.

Per colpa di chi?
D’accordo: macrosistemi, tendenze di lungo periodo, grandi mutamenti finanziari. Ma c’è qualche nome e cognome da fare per individuare i veri responsabili dell’aumento incontrollato del debito? Un nome è stato fatto ed è indubbiamente il più comodo da pronunciare per tanti: quello di Bettino Craxi. Eppure, per quanto il leader socialista possa avere le sue colpe, dovremmo forse guardarci attorno, fra i politici ancora in circolazione. Magari tra coloro che certi “ambienti finanziari” vorrebbero alla guida di improvvisati governi “tecnici” in possesso di tutte le ricette giuste (giuste per chi?). Già a inizio anno, precisamente il 4 gennaio, Franco Bechis faceva su Libero i nomi e i cognomi di coloro che, numeri alla mano, hanno maggiormente contribuito ad allargare il buco. Il primo classificato risultava essere Carlo Azeglio Ciampi. Durante il suo governo tecnico (1993/94) il debito aumentò di 117 miliardi e 568 milioni di euro (174 miliardi di euro a valore attuale). C’è chi fece peggio, in realtà: Amintore Fanfani, nel 1987, fece aumentare il debito pubblico di 13,692 miliardi di euro mensili (a valore attuale). Giuliano Amato, invece, nel 1992/93 allargò il buco di 13 miliardi e 543 milioni di euro ogni mese, sempre a valore attuale. E tuttavia, proseguiva Bechis, «visto che sia Fanfani che Amato nella storia repubblicana hanno guidato anche altri governi con migliori performance, fatta la media fra i vari esecutivi il primato in classifica come migliore scaricatore assoluto di debito pubblico sulle spalle degli italiani spetta proprio a Ciampi. Fanfani conquista comunque la medaglia d’argento con 11,448 miliardi di debito in più al mese durante tutti i suoi governi. E quella di bronzo spetta a Craxi, che con 10,8 miliardi di debito mensile regalato agli italiani supera di una spanna Spadolini e Forlani».

Monsieur le créditeur
C’è poi un altro aspetto interessante (e un po’ inquietante) nella vicenda del debito pubblico. Ricordate quando, a luglio, il governo di Pechino si rivolse a un Obama nei guai con il debito Usa con lo stesso tono in genere usato da Washington con gli stati vassalli? «Speriamo che il governo degli Stati Uniti adotti politiche e misure responsabili che garantiscano gli interessi degli investitori», dicevano i cinesi. E avevano le loro ragioni, dato che quei fantomatici investitori sono soprattutto loro. I cinesi, infatti, posseggono quasi il 10% dell’intero debito Usa. Ecco, in Italia succede una cosa simile, solo con la Francia. Il New York Times, nel maggio del 2010, spiegava che Parigi detiene 511 miliardi del nostro debito, pari al 30% del debito stesso e al 20% del Pil transalpino. Hai capito i francesi. Gli stessi che hanno messo le mani sulla Libia che un tempo era il nostro “cortile di casa”. Gli stessi che danno le scalate ai nostri colossi industriali. Stai a vedere che, come al solito, a pensar male si fa peccato ma spesso ci si azzecca…

Pagare o non pagare?
In tutto questo, come avrebbe detto Lenin: che fare? Nel breve periodo e nella contingenza drammatica che stiamo vivendo, ovviamente, si mira a tamponare, a tagliare, a risparmiare, a recuperare. Qualche analista, e in modo trasversale alle categorie di destra e sinistra, comincia tuttavia a mettere in discussione l’intera impalcatura che regge quella che è denominata “la truffa del debito”. Il giovane esperto di geopolitica Daniele Scalea, ad esempio, dichiara di non «negare l’opportunità di ridurre la spesa pubblica» ma contesta «che, lungi dal puntare agli sprechi, si opti per tagli salomonici, e che le ristrettezze di bilancio siano dettate e commisurate agl’interessi da pagare ai rentier. Il rischio è che, se tra qualche decennio l’Italia avrà interamente pagato il suo debito, l’avrà però fatto a costo dell’immobilismo e della stagnazione, ritrovandosi così retrocessa nel “secondo mondo”, o addirittura più indietro». Un ragionamento analogo lo ha espresso Salvatore Cannavò, per il quale «si può certo puntare il dito contro il debito pubblico italiano, il terzo debito del mondo, ma senza dimenticare due dati. Quel debito c’era anche un mese fa, un anno fa, tre anni fa e non ha prodotto nessun attacco speculativo, nessuna crisi emergenziale. Secondo, quel debito è la misura non solo della dissennatezza della politica italiana degli ultimi trent’anni ma anche di una gigantesca redistribuzione del reddito dai salari, stipendi e pensioni ai profitti delle grandi banche e della società finanziarie internazionali che detengono gran parte del debito italiano». E allora sorge una tentazione: non pagare. O pagare solo in parte. Rinegoziare il debito. Come fece l’Ecuador nel 2007 o l’Argentina nel 2005. Pazzie? Teorie visionarie? Be’, se i lucidi, razionali e ortodossi analisti economici ci hanno portato sin qui, forse vale la pena di tentare la carta della follia…

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«Con la crisi in Siria è iniziata la terza guerra mondiale»: V. Rashkin (PCFR)

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«Con la crisi in Siria è iniziata la terza guerra mondiale» così afferma Valerij Rashkin, membro del Presidium del Comitato Centrale del Partito Comunista della Federazione Russa, deputato della Duma di Stato della Federazione Russa. Antonio Grego, corrispondente di Eurasia a Mosca, durante un sit-in di sostegno a Gheddafi e al popolo libico organizzato dal Partito Comunista della Federazione Russa di fronte agli uffici dell’ONU a Mosca ha incontrato il deputato della Duma e segretario del Comitato Centrale del PCFR e gli ha chiesto un parere circa la situazione in Siria e la sua possibile evoluzione in “intervento umanitario” a firma ONU/NATO come nel caso della Libia.

Ecco la risposta di Rashkin: «Dal mio punto di vista adesso è in corso la stessa procedura che fu adottata contro l’Iraq, la stessa che fu adottata in Yugoslavia, così come anche in Libia. La stessa identica procedura già usata contro gli altri Paesi aggrediti e distrutti è adesso in corso contro la Siria. Il complotto mondiale messo in atto dagli USA e dalla NATO non vede per adesso una potente reazione in grado di contrastarlo. Hanno elaborato e fanno approvare con il sorriso questo loro inganno, sconvolgendo Paese dopo Paese. In questo modo intendono soggiogare il mondo. Se ai tempi di Hitler era in corso una guerra dichiarata, ovvero la seconda guerra mondiale, adesso invece è in corso la stessa guerra, soltanto non dichiarata. La terza guerra mondiale è già iniziata».

 

Commento raccolto e tradotto da Antonio Grego

 

Biografia di V. Rashkin in russo: http://kprf.ru/personal/rashkin/

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L’anacronismo di Israele

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Mentre i paesi europei si accingevano a chiudere la lunga parentesi coloniale ritirando progressivamente i propri vessilli dai paesi dell’Africa e dell’Asia, un gruppo di ebrei d’Europa si apprestava a dar vita a un impero coloniale nel cuore del mondo arabo, a ridosso delle città sante dell’Islam.

Nel momento in cui i coloni originari del Vecchio Continente si vedevano costretti, volenti o nolenti che fossero, ad abbandonare il mondo arabo, una cospicua schiera di essi occupava progressivamente la Palestina, spingendo coercitivamente quasi 1 milione di indigeni a lasciare le proprie abitazioni al fine di favorire, in fortissima opposizione rispetto alle tendenze dell’epoca, la formazione di uno Stato etnicamente e confessionalmente monolitico.

Mentre il multiculturalismo stava soppiantando, in Europa ed America, la concezione etnica dello Stato, quel nucleo di europei erigeva una nazione etnico – religiosa di cui era possibile divenire cittadini a pieno titolo solo dimostrando la “purezza” originaria della propria stirpe.

Le straordinarie ragioni politiche che produssero questa inedita anomalia storica furono principalmente il declino dell’Impero Britannico, il peso esercitato dalla potente lobby ebraica sulle scelte politiche degli Stati Uniti e la strategia geopolitica dell’Unione Sovietica.

Le Gran Bretagna profuse enormi sforzi nel tentativo di assolvere degnamente ai compiti del mandato e placare la conflittualità tra arabi ed ebrei, nutrita minoranza soggetta però a un forte incremento demografico.

In quello specifico contesto maturarono le condizioni che portarono alla nascita di vari gruppi paramilitari sionisti che innescarono una campagna terroristica finalizzata ad accelerare la fine del protettorato britannico.

Haganah, Palmach, Irgun e banda Stern scatenarono un’efferata offensiva che destrutturò le forze britanniche e annichilì la popolazione palestinese.

Particolare sgomento, tra i tanti attentati commessi, fu suscitato dall’attentato all’hotel King David del 22 luglio 1946 eseguito dall’Irgun (comandato dal futuro Primo Ministro israeliano e Premio Nobel per la Pace Menachem Begin), che provocò la morte di circa un centinaio di persone e spinse la società civile in patria ad esercitare forti pressioni sul governo affinché ritirasse definitivamente la presenza britannica – che ammontava a circa un decimo delle forze armate stanziate all’estero – dalla Palestina.

Dissanguata dagli sforzi bellici profusi durante la Seconda Guerra Mondiale, mal sostentata da un’economia anemica ed incapace di spezzare l’inerzia negativa legata al proprio declinante status imperiale, la Gran Bretagna si rivolse alle Nazioni Unite perché si esprimessero in merito alla questione ebraica.

Nel novembre del 1947 venne approvata la risoluzione 181, che prevedeva la creazione di due Stati e l’applicazione di un regime internazionale su Gerusalemme.

Tale risoluzione intendeva dar vita a uno stato ebraico composto da un nucleo di circa 500.000 ebrei e 325.000 arabi, e a uno arabo formato da circa 800.000 arabi e 10.000 ebrei.

Gerusalemme avrebbe contenuto circa 100.000 ebrei e 100.000 arabi.

Gran Bretagna e i paesi arabi mal digerirono tale verdetto, mentre sia Josif Stalin che Harry Truman videro soddisfatti i propri progetti per quella regione.

Stalin, persuaso di aver colto negli ebrei una sorta di inclinazione culturale favorevole al socialismo, ritenne che appoggiando il progetto finalizzato alla creazione di un’entità sionista nel cuore del Levante avrebbe assestato un duro colpo ai residui imperialistici inglesi.

Truman intendeva invece assicurarsi il sostegno della vasta comunità ebraica degli Stati Uniti in vista delle imminenti elezioni.

Significativo a tal riguardo è il fatto che nel maggio del 1942 all’hotel Biltmore di New York si era tenuto un cruciale convegno che culminò con l’approvazione da parte di circa 600 influenti ebrei americani del “Zionist Biltmore Program” proposto da Chaim Weizmann e David Ben Gurion.

Il programma in questione traeva ispirazione dal progetto imperiale escogitato all’inizio del’900 da Theodor Herzl finalizzato all’instaurazione di uno Stato ebraico in Palestina e fu adottato dal Consiglio generale dell’organizzazione sionista di Gerusalemme.

All’epoca il movimento sionista degli Stati Uniti era guidato dal rabbino Stephen Wise, il quale seppe raggruppare l’intera comunità ebraica del paese – la più grande del mondo per numero e peso economico – sotto la propria egida al fine di esercitare pressioni politiche sul Congresso e sull’esecutivo statunitense.

Il 30% circa dei senatori, 143 deputati e più di mille eminenti personalità della politica, dell’economia e della cultura degli Stati Uniti accettarono congiuntamente di sottoscrivere un documento a supporto della formazione di un esercito regolare ebraico, mentre mozioni di sostegno al disegno sionista furono sottoposte al voto in ben 33 Stati.

Non stupisce quindi l’accondiscendenza di Truman – e più in generale degli Stati Uniti, pur tra notevoli alti e bassi, fino al giorno d’oggi (e non solo per quanto riguarda i famosi 3 miliardi di dollari che Washington versa annualmente nelle casse israeliane) – nei riguardi del sionismo e della creazione dello Stato di Israele.

Nell’arco di pochi giorni dalla nascita del nuovo Stato la tensione si acuì costantemente finché la Palestina non si trasformò nel principale campo di battaglia del Vicino Oriente.

Sugli eventi che si verificarono negli anni seguenti è stata scritta una vasta bibliografia quasi interamente incardinata sulle tesi che il “popolo senza terra” degli ebrei europei sopravvissuto al genocidio nazista avrebbe individuato nella Palestina quella “terra senza popolo” adatta ad ospitare il nuovo Stato ebraico e che le poche comunità autoctone stanziate nella regione avrebbero abbandonato le proprie case assecondando le esortazioni delle autorità arabe.

Nell’ultimo ventennio è nata però una corrente storiografica revisionista formata da un gruppo di accademici israeliani che hanno usufruito dell’ampia documentazione dell’epoca gradualmente desecretata per smentire questo infondato assunto di base.

Storici come Ilan Pappé, Zeev Sternhell, Tom Segev salirono agli onori della cronaca per aver sostenuto la tesi che nell’arco del triennio 1947 – 1950 sia avvenuta in Palestina una massiccia pulizia etnica delle popolazioni indigene realizzata dalle forze israeliane.

Un’operazione perfettamente organizzata che violò la risoluzione ONU 181 consacrando il carattere ebraico a cemento della neonata nazione di Israele.

L’episodio fondamentale che segnò la nascita della tattica del terrore ebbe luogo il 9 aprile del 1948.

Allora l’Haganah conquistò il villaggio palestinese di Deir Yassin per poi ritirarsi e lasciare che l’Irgun massacrasse tutti i 254 palestinesi che vi abitavano senza badare a sottigliezze come il sesso o l’età anagrafica delle vittime.

Il massacro non solo fu giustificato, ma non ci sarebbe stato Israele senza la vittoria di Deir Yassin”, affermò Menachem Begin.

Le modalità con cui avvenne la “vittoria” di Deir Yassin furono poi diffuse per radio affinché i palestinesi comprendessero quale destino si celava dietro l’eventuale, malaugurata scelta di resistere alla prorompente avanzata sionista.

Dopo Deir Yassin massacri e stermini svolsero un ruolo cruciale nella diffusione del terrore in seno alla popolazione autoctona e all’induzione della stessa all’esodo.

Nell’arco di pochi anni 474 villaggi arabi furono occupati dalle forze sioniste e 385 di essi furono rasi al suolo e cancellati dalle cartine geografiche.

Stando alle statistiche britanniche, al 31 dicembre del 1947 vivevano in Palestina 589.341 ebrei a fronte di una popolazione totale di 1.908.775 persone.

Un censimento realizzato nel novembre del 1948 rivelò che la popolazione araba di Israele ammontava a non più di 130.000 persone.

Gli analisti sono concordi nello stimare in un minimo di 890.000 e un massimo di 904.000 il totale delle persone vittime della pulizia etnica realizzata dalle forze sioniste.

All’inizio degli anni ’50 la popolazione contenuta all’interno dei confini armistiziali era composta da 1.509.000 ebrei, 118.500 arabi, 39.000 cristiani e 15.000 drusi.

L’enorme squilibrio demografico favorito dalle scelte del Primo Ministro David Ben Gurion e dai suoi successori consolidò politicamente, economicamente, socialmente e militarmente il paese.

In sostanza, lo Stato di Israele si affermò sul piano internazionale cacciando gli indigeni dalle loro terre e rifacendosi a motivazioni di carattere biblico – religioso per adottare nei confronti degli arabi una prassi analoga a quella impiegata in altre epoche dai puritani anglosassoni nei confronti dei Pellerossa, dai cecoslovacchi e dai polacchi nei confronti dei tedeschi dei Sudeti e della Polonia occidentale, degli jugoslavi verso gli italiani d’Istria e di Dalmazia e dei croati a danno dei serbi della Kraijna.

A differenza degli altri casi, tuttavia, era la filosofia che aveva animato pochi anni prima la pulizia etnica eseguita dai nazisti nei primi territori occupati a presentare analogie con quella perpetrata dai sionisti contro le popolazioni indigene, i cui tratti comuni furono delineati efficacemente dal Ministro degli Esteri del primo governo israeliano guidato dal padre della patria David Ben Gurion.

Si tratta di Moshe Sharett, il quale affermò che:

I rifugiati troveranno il loro posto nella diaspora. Grazie alla selezione naturale, certi resisteranno, altri no. La maggioranza diventerà un rifiuto del genere umano e si fonderà con gli strati più poveri del mondo arabo”.

I palestinesi espulsi furono costretti a rifugiarsi lungo la striscia di Gaza, in Giordania, Siria e Libano, dove vennero confinati in numerosi campi profughi appositamente creati affinché non alterassero i fragili equilibri demografici e politici della regione.

Il nazionalismo palestinese incarnato dalla figura di Yasser Arafat trasse linfa vitale proprio dalla rabbia per i torti subiti – oltre che dall’orgoglio connaturato alla religione islamica – e dalle precarie condizioni in cui versava la popolazione dislocata nei campi profughi.

La volontà di riscatto palestinese favorì poi la formazione delle classi dirigenti imbevute di religione musulmana come la Jihad islamica e soprattutto Hamas, movimento politico di grande diffusione popolare dotato di una struttura portante simile a quella di Hezbollah e capace di adempiere ai compiti militari, economici e assistenziali.

Fu nella miseria e nel disagio che maturarono le condizioni per la reazione palestinese, che si dispiegò mediante numerosi sommovimenti popolari che innescarono una colossale concatenazione di eventi.

Settembre Nero, invasione israeliana del Libano, attentato a Bashir Gemayel, efferata ritorsione di Sabra e Chatila, Prima Intifada, seconda guerra del Libano, provocazione di Ariel Sharon lungo la Spianata delle Moschee, Seconda Intifada, omicidio di Rafik Hariri, Rivoluzione dei Cedri, ascesa di Hezbollah, terza guerra del Libano, Piombo Fuso, allontanamento della Turchia; tutti eventi connessi direttamente o indirettamente alle tensioni israelo – palestinesi.

L’altra ripercussione sortita dalla nascita e (soprattutto) dalle modalità in cui si affermò Israele fu l’endemico sentimento di frustrazione e subalternità che opprime ancora oggi le popolazioni arabe dovuto all’atteggiamento tenuto dagli israeliani nei loro riguardi.

Dalla pulizia etnica della Palestina, alla relegazione degli arabi a cittadini di secondo livello si è giunti all’innalzamento di una “barriera di separazione”, un muro suscettibile di produrre l’annessione israeliana di Gerusalemme Est oltre a parte dei territori occupati della Cisgiordania e di garantire una segregazione forzata sospingendo verso est le popolazioni arabe stanziate nell’area.

La costruzione della barriera in questione iniziata nel 2003 avvenne a più di un decennio dal significativo abbattimento del Muro di Berlino e dalla liberazione di Nelson Mandela che preluse alla fine dell’Apartheid, il regime di segregazione razziale che gli afrikaner sudafricani avevano applicato per mantenere una separazione forzata dai cittadini autoctoni di pelle nera.

Si tratta di un anacronismo che alla prova dei fatti tende a minare le ambizioni palestinesi relative al riconoscimento di uno Stato nazionale.

Abu Mazen ha annunciato pubblicamente che a settembre si rivolgerà alle Nazioni Unite per chiedere il riconoscimento di uno Stato palestinese imperniato sulla centralità indiscutibile di Gerusalemme, città che non a caso Israele sta accingendosi ad accorpare per mezzo del muro.

Molti paesi – specialmente dell’America Indiolatina – hanno già riconosciuto lo Stato palestinese ed altri – come la Norvegia – attenderanno il voto di settembre per fare altrettanto.

Israele, per bocca del Primo Ministro Benjamin Netanyahu e del Ministro degli Esteri Avigdor Lieberman, ha pubblicamente invitato i paesi europei a guardarsi dall’accogliere le richieste avanzate unilateralmente da Abu Mazen, laddove riconoscere uno Stato per i palestinesi è una necessità che solo un numero assai contenuto di paesi e uomini politici ha osato mettere in discussione.

I governanti di Tel Aviv, tuttavia, perseverano nel far ricorso ai medesimi, logori e stereotipati clichés impiegati negli anni passati per edulcorare l’immagine di Israele.

L’opinione pubblica internazionale, infatti, non accetta più che vengano rievocati gli orrori del nazismo per giustificare i coprifuoco, i check – point, le esecuzioni selettive, le umiliazioni pubbliche di cui le autorità israeliane si sono ripetutamente rese responsabili.

Esiste, beninteso, una sparuta minoranza che si ostina a considerare gli israeliani delle vittime, laddove sono però incontestabilmente i palestinesi – vessati, umiliati e privi di uno Stato – ad aver sostituito gli ebrei nell’immaginario collettivo.

Le contraddizioni – scrive lo storico Tony Judt – insite nel modo in cui Israele si presenta – “siamo molto forti/siamo molto vulnerabili”; “decidiamo del nostro destino/siamo noi le vittime”; “siamo uno Stato normale/pretendiamo un trattamento speciale” – non sono nuove: fanno parte dell’identità distintiva del paese quasi dall’inizio. E l’insistente enfasi sull’isolamento e sulla unicità che lo caratterizzano, oltre alla pretesa di essere allo stesso tempo eroe e vittima, un tempo formavano parte del vecchio fascino alla Davide contro Golia”.

L’assiduità ossessiva con cui viene impiegato l’antisemitismo per trasferire il terreno della discussione dal politico all’irrazionale e per trasformare gli imputati in giudici è indice del fatto che rimangono ben pochi argomenti per giustificare le mosse di Tel Aviv.

Si tratta dell’ultimo, logoro asso nella manica che i sostenitori acritici di Israele utilizzano per fregiare di nobili crismi legittimatori i colpi di coda di una nazione che non comprende di aver perso da tempo ogni diritto alla solidarietà internazionale, che si ostina ad ignorare il fatto che gli Stati Uniti non si mostreranno sempre accondiscendenti (Zbigniew Brzezinski non lo è stato mentre John Mearsheimer e Stephen Walt hanno documentato ampiamente i danni provocati agli interessi statunitensi dall’appoggio a Israele, subendo pesanti attacchi dalla lobby ebraica e delle sue influenti ramificazioni) che muri e fortezze non preserveranno il paese più di quanto abbiano fatto con la Repubblica Democratica Tedesca e il Sud Africa, con Troia e Sebastopoli, con Atene e Yorktown.

Attualmente l’immane tragedia costituita dalla nascita di Israele e dalle modalità che segnarono la sua graduale affermazione internazionale sono tappe storiche di quella viene eufemisticamente definita come “questione palestinese”.

A differenza di ciò che accade oggi in Israele e ovunque si trovino gli entusiasti difensori del sionismo, l’ipocrisia che sta alla base di tale espressione non avrebbe presumibilmente trovato l’approvazione di David Ben Gurion stesso, principale artefice e ideatore della pulizia etnica della Palestina che descrisse la natura intrinseca del colossale problema nei seguenti termini:

Se fossi un arabo non firmerei mai la pace con Israele. E’ ovvio: abbiamo preso il loro paese. Ci era stato promesso da Dio, certo, ma perché ciò dovrebbe interessarli? Il nostro Dio non è il loro. E’ vero che siamo originari di Israele, ma è un fatto che risale a duemila anni fa. In che modo può riguardarli? Ci sono stati l’antisemitismo, il nazismo, Hitler, Auschwitz. Ma è stata forse colpa loro? Essi vedono una sola cosa: siamo venuti e abbiamo preso la loro terra”.

 

* Giacomo Gabellini è collaboratore di Conflitti & Strategie

 

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Il collasso della globalizzazione neoliberale

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I

 

Il primo maggio del 1974 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, nella sua sesta Sessione Speciale, adottò la ‘Dichiarazione per la Costituzione di un nuovo Ordine Economico Internazionale’ che poneva una particolare enfasi sulla paritaria sovranità degli Stati. Sottolineando i principi di base di un ordine economico equo, la Dichiarazione richiedeva ‘una piena ed effettiva partecipazione su una base di eguaglianza tra tutte le nazioni, nella risoluzione dei problemi economici mondiali, nell’interesse di tutte le nazioni’ (Paragrafo 4[c]). In quel tempo gli stati membri delle Nazioni Unite sottolinearono anche l’importanza di una ‘piena e permanente sovranità di ogni stato sulle sue risorse naturali e su tutte le attività economiche’ (Paragrafo 4[e])

 

L’assemblea generale in seguito, durante la stessa sessione, adottò un ‘programma di azione’ riguardante l’economia internazionale, con un capitolo relativo al sistema monetario internazionale. E’ interessante – considerando la situazione in cui ci troviamo in questi giorni- richiamare alcuni di questi punti scritti dai rappresentanti della comunità internazionale. Prima di tutto, gli stati membri dell’ONU richiesero misure per ‘eliminare l’instabilità del sistema monetario internazionale, in particolare l’incertezza dei tassi di cambio.’ Il secondo punto, che mi piacerebbe ricordare, è relativo all’enfasi degli stati membri relativa al ‘mantenimento del vero valore delle riserve monetarie delle nazioni in via di sviluppo.’ A questo proposito, chiesero – più di tre decenni fa! – ‘la creazione di liquidità internazionale… attraverso un meccanismo internazionale multilaterale.’

 

In una riunione di esperti sull’idea di un nuovo orfine economico internazionale, che l’Organizzazione Internazionale per il Progresso tenne a Vienna nell’aprile del 1979, i nostri esperti avevano anche enfatizzato il principio ‘della reciproca responsabilità economica’ a livello internazionale e la necessità di ‘spostare l’attenzione,’ per quanto riguardava il sistema dei valori, ‘dall’avere all’essere e dal consumo alla qualità della vita.’ In generale, noi avevamo richiesto, durante questo incontro, che l’economia si fondasse su principi etici. In una conferenza sulle sfide della globalizzazione, tentuasi all’Università di Monaco nel 1999, la nostra organizzazione aveva ulteriormente messo in guardia sulla minaccia dell’instabilità globale risultante da mercati completamente privi di regole, che operassero sulla base di una fallace interpretazione della nozione di libertà individuale.

 

 

II

 

In maniera deplorevole, in più di tre decenni passati dall’iniziativa dell’ONU per un nuovo ordine economico internazionale, l’economia globale si è sviluppata nella direzione opposta. La visione dell’Assemblea Generale di un nuovo ordine economico internazionale fu effettivamente rigettata dai paesi industrializzati al Summit dei 22 leader mondiali (che includeva anche 14 leader dai paesi in via di sviluppo) a Cancùn, in Messico, nell’ottobre del 1981. Mi piacerebbe qui ricordare il ruolo della delegazione statunitense guidata dal Presidente Ronald Regan, così come il suo preoccupante rifiuto alle richieste delle nazioni in via di sviluppo. L’intera nozione di u nuovo ordine economico internazionale fu effettivamente sepolto in quell’occasione.

Da quel momento il progetto neoliberale di globalizzazione andò avanti, con uno zelo ideologico sempre crescente, nonostante gli avvertimenti e le proteste di molti leader dei paesi in via di sviluppo. Per quanto riguarda l’ideologia della globalizzazione, vorrei dare qui la seguente caratterizzazione: ciò che abbiamo visto rivelarsi in questi ultimi decenni -cioè dall’inizio degli anni ’70- è una folle fede in una specie di perpetuum mobile finanziario, che significa supporre che la ricchezza possa essere creata semplicemente attraverso transazioni finanziarie o attraverso i cosiddetti ‘strumenti finanziari.’ Questa fede era evidente in alcune pratiche ed atteggiamenti che includono, per esempio, alcune politiche sulla base delle quali gli organismi regolatori sono stati deliberatamente indeboliti o completamente annullati, nel nome della liberalizzazione economica. Sarebbe qui da ricordare il ruolo del Presidente della statunitense Federal Riserve Alan Greenspan, durante questo periodo cruciale. Non si sottolinea mai abbastanza che l’autorità regolatrice dello stato è stata completamente erosa in favore di quello che veniva, ed è tuttora chiamato, ‘il libero fluire’, non solo di beni, ma anche di denaro, oltre i confini; e tutto ciò è stato ideologizzato attraverso lo slogan della globalizzazione. Il Forum economico mondiale di Davos è stato indubbiamente utile come strumento ideologico e come luogo di pubbliche relazioni per promuovere questa ideologia.

Ad ogni modo, al posto di un nuovo ordine mondiale, come quello programmato da George Bush padre nel 1991 davanti al Congresso degli Stati Uniti, uno stato di disordine globale è stato la conseguenza dell’abdicazione degli stati alla propria sovranità, a vantaggio dell’economia e delle politiche finanziarie. Lo stato ha dovuto gradualmente lasciare spazio ai potenti, ma completamente inaffidabili, poteri forti transnazionali. Con lo slogan della globalizzazione, il ‘ciclo dell’ingordigia’ nel quale l’economia è stata coinvolta, ha causato una crisi sistemica non solo degli scambi economici internazionali, ma delle relazioni internazionali in generale.

Nonostante l’importanza del problema, i propugnatori dell’ideologia neoliberale insistono ancora nel voler risolvere la crisi cercando di affrontarne solamente i sintomi, e ingaggiano un’ostinata battaglia con la realtà, quando si tratta di identificare le reali cause del collasso della globalizzazione: cioè, prima di tutto, l’esclusione di tutti i confini non solo geografici, ma anche morali che devono governare l’economia.

Perciò, sarebbe il caso di tornare alle basi e prestare attenzione alle fondamentali considerazioni filosofiche relative alla moneta. Varrebbe la pena, in questo contesto, di riconsiderare i principi della finanza che sono stati delineati quasi due millenni e mezzo fa, nel periodo della filosofia classica greca. Aristotele ci avvertì che la moneta non ha un valore naturale, che non è un bene come un altro. Il suo valore è determinato dagli esseri umani, cioè dai governi, attraverso una convenzione (conventio) o legge – νόμῳ (nómo) nella terminologia greca –per esempio attraverso una determinazione, un ruolo. Per centrare il punto, Aristotele si riferiva all’etimologia della parola greca per moneta, cioè nómisma (νόμισμα), che deriva da νόμος, la parola greca per legge o regolamento.

Secondo la filosofia aristotelica, la moneta è lo strumento che consente lo scambio dei beni perché permette di misurare il valore degli stessi. Assicura la commensurabilità dei beni che vogliamo scambiare. Se il carattere ‘numismatico’ della moneta – se possiamo alludere all’etimologia del termine greco nomisma – viene ignorato, le valute vengono commerciate come se fossero beni. La speculazione sulle valute internazionali come strumento per generare ricchezza con metodi artificiali, è stata infatti una delle cause della crisi finanziaria internazionale, come ormai ben sappiamo.

Ancora di più, il valore della moneta, ed in particolare il relativo ‘peso’ di ogni valuta nel mercato di scambio internazionale, deve essere radicato nella ricchezza rappresentata dall’economia reale. Non esiste una cosa come il valore astratto della moneta. Se questa verità di base è trascurata o ignorata, la speculazione finanziaria prospererà e i cosiddetti strumenti finanziari continueranno ad essere creati all’infinito –come se la ricchezza reale potesse essere generata in maniera fittizia e illusoria. In sostanza, queste sono tutte meramente transazioni artificiali, se non inserite in attività dell’economia reale che creano valore.

Questo è il motivo per cui la generazione di ricchezza attraverso l’utilizzo dei soli ‘strumenti finanziari’, giusto per nominarli: lo scambio di valute, i titoli, i futures e così via, ha infatti la natura del gioco della piramide. La piramide inevitabilmente collasserà nello stesso momento in cui l’economia reale reclamerà i suoi diritti e i popoli, da un momento all’altro, perderanno la certezza del mito della creazione della ricchezza attraverso la speculazione, uno sviluppo che porrà termine, drasticamente, al ciclo dal quale qualsiasi nuova somma di liquidità viene fornita.

Non solo a livello filosofico, ma anche su un più largo contesto di responsabilità sociale, è importante evidenziare la natura intrinsecamente non etica della speculazione finanziaria, a livello di valute, obbligazioni, futures etc. In questo modo, la ricchezza – quella artificiale – è creata a spese degli altri che vengono effettivamente espropriati durante l’inevitabile collasso del sistema, come siamo testimoni proprio adesso. Richiamandosi all’enfasi che il filosofo greco ha posto sull’innaturale modo di creare ricchezza attraverso mere transazioni finanziarie, bisognerebbe essere al corrente del famoso detto presente nel primo libro della Πολιτικά (Politiká), nella parte 10, dove viene condannata la procedura per cui qualcuno ‘si arricchisce dalla moneta stessa e non utilizza la moneta per come dovrebbe essere usata naturalmente’.

È una mente libera a ricordarci, da 2500 anni., l’importanza dell’economia reale. Il verdetto aristotelico non è solo diretto a trarre interessi dalla moneta, ma si applica alla speculazione finanziaria in generale, evidenziando la natura improduttiva di questo genere di attività semi-economica. Questo approccio è maggiormente illustrato da altre frasi all’interno del trattato, relative cioè alla ‘nascita della moneta dalla moneta’ e della ‘riproduzione della moneta’ come la più innaturale forma di acquisizione di ricchezza.

 

 

III

 

E’ arrivato il tempo di rivedere le intuizioni dell’età dell’oro della filosofia greca, riguardo la natura della moneta come strumento per determinare il valore dei beni, per rendere questi beni comparabili e perciò permettere gli scambi economici; e alla fine, per considerare i principi etici che governano questa attività. Si dice spesso che ‘la globalizzazione non conosce confini’.

Dobbiamo anche prestare attenzione al fatto che il metodo di scambi economici e finanziari internazionali, che viene idealizzato in quest’affermazione comune, non solo non ha confini geografici, ma spesso viene anche concepito come privo di limiti morali. Come risultato di tale percezione, stiamo affrontando questa crisi di dimensioni epocali. Una delle ragioni di base di questa situazione difficile – che ancora molti non vogliono riconoscere- è che le regole morali nel comportamento economico, sono state sistematicamente ignorate e spesso rigettate.

Questo riprovevole stato di cose rende imperativo riflettere sui principi dell’attività economica in quanto tale. In particolare, dovremo riconsiderare quelle idee che collegano la finanza all’economia reale, cioè alla fabbricazione dei beni, e dovremmo prendere la palla al balzo per propagandare la creazione di un genuino nuovo ordine economico internazionale, che sia basato non sul mito della globalizzazione e sulla filosofia dell’avidità, ma sui principi della creazione di ricchezza orientati al bonum commune, il bene comune. Questo implica, inter alia:

— Il riconoscimento dell’autorità regolatrice dello stato, come parte integrante dell’esercizio della sovranità dello stato;

— La fondazione di meccanismi regolatori a livello internazionale, attraverso accordi intergovernativi, ad esempio accordi conclusi sulla base dell’eguaglianza di sovranità;

— Il divieto di pratiche economiche palesemente non etiche, che sono basate sulla speculazione invece che su attività genuinamente economiche (che sarebbero basate su aspettative razionali). Il brand ‘globalizzato’ del ‘capitalismo casinò’ include metodi come la cosiddetta ‘vendita allo scoperto’ di azioni e ogni genere di transazione legata al mercato dei derivati e alle speculazioni sulle valute; in generale, è evidente come tutte le pratiche che sono basate sulla creazione di ricchezza individuale, causino la perdita di valore delle valute, delle azioni etc. Cioè, nell’ottenere sistematicamente e deliberatamente guadagni speculando sulle perdite degli altri, nei fatti attraverso una vera e propria ‘espropriazione’ degli altri partecipanti, in un gioco non equo. Da non dimenticare in questa lista non esaustiva di pratiche dubbie, tutte le transazioni che si basano sul fondamento logico dell’azzardo, cioè tutte le forme di scommesse finanziarie che vengono ancora considerate, da molti finanzieri, una forma legittima di attività economica.

Riassumendo questo breve decalogo delle conseguenze dei mercati non regolati e di una falsa e artificiale percezione della natura della finanza, si potrebbe dire che in questo momento, siamo testimoni della bancarotta della globalizzazione come epitome della ideologia neoliberale. Apparentemente inattesa – questo è ciò che dicono – dagli ideologi neoliberali, la globalizzazione ha ormai mostrato la sua faccia reale; si è dimostrata un’illusione di ricchezza, guidata dall’avidità individuale. In quanto tale, la dottrina della globalizzazione si è dimostrata irrazionale. La fede nel miracolo della creazione di ricchezza attraverso gli strumenti di un economia basata su scambi non regolati e virtualmente senza confini, ha infatti tutte le caratteristiche dell’isteria di massa.

E’ innegabile il fatto che noi viviamo in un mondo sempre più interconnesso. Il corso della storia e lo sviluppo della tecnologia in particolare, non possono essere invertiti. Ad ogni modo, nelle attuali circostanze, è di massima importanza che i leader e i cittadini che si impegnano per il bene comune, facciano qualsiasi cosa sia nelle loro possibilità per fermare i cicli continui di avidità che hanno rovinato le vite di diverse generazioni, di milioni di persone, nel corso della storia del ‘libero mercato.’

Il casinò globale in cui il mercato finanziario deregolamentato è degenerato, deve essere chiuso una volta per tutte. Non c’è dubbio che questo obiettivo possa essere raggiunto solo dall’azione comune degli stati come attori principali della politica internazionale e, per questo, garanti dell’ordine globale. Solo passi audaci, intrapresi di comune accordo, verso una regolazione responsabile della finanza, renderanno possibile la fondazione di ciò che i membri delle Nazioni Unite avevano immaginato, cioè un nuovo ordine mondiale equo come sistema di relazioni internazionali all’interno del quale, tutte le nazioni possano guidare le proprie politiche economiche ed essere coinvolte negli scambi economici, sulla base di uguali sovranità. Questa era l’idea dietro la risoluzione della Sessione Speciale dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 1974, e – in vista della crisi globale senza precedenti – oggi essa merita maggiore considerazione.

 

(Traduzione a cura di Massimo Janigro)

 

 

* Hans Koechler è presidente dell’IPO – International Progress Organization (Vienna – Austria). Il presente articolo costituisce la relazione presentata al World Public Forum “Dialogue of Civilizations” and Klub Rusko / Dialogues in Prague, svoltosi aPraga, Repubblica Ceca il 14 maggio 2009.

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Le elezioni in Finlandia e l’ascesa del nazionalismo in tutta Europa

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Fonte: Strategic Culture

Le elezioni parlamentari tenutesi in Finlandia il 17 aprile sono state segnate da un successo senza precedenti dal partito dei True Finns (Veri Finlandesi), che viene considerato come un partito nazionalista. Secondo i risultati iniziali, i True Finns hanno ricevuto il 19% dei voti e hanno aumentato la loro rappresentanza in parlamento da soli 5 seggi a 39, rispetto al 2007. Considerando che la Coalizione Nazionale conservatrice della destra, che ha vinto le elezioni, ha ricevuto poco più del 20% ed i socialdemocratici dell’attuale presidentessa Tarja Halonen hanno preceduto i Veri Finlandesi solo dello 0,1%, possiamo dire che il partito del carismatico Timo Soini è uno dei tre principali partiti politici in Finlandia.

La discussione sulla formazione della coalizione di governo, in cui i Veri Finlandesi hanno intenzione di svolgere un ruolo significativo, può durare per diverse settimane. Ma è già chiaro che questo partito, che protegge i valori nazionali e si oppone al flusso incontrollato di rifugiati e immigrati clandestini, alla moneta unica europea e alla burocrazia dell’UE, sta godendo di un crescente sostegno in Finlandia.

Le posizioni degli altri principali partiti (compreso il Partito di Centro dell’ex Primo Ministro Mari Kiviniemi), si sono indebolite – hanno perso il 3-16% dei voti.  Jan Sundberg, professore all’Università di Helsinki, afferma: “Questo è un grande big bang nella politica finlandese. Questo è un grande, grande cambiamento. Questo cambierà il contenuto della politica finlandese.”

Il giorno successivo alle elezioni parlamentari, uno dei principali quotidiani finlandesi, “Aamulehti”, ha riportato, come titolo, la parola “Rivoluzione”. Il quotidiano centrale di Helsinki, “Helsingin Sanomat”,  ha riportato la citazione di Timo Soini: “Abbiamo vinto le elezioni ed i sondaggi” – un segno che i risultati reali dei True Finns hanno superato le previsioni più inaspettate.

Tenendo conto del duro braccio di ferro tra i Veri Finlandesi, la sinistra tradizionale e i partiti del centro, tali conclusioni rivoluzionarie non devono esser viste come un’esagerazione. In questo momento, possiamo ravvisare simili “rivoluzioni” in tutta l’Europa Occidentale. Austria, Germania, Francia, Svezia, Belgio, Paesi Bassi, Norvegia – è solo un elenco incompleto dei paesi dell’Europa Occidentale, dove i partiti nazionalisti radicali e i movimenti stanno gradualmente rafforzando le loro posizioni. Nel settembre 2010, i Democratici di Svezia (la cui posizione paragonabile a quella dei Veri Finlandesi) hanno ottenuto un successo senza precedenti alle elezioni parlamentari nel loro Paese.

E’ difficile non pensare che la geografia del successo dei partiti di destra nelle elezioni in Europa, coincida con la geografia della diffusione degli immigrati clandestini dai Balcani, Nord Africa e del Medio Oriente. Sebbene l’Italia non sia in questa lista, l’incapacità del governo di Silvio Berlusconi di risolvere la situazione dell’arrivo di più di 20.000 rifugiati dalla Tunisia nell’isola di Lampedusa, ci permette di prevedere la crescita di sentimenti nazionalistici anche in Italia. La Lega Nord separatista non abbandona i suoi piani di formare, sulla base dei distretti settentrionali d’Italia più industrialmente sviluppati, la Repubblica di Padania – lontana da Lampedusa, da Napoli da altre zone povere e disagiate.

Nel febbraio del 2010, in Belgio, è scoppiata una grave crisi – proprio di fronte all’edificio della sede UE. Degli albanesi che sono arrivati ​​a Bruxelles dai Balcani, hanno bloccato le istituzioni statali, chiedendo al governo di dar loro un riparo, un alloggio, un lavoro e un’indennità in denaro. Poi, il Primo Ministro belga Yves Leterme ha esortato le autorità dell’UE a limitare gli effetti negativi della liberalizzazione del regime dei visti europei. Ma non è accaduto ed i rifugiati hanno continuato ad usare con successo il cosiddetto modello  “merry-go-round“, con il quale hanno ricevuto assegni in un Paese, muovendosi verso un altro Paese e ripetendo il tutto.

La situazione dei rifugiati e degli immigrati clandestini è diventata davvero  rivoluzionaria una volta che i contribuenti hanno mostrato la loro ovvia riluttanza a sostenere l’affondamento economico dell’UE. Jane Fowley, analista della International Rabobank, sostiene che “non si paga per gli errori di bilancio degli altri”.

La logica dei finlandesi, svedesi, olandesi, tedeschi è chiara: perché dovrebbero soffrire della crisi in Grecia, Irlanda, Portogallo e sentire le conseguenze di una guerra in una remota Libia, dove la NATO sta combattendo sul campo con Al-Qaeda? Le parole profetiche di Yves Leterme si stanno avverando: ciò che era iniziato come crisi bancaria, economica e sociale, ora è diventata una crisi politica.

I mercati finanziari hanno reagito rapidamente con il calo dell’Euro dopo il successo dei Veri Finaldesi.  A differenza di altri Paesi UE, in Finlandia è il Parlamento, non il Governo, responsabile dell’elaborazione della politica nazionale verso l’UE. Ecco perché gli attuali progetti della burocrazia di Bruxelles, come la preparazione del pacchetto di emergenza per fornire un aiuto finanziario al Portogallo, sono stati sospesi.

“Naturalmente ci saranno dei cambiamenti”: questo è come ha commentato Timo Soini la possibile influenza del successo del suo partito sui colloqui riguardo il Pacchetto Portogallo. In Gran Bretagna, un uomo su posizioni simili a quella dei Veri Finlandesi, Nigel Paul Farage, leader dell’UK Independence Party (UKIP), ha affermato che: “L’euro-scetticismo può vincere e fare grandi vittorie”. Ha confermato che i Veri Finlandesi e i loro alleati proteggeranno fermamente la loro posizione dicendo “no” ai nuovi pacchetti di stabilizzazione dell’UE e “sì” alle democrazie nazionali.

Considerato che non ci sono cambiamenti globali in politica finanziaria, economica ed estera dell’Unione Europea che possono esser visti nell’immediato futuro, la rivoluzionaria “svolta a destra” in Europa continuerà definitivamente.

 

Traduzione a cura di Donatella Ciavarroni

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La distruzione della Libia, una crescente minaccia per la Russia

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http://gazeta-pravda.ru/content/view/8768/34/

Pravda, 1 Settembre 2011

Secondo i media, le forze che cercano di rovesciare il governo della Libia hanno occupato la capitale, Tripoli, e diverse altre città. Ovunque siano commettono omicidi di massa e saccheggi. E’ stato anche saccheggiato l’eccezionale museo nazionale di Tripoli.

Tutto questo parla da se del tipo di persone coinvolte nella lotta contro il governo legittimo. E’ ben noto che l'”opposizione” che si sarebbe ribellata contro la “tirannia” di Gheddafi, sta ricevendo armi dall’estero. Ma ancora, non avrebbero potuto affrontare le truppe del governo libico, senza il sostegno massiccio dell’aviazione della NATO, che ha distrutto i centri di comando, depositi di munizioni e armi e le linee di comunicazione. I “ribelli” appaiono solo dopo che la tempesta di fuoco della NATO ha distrutto ogni cosa sul suo cammino.

Questo è certamente un intervento militare, accuratamente nascosto dietro lo schermo trasparente dei “ribelli”. In Libia, si sta perfezionando una nuova tattica per rovesciare i governi indesiderabili all’Occidente, con ampio uso di eserciti privati e di mercenari come ausiliari alla NATO. Tutto questa orgia si svolge sotto la copertura della risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e con l’attuazione del “no-fly zone”, il cui presunto obiettivo era proteggere la popolazione civile della Libia dai bombardamenti. In pratica, gli aerei della NATO ha lanciato attacchi con missili e bombe, non solo contro le posizioni dell’esercito libico, anche contro le strutture civili nelle città. Di conseguenza, essi hanno ucciso migliaia di civili, tra cui anziani e bambini. Fatti come questi sono, secondo il diritto internazionale, un crimine contro l’umanità. Ma la lingua dei Gesuiti della NATO, le vite distrutte vengono chiamate “danni collaterali”.

La Libia è l’ultima vittima dell’intervento globale della NATO, che è diventato possibile dopo la distruzione dell’Unione Sovietica. Proprio in questo momento, con la scomparsa di una forza capace di affrontare l’avventurismo dell’oligarchia mondiale, apparve al nostro attuale “partner” la sensazione dell’impunità. Imposta dall’esterno, ebbe inizio la guerra civile in Jugoslavia, che si è conclusa dopo 78 giorni di bombardamenti di città e cittadine indifese.

Poi gli Stati Uniti ed i suoi alleati hanno invaso l’Iraq, impigliandosi nel filo spinato di quel paese. Poi seguì l’Afghanistan, convertito dalle truppe di occupazione in un ritrovo per la produzione di droga. Nel frattempo, le agenzie d’intelligence dell’Alleanza avviarono le rivolte “arancione” in Georgia, Ucraina e Moldavia. Passando anni a cercare di rovesciare il Presidente bielorusso Lukashenko.

La Siria è prossimo della lista, sottoposta ad attacchi di insorti armati dall’esterno. Assistiamo alla guerra di informazione contro il governo siriano. Prova eloquente dei preparativi per l’intervento della NATO.

Oggi il mondo affronta un nuovo colonialismo, nella sua variante più disgustosa e cinica, proprio come lo era due secoli fa. L’ex potenze coloniali, USA, Regno Unito e Francia ancora rivendicano il diritto di decidere del destino di qualsiasi stato sovrano. Durante questa operazione “umanitaria” hanno calpestato la Carta delle Nazioni Unite e le norme del diritto internazionale. Come risultato, la Libia è stata sommersa nel caos, e potrebbe eventualmente svilupparsi successivamente nello scenario somalo: la divisione in innumerevoli tribù e clan che si combattono tra loro. La Russia è anch’essa responsabile della tragedia in Libia, dal momento che il governo ha dato il via libera alla risoluzione anti-Libia delle Nazioni Unite, non usando il suo potere di veto e, quindi, unendosi alle sanzioni contro la Libia. Questo ha significato non solo che abbiamo perso 20 miliardi di dollari di potenziali benefici dal commercio e della cooperazione economica con questo ricco paese africano, ma abbiamo anche perso uno degli stati amici che avevamo nella regione strategicamente importante del Mediterraneo.

Se non finisce questa orgia del neo-colonialismo, la Russia con i suoi sconfinati territori e le sue enormi riserve di materie prime, diventerà uno degli obiettivi futuri dell’esportazione atlantista della “democrazia”. Indebolito da due decenni di cosciente deindustrializzazione e decadenza, con un esercito demoralizzato e distrutto, il nostro Paese inevitabilmente diventerà un bersaglio per l’intervento.

Il PCRF condanna la pirateria mondiale dell’oligarchia coloniale ed esorta il governo della Federazione Russa a prendere coscienza delle conseguenze più pericolose che comporta la collusione con gli aggressori.

Solo un governo forte e patriottico, in grado di rilanciare l’industria, l’agricoltura, l’istruzione, la scienza e la cultura, il nostro passato di potenza e il ritorno delle nostre Forze Armate, può salvare la Russia dal ripetersi dello scenario libico delle rivoluzioni “colorate”.

Link: [1] http://josafatscomin.blogspot.com/2011/09/destruccion-de-libia-crecela-amenaza.html [2] http://gazeta-pravda.ru/content/view/8768/34/ http://tortillaconsal.com/tortilla/print/9378

Di Gennady Zyuganov leggi il trattato di geopolitica: Stato e Potenza (Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1999)

Traduzione di Alessandro Lattanzio
http://www.aurora03.da.ru http://www.bollettinoaurora.da.ru http://aurorasito.wordpress.com

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L’anacronismo di Israele

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Mentre i paesi europei si accingevano a chiudere la lunga parentesi coloniale ritirando progressivamente i propri vessilli dai paesi dell’Africa e dell’Asia, un gruppo di ebrei d’Europa si apprestava a dar vita a un impero coloniale nel cuore del mondo arabo, a ridosso delle città sante dell’Islam.

Nel momento in cui i coloni originari del Vecchio Continente si vedevano costretti, volenti o nolenti che fossero, ad abbandonare il mondo arabo, una cospicua schiera di essi occupava progressivamente la Palestina, spingendo coercitivamente quasi 1 milione di indigeni a lasciare le proprie abitazioni al fine di favorire, in fortissima opposizione rispetto alle tendenze dell’epoca, la formazione di uno Stato etnicamente e confessionalmente monolitico.

Mentre il multiculturalismo stava soppiantando, in Europa ed America, la concezione etnica dello Stato, quel nucleo di europei erigeva una nazione etnico – religiosa di cui era possibile divenire cittadini a pieno titolo solo dimostrando la “purezza” originaria della propria stirpe.

Le straordinarie ragioni politiche che produssero questa inedita anomalia storica furono principalmente il declino dell’Impero Britannico, il peso esercitato dalla potente lobby ebraica sulle scelte politiche degli Stati Uniti e la strategia geopolitica dell’Unione Sovietica.

Le Gran Bretagna profuse enormi sforzi nel tentativo di assolvere degnamente ai compiti del mandato e placare la conflittualità tra arabi ed ebrei, nutrita minoranza soggetta però a un forte incremento demografico.

In quello specifico contesto maturarono le condizioni che portarono alla nascita di vari gruppi paramilitari sionisti che innescarono una campagna terroristica finalizzata ad accelerare la fine del protettorato britannico.

Haganah, Palmach, Irgun e banda Stern scatenarono un’efferata offensiva che destrutturò le forze britanniche e annichilì la popolazione palestinese.

Particolare sgomento, tra i tanti attentati commessi, fu suscitato dall’attentato all’hotel King David del 22 luglio 1946 eseguito dall’Irgun (comandato dal futuro Primo Ministro israeliano e Premio Nobel per la Pace Menachem Begin), che provocò la morte di circa un centinaio di persone e spinse la società civile in patria ad esercitare forti pressioni sul governo affinché ritirasse definitivamente la presenza britannica – che ammontava a circa un decimo delle forze armate stanziate all’estero – dalla Palestina.

Dissanguata dagli sforzi bellici profusi durante la Seconda Guerra Mondiale, mal sostentata da un’economia anemica ed incapace di spezzare l’inerzia negativa legata al proprio declinante status imperiale, la Gran Bretagna si rivolse alle Nazioni Unite perché si esprimessero in merito alla questione ebraica.

Nel novembre del 1947 venne approvata la risoluzione 181, che prevedeva la creazione di due Stati e l’applicazione di un regime internazionale su Gerusalemme.

Tale risoluzione intendeva dar vita a uno stato ebraico composto da un nucleo di circa 500.000 ebrei e 325.000 arabi, e a uno arabo formato da circa 800.000 arabi e 10.000 ebrei.

Gerusalemme avrebbe contenuto circa 100.000 ebrei e 100.000 arabi.

Gran Bretagna e i paesi arabi mal digerirono tale verdetto, mentre sia Josif Stalin che Harry Truman videro soddisfatti i propri progetti per quella regione.

Stalin, persuaso di aver colto negli ebrei una sorta di inclinazione culturale favorevole al socialismo, ritenne che appoggiando il progetto finalizzato alla creazione di un’entità sionista nel cuore del Levante avrebbe assestato un duro colpo ai residui imperialistici inglesi.

Truman intendeva invece assicurarsi il sostegno della vasta comunità ebraica degli Stati Uniti in vista delle imminenti elezioni.

Significativo a tal riguardo è il fatto che nel maggio del 1942 all’hotel Biltmore di New York si era tenuto un cruciale convegno che culminò con l’approvazione da parte di circa 600 influenti ebrei americani del “Zionist Biltmore Program”  proposto da Chaim Weizmann e David Ben Gurion.

Il programma in questione traeva ispirazione dal progetto imperiale escogitato all’inizio del’900 da Theodor Herzl finalizzato all’instaurazione di uno Stato ebraico in Palestina e fu adottato dal Consiglio generale dell’organizzazione sionista di Gerusalemme.

All’epoca il movimento sionista degli Stati Uniti era guidato dal rabbino Stephen Wise, il quale seppe raggruppare l’intera comunità ebraica del paese – la più grande del mondo per numero e peso economico – sotto la propria egida al fine di esercitare pressioni politiche sul Congresso e sull’esecutivo statunitense.

Il 30% circa dei senatori, 143 deputati e più di mille eminenti personalità della politica, dell’economia e della cultura degli Stati Uniti accettarono congiuntamente di sottoscrivere un documento a supporto della formazione di un esercito regolare ebraico, mentre mozioni di sostegno al disegno sionista furono sottoposte al voto in ben 33 Stati.

Non stupisce quindi l’accondiscendenza di Truman – e più in generale degli Stati Uniti, pur tra notevoli alti e bassi, fino al giorno d’oggi (e non solo per quanto riguarda i famosi 3 miliardi di dollari che Washington versa annualmente nelle casse israeliane) – nei riguardi del sionismo e della creazione dello Stato di Israele.

Nell’arco di pochi giorni dalla nascita del nuovo Stato la tensione si acuì costantemente finché la Palestina non si trasformò nel principale campo di battaglia del Vicino Oriente.

Sugli eventi che si verificarono negli anni seguenti è stata scritta una vasta bibliografia quasi interamente incardinata sulle tesi che il “popolo senza terra” degli ebrei europei sopravvissuto al genocidio nazista avrebbe individuato nella Palestina quella “terra senza popolo” adatta ad ospitare il nuovo Stato ebraico e che le poche comunità autoctone stanziate nella regione avrebbero abbandonato le proprie case assecondando le esortazioni delle autorità arabe.

Nell’ultimo ventennio è nata però una corrente storiografica revisionista formata da un gruppo di accademici israeliani che hanno usufruito dell’ampia documentazione dell’epoca gradualmente desecretata per smentire questo infondato assunto di base.

Storici come Ilan Pappé, Zeev Sternhell, Tom Segev salirono agli onori della cronaca per aver sostenuto la tesi che nell’arco del triennio 1947 – 1950 sia avvenuta in Palestina una massiccia pulizia etnica delle popolazioni indigene realizzata dalle forze israeliane.

Un’operazione perfettamente organizzata che violò la risoluzione ONU 181 consacrando il carattere ebraico a cemento della neonata nazione di Israele.

L’episodio fondamentale che segnò la nascita della tattica del terrore ebbe luogo il 9 aprile del 1948.

Allora l’Haganah conquistò il villaggio palestinese di Deir Yassin per poi ritirarsi e lasciare che l’Irgun massacrasse tutti i 254 palestinesi che vi abitavano senza badare a sottigliezze come il sesso o l’età anagrafica delle vittime.

“Il massacro non solo fu giustificato, ma non ci sarebbe stato Israele senza la vittoria di Deir Yassin”, affermò Menachem Begin.

Le modalità con cui avvenne la “vittoria” di Deir Yassin furono poi diffuse per radio affinché i palestinesi comprendessero quale destino si celava dietro l’eventuale, malaugurata scelta di resistere alla prorompente avanzata sionista.

Dopo Deir Yassin massacri e stermini svolsero un ruolo cruciale nella diffusione del terrore in seno alla popolazione autoctona e all’induzione della stessa all’esodo.

Nell’arco di pochi anni 474 villaggi arabi furono occupati dalle forze sioniste e 385 di essi furono rasi al suolo e cancellati dalle cartine geografiche.

Stando alle statistiche britanniche, al 31 dicembre del 1947 vivevano in Palestina 589.341 ebrei a fronte di una popolazione totale di 1.908.775 persone.

Un censimento realizzato nel novembre del 1948 rivelò che la popolazione araba di Israele ammontava a non più di 130.000 persone.

Gli analisti sono concordi nello stimare in un minimo di 890.000 e un massimo di 904.000 il totale delle persone vittime della pulizia etnica realizzata dalle forze sioniste.

All’inizio degli anni ’50 la popolazione contenuta all’interno dei confini armistiziali era composta da 1.509.000 ebrei, 118.500 arabi, 39.000 cristiani e 15.000 drusi.

L’enorme squilibrio demografico favorito dalle scelte del Primo Ministro David Ben Gurion e dai suoi successori consolidò politicamente, economicamente, socialmente e militarmente il paese.

In sostanza, lo Stato di Israele si affermò sul piano internazionale cacciando gli indigeni dalle loro terre e rifacendosi a motivazioni di carattere biblico – religioso per adottare nei confronti degli arabi una prassi analoga a quella impiegata in altre epoche dai puritani anglosassoni nei confronti dei Pellerossa, dai cecoslovacchi e dai polacchi nei confronti dei tedeschi dei Sudeti e della Polonia occidentale, degli jugoslavi verso gli italiani d’Istria e di Dalmazia e dei croati a danno dei serbi della Kraijna.

A differenza degli altri casi, tuttavia, era la filosofia che aveva animato pochi anni prima la pulizia etnica eseguita dai nazisti nei primi territori occupati a presentare analogie con quella perpetrata dai sionisti contro le popolazioni indigene, i cui tratti comuni furono delineati efficacemente dal Ministro degli Esteri del primo governo israeliano guidato dal padre della patria David Ben Gurion.

Si tratta di Moshe Sharett, il quale affermò che:

“I rifugiati troveranno il loro posto nella diaspora. Grazie alla selezione naturale, certi resisteranno, altri no. La maggioranza diventerà un rifiuto del genere umano e si fonderà con gli strati più poveri del mondo arabo”.

I palestinesi espulsi furono costretti a rifugiarsi lungo la striscia di Gaza, in Giordania, Siria e Libano, dove vennero confinati in numerosi campi profughi appositamente creati affinché non alterassero i fragili equilibri demografici e politici della regione.

Il nazionalismo palestinese incarnato dalla figura di Yasser Arafat trasse linfa vitale proprio dalla rabbia per i torti subiti – oltre che dall’orgoglio connaturato alla religione islamica  – e dalle precarie condizioni in cui versava la popolazione dislocata nei campi profughi.

La volontà di riscatto palestinese favorì poi la formazione delle classi dirigenti imbevute di religione musulmana come la Jihad islamica e soprattutto Hamas, movimento politico di grande diffusione popolare dotato di una struttura portante simile a quella di Hezbollah e capace di adempiere ai compiti militari, economici e assistenziali.

Fu nella miseria e nel disagio che maturarono le condizioni per la reazione palestinese, che si dispiegò mediante numerosi sommovimenti popolari che innescarono una colossale concatenazione di eventi.

Settembre Nero, invasione israeliana del Libano, attentato a Bashir Gemayel, efferata ritorsione di Sabra e Chatila, Prima Intifada,  seconda guerra del Libano, provocazione di Ariel Sharon lungo la Spianata delle Moschee, Seconda Intifada, omicidio di Rafik Hariri, Rivoluzione dei Cedri, ascesa di Hezbollah, terza guerra del Libano, Piombo Fuso, allontanamento della Turchia; tutti eventi connessi direttamente o indirettamente alle tensioni israelo – palestinesi.

L’altra ripercussione sortita dalla nascita e (soprattutto) dalle modalità in cui si affermò Israele fu l’endemico sentimento di frustrazione e subalternità che opprime ancora oggi le popolazioni arabe dovuto all’atteggiamento tenuto dagli israeliani nei loro riguardi.

Dalla pulizia etnica della Palestina, alla relegazione degli arabi a cittadini di secondo livello si è giunti all’innalzamento di una “barriera di separazione”, un muro suscettibile di produrre l’annessione israeliana di Gerusalemme Est oltre a parte dei territori occupati della Cisgiordania e di garantire una segregazione forzata sospingendo verso est le popolazioni arabe stanziate nell’area.

La costruzione della barriera in questione iniziata nel 2003 avvenne a più di un decennio dal significativo abbattimento del Muro di Berlino e dalla liberazione di Nelson Mandela che preluse alla fine dell’Apartheid, il regime di segregazione razziale che gli afrikaner sudafricani avevano applicato per mantenere una separazione forzata dai cittadini autoctoni di pelle nera.

Si tratta di un anacronismo che alla prova dei fatti tende a minare le ambizioni palestinesi relative al riconoscimento di uno Stato nazionale.

Abu Mazen ha annunciato pubblicamente che a settembre si rivolgerà alle Nazioni Unite per chiedere il riconoscimento di uno Stato palestinese imperniato sulla centralità indiscutibile di Gerusalemme, città che non a caso Israele sta accingendosi ad accorpare per mezzo del muro.

Molti paesi – specialmente dell’America Indiolatina – hanno già riconosciuto lo Stato palestinese ed altri – come la Norvegia – attenderanno il voto di settembre per fare altrettanto.

Israele, per bocca del Primo Ministro Benjamin Netanyahu e del Ministro degli Esteri Avigdor Lieberman, ha pubblicamente invitato i paesi europei a guardarsi dall’accogliere le richieste avanzate unilateralmente da Abu Mazen, laddove riconoscere uno Stato per i palestinesi è una necessità che solo un numero assai contenuto di paesi e uomini politici ha osato mettere in discussione.

I governanti di Tel Aviv, tuttavia, perseverano nel far ricorso ai medesimi, logori e stereotipati clichés impiegati negli anni passati per edulcorare l’immagine di Israele.

L’opinione pubblica internazionale, infatti, non accetta più che vengano rievocati gli orrori del nazismo per giustificare i coprifuoco, i check – point, le esecuzioni selettive, le umiliazioni pubbliche di cui le autorità israeliane si sono ripetutamente rese responsabili.

Esiste, beninteso, una sparuta minoranza che si ostina a considerare gli israeliani delle vittime, laddove sono però incontestabilmente i palestinesi – vessati, umiliati e privi di uno Stato – ad aver sostituito gli ebrei nell’immaginario collettivo.

“Le contraddizioni – scrive lo storico Tony Judt – insite nel modo in cui Israele si presenta – “siamo molto forti/siamo molto vulnerabili”; “decidiamo del nostro destino/siamo noi le vittime”; “siamo uno Stato normale/pretendiamo un trattamento speciale” – non sono nuove: fanno parte dell’identità distintiva del paese quasi dall’inizio. E l’insistente enfasi sull’isolamento e sulla unicità che lo caratterizzano, oltre alla pretesa di essere allo stesso tempo eroe e vittima, un tempo formavano parte del vecchio fascino alla Davide contro Golia”.

L’assiduità ossessiva con cui viene impiegato l’antisemitismo per trasferire il terreno della discussione dal politico all’irrazionale e per trasformare gli imputati in giudici è indice del fatto che rimangono ben pochi argomenti per giustificare le mosse di Tel Aviv.

Si tratta dell’ultimo, logoro asso nella manica che i sostenitori acritici di Israele utilizzano per fregiare di nobili crismi legittimatori i colpi di coda di una nazione che non comprende di aver perso da tempo ogni diritto alla solidarietà internazionale, che si ostina ad ignorare il fatto che gli Stati Uniti non si mostreranno sempre accondiscendenti (Zbigniew Brzezinski non lo è stato mentre John Mearsheimer e Stephen Walt hanno documentato ampiamente i danni provocati agli interessi statunitensi dall’appoggio a Israele, subendo pesanti attacchi dalla lobby ebraica e delle sue influenti ramificazioni) che muri e fortezze non preserveranno il paese più di quanto abbiano fatto con la Repubblica Democratica Tedesca e il Sud Africa, con Troia e Sebastopoli, con Atene e Yorktown.

Attualmente l’immane tragedia costituita dalla nascita di Israele e dalle modalità che segnarono la sua graduale affermazione internazionale sono tappe storiche di quella viene eufemisticamente definita come “questione palestinese”.

A differenza di ciò che accade oggi in Israele e ovunque si trovino gli entusiasti difensori del sionismo, l’ipocrisia che sta alla base di tale espressione non avrebbe presumibilmente trovato l’approvazione di David Ben Gurion stesso, principale artefice e ideatore della pulizia etnica della Palestina che descrisse la natura intrinseca del colossale problema nei seguenti termini:

“Se fossi un arabo non firmerei mai la pace con Israele. E’ ovvio: abbiamo preso il loro paese. Ci era stato promesso da Dio, certo, ma perché ciò dovrebbe interessarli? Il nostro Dio non è il loro. E’ vero che siamo originari di Israele, ma è un fatto che risale a duemila anni fa. In che modo può riguardarli? Ci sono stati l’antisemitismo, il nazismo, Hitler, Auschwitz. Ma è stata forse colpa loro? Essi vedono una sola cosa: siamo venuti e abbiamo preso la loro terra”.

Giacomo Gabellini è collaboratore di Conflitti & Strategie

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La Global Security dalla Guerra del Golfo all’aggressione alla Libia

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“The brutal aggression launched last night against Kuwait illustrates my central thesis: Notwithstanding the alteration in the Soviet threat, the world remains a dangerous place with serious threats to important U.S. interests wholly unrelated to the earlier patterns of the U.S.-Soviet relationship. These threats, as we’ve seen just in the last 24 hours, can arise suddenly, unpredictably, and from unexpected quarters. U.S. interests can be protected only with capability which is in existence and which is ready to act without delay. The events of the past day underscore also the vital need for a defense structure which not only preserves our security but provides the resources for supporting the legitimate self-defense needs of our friends and of our allies. This will be an enduring commitment as we continue with our force restructuring”.

George Bush, 2.08.1990, Aspen, Colorado

Con queste parole, a poche ore dall’invasione irachena del Kuwait, George Bush introduce le basi della nuova linea estera statunitense. La fine del Patto di Varsavia spinge gli Stati Uniti a ridefinire la propria posizione nell’ordine internazionale correggendo gli obiettivi del nuovo sistema mondiale. Nell’ottica dei suoi promotori, la strategia delineata individuerebbe l’emergere di nuove sfide nel tramonto della presunta minaccia sovietica. Infatti, la possibile anarchia del Terzo Mondo, resa più visibile nel rinnovato scenario internazionale, nasconderebbe gravi preoccupazioni. Pertanto, in virtù delle parole del Presidente, gli Stati Uniti, a partire da questo frangente storico, avrebbero il doveroso compito di modellare gli equilibri internazionali secondo la propria impostazione ideologica. Per raggiungere questo scopo, la manovra non esclude la violazione del principio di non interferenza negli affari interni dello stato: è la dottrina della global security.

Rivista più volte sotto differenti vesti, la manovra Bush rappresenta una costante della politica occidentale dalla Prima Guerra del Golfo ad oggi. In Kosovo, in Afghanistan, in Iraq ne abbiamo osservato i risvolti concreti. Una sua versione, rivista da NATO e Unione Europea, dirige oggi l’aggressione contro la Libia del Colonnello Mu’ammar al-Qadhdhāfī.

Lo Stato delle masse

Nel 1969, l’ascesa al potere del Movimento dei Liberi Ufficiali Unionisti, sancì il declino delle politiche strategiche occidentali in linea con le manovre del Presidente egiziano Gamāl ‘Abd al-Nāsir. Qadhdhāfī, leader del Movimento, assunse presto il titolo di “guida della rivoluzione”. Nei primi anni di governo creò nuove formule amministrative e, per limitare l’influenza dell’élite, diede vita ad un’organizzazione di massa, l’Unione Socialista Araba. Nel 1973, ai comitati popolari, eletti nei villaggi, nelle scuole e nelle organizzazioni, fu permesso di giocare un ruolo di rilievo nel governo locale e provinciale. Due anni più tardi, le loro attività trovarono espressione a livello nazionale nel Congresso Generale del Popolo. Questa struttura rappresentativa pose le basi per la jamahiriyyah, la “Repubblica delle masse”. Sebbene responsabile, in ultima analisi, davanti al Colonnello, la  nuova struttura burocratica includeva il Congresso, i comitati rivoluzionari e gli esponenti degli “uffici del popolo”. Sintesi tra partecipazione e controllo amministrativo, la formula  di Qadhdhāfī non aveva eguali in tutto il mondo arabo. La sua rappresentatività e le sue peculiarità lo qualificavano come una vera e propria autentica alternativa politica.

La manovra riformatrice del Colonnello venne accompagnata dall’attacco contro i privilegi economici, realizzato attraverso un programma di nazionalizzazione delle imprese private. Dopo aver dato vita a una grande impresa di ingegneria idraulica, che rispondesse al problema della siccità, elaborò un sistema finalizzato all’approvvigionamento del petrolio e del gas. In questo programma, Qadhdhāfī perseguì il suo progetto con una determinazione e una lungimiranza tale da guadagnare un ruolo di primo piano nella rispettabilità antimperialista.

L’aggressione al Colonnello

Negli ultimi anni, Qadhdhāfī era tornato nello scenario dell’onorabilità internazionale tanto da essere ricevuto con grandi onori dai governi di tutta Europa. Poi, è giunta la cosidetta “primavera araba”. E, quindi, la protesta del popolo libico.

Allo stato attuale, le manifestazioni anti-governative sembrano essere guidate, in parte, da fattori esterni i quali avrebbero approfittato del malcontento popolare allo scopo di soffocare l’autodeterminazione di un paese ricco di risorse preziose.

Per realizzare questo compito, la comunità internazionale ha redatto una fonte di legittimazione approvando la risoluzione ONU 1973, ratificata il 17  marzo del 2011. In questo modo, l’ONU ha autorizzato l’uso della forza militare allo scopo di proteggere i civili imponendo una no fly zone sui cieli libici. Ancora una volta, lo spirito alla base di questa operazione è riconducibile alla dottrina Bush. Oggi, mentre la NATO compie i suoi massacri indistintamente sui civili libici, le manifestazioni a favore di Qadhdhāfī si sono trasformate in azioni di resistenza che dipingono lo stesso come padre dell’antimperialismo e vittima del complotto NATO.

Dopo l’assassinio di Abdul Fatah Younis, comandante militare del Consiglio Nazionale di Transizione-CNT, sembrerebbe che la NATO, temendo un insuccesso della missione, abbia assunto in prima persona la direzione della rivolta attraverso l’uso di mercenari occidentali e ribelli islamisti. Il CNT, costituito da svariate componenti, è stato identificato come legittimo rappresentante del popolo libico in maniera del tutto discrezionale dalla comunità internazionale. Tuttavia, come esporrò in seguito, a queste condizioni, non sembra essere l’attore adatto a guidare la transizione in Libia.

Il Post-Qadhdhāfī visto dagli USA

Intanto, gli Stati Uniti preparano il loro post-Qadhdhāfī. Il Council of Foreign Relations[1] ha recentemente diffuso un documento, dal titolo Post-Qadhdhāfī Instability in Libya, che prospetta gli scenari possibili del futuro libico. Posto che il rapporto non ammette una continuità con il regime precedente, il think tank statunitense espone un insieme di opzioni che non sembra proiettare verso una transizione pacifica. All’interno vengono contemplate diverse possibilità: Qadhdhāfī potrebbe essere definitivamente estromesso, oppure, potrebbe giungere ad un accordo che permetta ad alcuni elementi del suo regime di partecipare al suo post o, infine, potrebbe negoziare un ruolo, più limitato, per sè o per i suoi figli. Il documento, analizzate le ipotesi, riferisce che, il persistere della presenza di  Qadhdhāfī, o dei membri della sua famiglia, potrebbe ridurre il rischio di instabilità del paese.

A tal proposito, lo studio si sofferma sulle fonti di precarietà politica che potrebbero presentarsi nel caso in cui la transizione estrometta completamente la figura del Colonnello: insurrezioni, saccheggi, guerre fratricide, criminalità diffusa. Tra queste, inoltre, non è esclusa la possibilità che i lealisti continuino la resistenza. Il documento, quindi, riconosce alle forze vicine a Qadhdhāfī un peso non indifferente. Altra questione, che fa discutere sulle posizioni attuali della NATO, è la credibilità del CNT. Lo stesso rapporto, infatti, menziona, tra gli elementi di instabilità, l’alta frammentazione interna al Consiglio, costuito da liberal-democratici, islamisti, berberi, emigrati e jihadisti.

Sulla base dell’esame del documento, l’intervento sotto l’egida NATO rappresenterebbe una possibilità per gestire il passaggio politico e per la ripresa delle esportazioni di petrolio e gas. Eppure, continua il rapporto, esistono diverse opzioni di successo. Una di queste potrebbe vedere una Libia non democratica raggiungere una condizione di stabilità. Tuttavia, la transizione potrebbe fallire producendo uno stato di confusione politica o conducendo all’instaurazione di regimi ostili all’interesse statunitense. Al riguardo, è valutata anche l’eventualità che i possibili rifugiati creino ulteriori disordini nei paesi limitrofi amplificando il clima di precarietà regionale.

Secondo quanto esposto, la tutela delle infrastrutture e delle risorse del paese, il problema delle armi e il mantenimento dell’ordine pubblico rappresentano dei doveri prioritari in tutte le possibili alternative transitorie. A tale scopo, nel documento è inclusa la possibile creazione di un governo ad interim, riconosciuto sul piano internazionale, o, ancora, un’operazione di peacekeeping. Tuttavia, qualora si presenti la necessità di soffocare un’insurrezione e prevenire possibili regimi dittatoriali, la comunità internazionale dovrebbe provvedere prendendo in esame anche l’ipotesi dell’intervento militare.  Infine, non è esclusa l’ipotesi della piena occupazione in caso di sfacelo dell’ordine pubblico e di conseguente crisi umanitaria.

In sintesi, la forma mentis delle recenti operazioni, si inserisce nel solco della global security. Il documento, infatti, non nega che il post-Qadhdhāfī possa comportare una situazione politica estremamente problematica. Il Colonnello, conquistando consensi di una buona parte della popolazione, che oggi porta avanti la resistenza contro l’occupazione NATO e inneggia a lui come ad un perseguitato delle politiche occidentali, rappresenta un elemento di stabilità per il paese. Lo stesso rapporto descrive un futuro scenario pieno di insidie e di precarietà politica, sociale ed economica. Non solo, ma ammette anche che il coinvolgimento del Colonnello nel futuro politico della Libia sia una delle poche possibilità in grado di attenuare questa fragilità. Infatti, la sua figura, in qualche modo, fornirebbe delle garanzie al popolo libico. Tanto è vero che il rapporto, nel momento in cui si spinge ad analizzare il riscontro di alternative di transizione che escludono la sua partecipazione, giunge a valutare l’ipotesi di interventi armati e di vere e proprie occupazioni Il CNT, dunque, rappresenterebbe solamente uno strumento formale per facilitare la presenza delle forze occidentali in Libia. Per tale ragione, si riconosce l’incapacità del Consiglio nel gestire la transizione attribuendo ruoli di rilievo alla comunità internazionale che, in caso di emergenza, si presenterebbe come necessaria. La situazione libica non sembra differire molto dall’attacco scatenato contro Saddām Husayn. Anche in questa occasione, infatti, si assistette ad una dura campagna demonizzatrice del raìs che intendeva giustificare l’aggressione contro la popolazione civile. L’allarme scatenato contro Saddām ricorda lo stesso copione libico. Anche le dinamiche di preparazione alla transizione non sembrano differire molto. Fonti recenti, infatti, riferiscono che la Casa Bianca abbia attivato il Libyan Information Exchange Mechanism (LIEM), un organismo simile all’Office of Reconstruction and Humanitarian Assistance (ORHA) di Baghdad. Quest’ultimo istituto, di natura privata, venne istituito sotto la coordinazione del Pentagono e fu presto assorbito dall’Autorità Provvisoria della Coalizione (CPA). A tal proposito lascia perplessi il fatto che, allo stato attuale, in Libia, si ignori la natura giuridica del CNT libico e del LIEM. Queste considerazioni dovrebbero indurci a vagliare le differenti sfaccettature delle operazioni, mascherate dalla targa diritti umani”, dove i presunti interventi umanitari sono stati responsabili di massacri e violenze. Per queste ragioni, il documento del think tank statunitense è prova del fatto che, a venti anni di distanza, lo spirito della tradizione Bush continua a forgiare la politica internazionale a difesa dello status quo dominante.


[1] Il Council on Foreign Relations-CFR è una think tank statunitense, è un’associazione privata che si occupa delle analisi della politica estera statunitense facendo da supporto al governo statunitense.

Laura Tocco è dottoranda presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Cagliari.

 

 

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A chi giova la tesi della cosiddetta “unicità” del genocidio ebraico?

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1. Faccio riferimento a due pagine del Corriere della Sera del 31 agosto e del 1° settembre 2011, con interviste di Stefano Montefiori a Pierre Nora e Claude Lanzmann, e commento dell’intellettuale di regime Pierluigi Battista. Essi si indignano per il fatto che sui manuali francesi di storia la parola “Shoah” sia stata sostituita da termini come genocidio, sterminio ed annientamento, perché temono che dietro questa vaga terminologia ci sia una strategia non certo di “negazionismo”, ma anche soltanto di relativizzazione e di “banalizzazione” (termine usato in Francia) della cosiddetta “unicità” del genocidio ebraico.

Il lettore intenda bene. Qui non si ha a che fare con una giusta, legittima e sacrosanta reazione alle tesi “negazioniste”. Qui si intende affermare la tesi mistico-religiosa della cosiddetta Unicità e Imparagonabilità del genocidio ebraico. Si è dunque all’interno di quella costellazione ideologica che a suo tempo Domenico Losurdo definì “giudeocentrismo”, che in quanto tale non ha nulla a che fare con la giudeofilia né con la giudeofobia (termine da preferire a quello di antisemitismo, visto che anche gli arabi musulmani sono semiti).

A chi giova questa follia? Non certamente alla memoria storica per le vittime innocenti. Certamente non alla prevenzione di crimini di questo tipo, prevenzione che sarebbe molto più facilitata dalla comparabilità e dall’analogia storica piuttosto che da una mistica unicità. E allora a chi giova?

2. Leggo che la parola “Shoah” in ebraico significa catastrofe, ed indica il genocidio degli ebrei ad opera dei nazisti. E’ preferito al termine “Olocausto” per le implicazioni religiose di quest’ultima parola. Nella lingua armena il termine corrispondente a Shoah, olocausto e genocidio è connotato come Metz Yeghern (Grande Male). Si può visitare il memoriale a Erevan, così come lo Yad Vashem in Israele. Nessun armeno si inquieterà se per caso il termine di genocidio non viene connotato come Metz Yeghern. Ciò che conta è che il genocidio armeno sia riconosciuto come tale, ma gli armeni non pretendono l’Unicità. Perché gli ebrei la pretendono?

3. Una risposta cerca di darla la giornalista ebrea israeliana Amira Hass (Cfr. “Internazionale” n. 582, marzo 2005). Scrive la Hass: “Non ho guardato alla televisione la cerimonia per l’inaugurazione del nuovo museo dell’Olocausto a Gerusalemme. Per quanto potesse essere commovente ascoltare testimonianze così simili a quelle dei miei genitori, ho preferito vedere un film. Non volevo assistere al modo in cui lo stato di Israele ha sfruttato la storia della mia famiglia e del mio popolo per una grande campagna di pubbliche relazioni … la morte di sei milioni di ebrei è la più grande risorsa diplomatica di Israele”.

Non si poteva dire meglio. Esattamente come Amira Hass, quando cominciano alla televisione le cerimonie sulla Memoria cambio immediatamente canale, e spero che questa onesta ammissione non venga presa per una manifestazione di antisemitismo latente, inconscio, eccetera. Riconosco totalmente il “fatto” del genocidio ebraico. Riconosco le tesi storiografiche sulla distruzione dell’ebraismo europeo. Come molti della mia generazione, mi sono formato moralmente su “Se questo è un uomo” di Primo Levi. E’ quasi umiliante dover ribadire queste ovvietà. Non sopporto, e ho il diritto di non sopportarlo, la cerimonializzazione religiosa della legittimazione del sionismo fatta passare per rispetto della memoria storica.

E tuttavia, l’impostazione di Amira Hass non mi convince del tutto. Possibile che tutto questo ambaradan sia rivolto solo a legittimare la costruzione di numerose colonie sioniste in Cisgiordania, la cacciata di contadini palestinesi e la distruzione dei loro ulivi? Non si spara con un cannone contro una mosca. Ci deve essere dell’altro. Vediamo cosa, ma prima apriamo due parentesi.

4. A fine Ottocento, la corrente filosofica chiamata “storicismo” stabilì la differenza fra discipline dette nomotetiche e discipline dette idiografiche. Le discipline nomotetiche (fisica, chimica, biologia, eccetera) stabiliscono “leggi” matematizzabili e sperimentabili, e quindi falsificabili, nei rapporti tra fenomeni. Le discipline idiografiche (storia, storiografia, eccetera) indagano il particolare storico irripetibile (in greco idion), per cui ogni avvenimento è unico e fa storia a sé.

In questa sede non ci interessa discutere se e in che misura gli storicisti avessero ragione o torto contro i loro avversari positivisti e marxisti positivisti. Qui interessa solo ricordare che ogni fenomeno storico per principio è unico, e quindi idion. Anche il genocidio ebraico, come del resto quello armeno, è quindi unico, in quanto avvenuto con modalità uniche (ad esempio il carattere industriale delle deportazioni e l’accompagnamento ideologico razzista, eccetera). Ma non è questa l’unicità storiografica cui vanno in cerca Nora e Lanzmann, ed il loro schiavetto ideologico Battista. Per costoro Unico significa Superiore a qualunque altro, Imparagonabile, così come per i religiosi Mosè, Gesù e Maometto sono unici e imparagonabili. A chi giova?

5. A suo tempo, mi sono occupato analiticamente del genocidio degli armeni, che ho studiato con cura (Cfr. “Eurasia”, 3, 2009). Non ho qui lo spazio per motivarlo, ma assicuro il lettore che si tratta di un genocidio al 100%, qualunque siano le categorie e i parametri concettuali usati per definire il fenomeno.

Il testo principale di riferimento è quello di Vahakn N. Dadrian, Storia del genocidio armeno, Guerini e Associati, 2003. Anche molti storici turchi concordano con la tesi del genocidio, fino a poco tempo fa ancora punita per legge in Turchia. Ebbene, c’è anche un testo di un certo Guenter Lewy (Il massacro degli armeni. Un genocidio controverso) che con mille artifici sofistici estratti dalla storiografia turca (lingua che peraltro Lewy non conosce, come non conosce l’armeno – immaginiamoci uno storico americanista che non legge l’inglese!) nega in tutti i modi che ci sia stato un genocidio armeno, e parla solo di massacro o di serie di massacri. Che cosa succederebbe se uno storico europeo negasse il genocidio ebraico, e concedesse soltanto che ci sono stati una serie di massacri? Si griderebbe all’antisemitismo e si farebbe anche appello a leggi contro il negazionismo. Invece questo signore può scrivere quello che vuole ed essere pubblicato da Einaudi, semplicemente perché gli armeni non sono protetti dalla diffamazione.

Si può andare avanti così? A mio avviso no. Vittime possono diventare a lungo termine gli ebrei stessi. La palese adozione di due pesi e due misure non può che ingenerare fastidio, irritazione, ed infine rivolta contro il Politicamente Corretto. Oggi il Politicamente Corretto dispone di un vantaggio basato sul silenziamento conformistico e totalitario di tutte le voci dissenzienti, ma questo non potrà durare per sempre. Ma arriviamo al cuore del problema.

6. Ho ricordato poco sopra che secondo ebrei onesti ed illuminati come Amira Hass o l’americano Norman Finkelstein, il genocidio ebraico è ideologicamente utilizzato per legittimare non solo il sionismo in sé (fu anche una tesi di Roger Garaudy, ingiustamente accusato di antisemitismo), ma anche la continua violazione del diritto internazionale (insediamenti in Cisgiordania, eccetera). Questo mi sembra ovvio, e può essere negato soltanto dal cinismo, dalla malafede e dalla disinformazione. E tuttavia, non sta ancora qui il cuore della tesi religiosa della Unicità Imparagonabile.

Ci può aiutare il corsivista del Corriere della Sera Pierluigi Battista. Non dimentichiamoci che il Corriere della Sera, in piena continuità tra Ferruccio De Bortoli e Paolo Mieli, è stato all’origine della santificazione dell’anti-islamismo di Oriana Fallaci, fenomeno simile (anche se ovviamente non eguale, idion) alle campagne anti-ebraiche di Giovanni Preziosi degli anni Trenta in cui si scrisse che, anche ammesso che i Protocolli dei Savi di Sion fossero un falso commissionato dalla polizia zarista, questo non conta nulla, perché il contenuto resta vero!

Scrive Battista, nel contesto della sua approvazione dello sdegno di Nora e Lanzmann: “Il rimpicciolimento simbolico di Auschwitz è l’esito doloroso e paradossale di un’Europa che dimentica facilmente l’orrore da cui è venuta”. Riflettiamo su questa frase assiro-babilonese, basata sulla concezione assiro-babilonese (e nazista) di responsabilità collettiva, lontanissima dalla concezione greca di responsabilità individuale (ogni persona ha infatti un’anima propria, psychè).

Di quale Europa va cianciando Battista? Personalmente ho 68 anni, essendo nato nel 1943, e non mi considero assolutamente responsabile per l’orrore hitleriano e per altri orrori consimili. Io non vengo da nessun “orrore”, per usare il linguaggio ieratico di Battista. Ognuno è responsabile solo per le proprie azioni. Gli ultimi nazisti vivi sono novantenni. Solo chi è condannato all’ergastolo ha scritto: “Fine Pena, Mai”. Quando finirà l’espiazione per l’Europa? Settant’anni non sono sufficienti? I mongoli a Baghdad ottocento anni fa hanno passato a fil di spada mezzo milione di persone. Forse che sbarcando a Ulan Bator devo ricordarlo al doganiere facendogli abbassare il capo?

Lo scopo di Battista è quello di inchiodare per sempre l’Europa al suo presunto “peccato originale”, in modo che venga punita in saecula saeculorum con le basi nucleari americane e con la perdita di ogni indipendenza politica e culturale. Fatto che con la memoria storica propriamente detta non ha nessun rapporto.

Torino, 2 settembre 2011

 

* Costanzo Preve è un filosofo e saggista italiano, frequente contributore alla rivista “Eurasia”

 

 

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Intervista a Thierry Meyssan e Julien Teil. Tripoli, ultime ore prima della caduta

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Fonte : http://french.irib.ir/analyses/articles/item/140096-tripoli-derni%C3%A8res-heures-avant-la-chute

IRIB – I nostri colleghi del sito “Egalité et Réconciliation” hanno intervistato i giornalisti Thierry Meyssan e Julien Teil in merito alla presa in ostaggio di cui sono stati oggetto prima della presa totale della città da parte dei ribelli.

Ecco il testo dell’intervista.

Domanda: Come si è svolta la vostra presa in ostaggio, negli ultimi giorni, a Tripoli? Siete stati minacciati dai ribelli, si è parlato di arresto, di quello di Thierry specialmente, e visto il caos che regnava, penso che voi abbiate rischiato ripetutamente la morte, mi sbaglio?

Thierry Meyssan: Innanzitutto, noi non siamo mai stati presi in ostaggio o per lo meno non è così che ho percepito gli eventi. Ci siamo ritrovati bloccati all’interno dell’hotel Rixos assieme a una quarantina di persone in una situazione particolare, perché c’era un seminterrato dell’albergo sistemato con delle camere e una cucina dotato di un accesso che nessuno conosce e che è stato utilizzato da alcuni funzionari libici durante alcune fasi cruciali della battaglia di Tripoli. Quindi, quando i funzionari libici si trovavano all’interno di questo edificio la NATO non poteva bombardarlo, perché conteneva anche giornalisti della CNN, della BBC e della Fox, oltre a due inviati, una sorta di negoziatori degli Stati Uniti. Poi, quando i funzionari libici erano assenti la NATO ci ha usati come esche per farli ritornare; a quel punto, non appena avessero osato entrare negli edifici sarebbero stati immediatamente fermati. Dentro gli edifici siamo stati protetti dalle guardie libiche della Jamahiriya mentre l’albergo veniva accerchiato da alcune forze ribelli composte essenzialmente da guerriglieri islamisti di Al Qaeda sotto la supervisione, da quel che ho capito, perché non sono testimone oculare, degli ufficiali francesi.

Domanda: Quindi vi trovavate sotto il fuoco incrociato?

Julien Teil: Per quanto mi riguarda, concordo quasi completamente con la versione di Thierry, anche se in realtà nessuno di noi due ha potuto constatare con i propri occhi ciò che stava accadendo all’esterno. Siamo stati protetti dai volontari della Jamahiriya, vale a dire dalle persone che avevano interessi direttamente connessi alle ragioni evocate da Thierry: dei dirigenti libici di altissimo profilo erano entrati all’interno dell’albergo per trovare rifugio, questo è certo, ma penso anche che intendessero difendere l’albergo onde evitare che i ribelli entrassero e compissero un massacro perché nutrivano un certo rispetto per i giornalisti malgrado sapessero che molti di essi non avevano raccontato la verità; quindi, da una parte, c’erano tutti questi volontari che difendevano l’albergo e, soprattutto, facevano un gran baccano, mentre gli scontri all’esterno miravano, ovviamente, a deconcentrare le guardie che stazionavano all’ingresso che ammontavano grosso modo a 60 militari libici oltre, da quel che mi è stato riferito, a circa una decina di volontari dislocati all’interno che si sono dati ripetutamente il cambio. Ad un certo momento tutti i volontari hanno certamente lasciato l’albergo, dal momento che non abbiamo visto più nessuno al suo interno; i combattimenti all’esterno sembravano essersi interrotti, ma non appena si è cercato di guardare dal tetto, si sono immediatamente sentiti i cecchini, o meglio, si sono subito sentite delle persone che sparavano; pertanto è difficile sapere se furono i militari libici a intimorirci così da farci rientrare, per la nostra sicurezza, all’interno dell’albergo o se furono invece i ribelli a spararci contro; comunque, per quanto riguarda questi ultimi, va chiarito che si tratta di persone sprovviste, per la maggior parte dei casi, di alcun coordinamento. Ma questo mi sembra sorprendente dal momento che, come ha spiegato Thierry, uno dei volontari libici ci ha riferito che c’erano francesi, algerini, tunisini e qataresi a controllare tale operazione.

Domanda: Prima di arrivare alla seconda domanda riguardante il Qatar, avete parlato d’infiltrazioni di spie tra i giornalisti. Come è andata a finire?

Thierry Meyssan: Avevo girato un breve filmato dentro l’albergo, qualche tempo prima, per spiegare che in una situazione di guerra come questa ogni potenza cerca di insinuare i propri agenti segreti sul posto. E, naturalmente, quando si presenta la possibilità di trovare giornalisti, tutti i servizi segreti si precipitano per sfruttarla. E’abbastanza ovvio, in relazione alla generale logica di fondo. Poi, se procediamo all’analisi dei singoli casi le dinamiche, naturalmente, sono più complesse e io ho sono venuto a conoscenza d’un certo numero di cose molto precise relative al caso in questione, perché ho avuto accesso diretto ad esso; mi sono stati mostrati vari dossier informativi che ora non ho con me, perché sono soltanto stati sottoposti alla mia attenzione, per cui non farò il nome di alcuna persona in particolare perché non sono nelle condizioni, al momento attuale, di esibire prove materiali riguardanti la posizione di tali personaggi. All’interno dei dossier che ho analizzato erano presenti documenti di svariata, incredibile natura sulle connessioni tra alcuni giornalisti e i servizi di intelligence MI6, Mossad e CIA. Ho visto le schede di accreditamento della difesa segreta; ho visto i piani d’evacuazione che sono stati forniti a queste persone da una società, in particolare, che risponde al nome di “Idris” e che corrisponde alla variante britannica della “Blackwater” statunitense, installata in loco per favorire l’eventuale ritirata delle proprie spie qualora se ne fosse presentata la necessità. Ho visto tutto questo. C’erano molti giornalisti e c’erano anche delle persone piuttosto normali, ma non erano molte.

Julien Teil: Per quanto mi riguarda, all’inizio ho avvertito le stesse cose di Thierry, e secondo il mio parere la maggior parte di questi giornalisti erano in realtà degli agenti infiltrati, degli agenti sotto copertura, dei semplici negoziatori e financo degli informatori. E poi, di contro, ho sicuramente commesso l’errore di cui parla Thierry, poiché ci sono degli individui che non hanno nulla a che vedere con tutti questi apparati ma sono dei semplici giornalisti che fanno il loro lavoro, solo che lo fanno dalla sponda opposta rispetto alla nostra; e ho commesso l’errore di pensare che alla fine questi giornalisti, a prescindere da ciò che si possa pensare di loro, non rappresentassero che una sparuta minoranza. Ma poi ho parlato con Thierry e due giorni dopo ho compreso di quanto la realtà fosse più complessa di così. Non ho avuto accesso alle stesse informazioni di Thierry. Ho semplicemente constatato che questi giornalisti, mentre parlavano con noi, erano delle persone abbastanza normali molto più spaventate di quanto non fossimo noi.

Thierry Meyssan: Occorre comprendere che noi abbiamo vissuto a porte chiuse nel bel mezzo di una situazione pericolosa. Era necessario discendere nel primo seminterrato per evitare di esser colpiti dai calcinacci. Infatti, per ben otto giorni abbiamo vissuto a porte chiuse, in una condizione in cui le persone bloccate assieme a noi nell’albergo si sono scisse in diversi gruppi: c’erano, da un lato, i giornalisti atlantisti, dall’altro i giornalisti antimperialisti e in mezzo alcuni che cercavano di tenersi ai margini di questo conflitto. Quando la torre di guardia era operativa e dei nuovi volontari libici venivano a difendere l’albergo, noi spesso li conoscevamo, sapevamo di poterli salutare; li abbiamo accolti, li abbiamo abbracciati e abbiamo chiesto loro notizie relative ad altri combattenti. Pertanto, ciò avrebbe potuto suscitare un’ansia molto forte in seno agli altri giornalisti, i quali avrebbero potuto pensare che in fin dei conti noi non eravamo armati ma eravamo amici di altre persone armate di tutto punto. Inoltre, abbiamo visto alcuni individui qualificatisi come giornalisti atlantisti che godevano di un collegamento quasi permanente, via satellite, con la NATO. Quindi, noi sapevamo che se l’albergo fosse stato preso avrebbero potuto anche farci uccidere istantaneamente. Questo tipo di situazione, dove ognuno diffida e ha paura dell’altro, può degenerare molto rapidamente. Ed è veramente stata più volte sul punto di degenerare. A ciò si aggiunga il fatto che molti pericoli si sono creati in questo tipo di situazione. Io e Mahdi Darius Nazemroaya, oltre a Leezy della Press TV, abbiamo svolto un lavoro molto visibile, sul piano mediatico, che ha messo in luce una serie di menzogne costruite ad arte e fatte circolare dall’Alleanza Atlantica: quindi, tutti e tre siamo stati considerati come elementi ostili all’Alleanza, e tra tutte le cose che sono accadute fino a quel momento, è chiaro che alcuni dirigenti militari e politici dell’Alleanza avevano preso la decisione di far eliminare non solo noi, ma anche un onesto negoziatore statunitense che si trovava lì con noi. Il pericolo non era virtuale, mi creda. A ciò si aggiunga il fatto che, da parte mia, ho profuso i miei sforzi, ed ero solo, per difendere il diritto internazionale e in questo caso mi sono sentito calpestato dall’Alleanza Atlantica in generale e dalla Francia in particolare: ho tentato di difendere il diritto internazionale e per farlo mi sono assunto alcune responsabilità nei confronti della Jamahiriya. Per questo motivo sono stato personalmente considerato un individuo che occorreva assolutamente far sparire. Per Julien e Mathieu [Ozanon], che si trovavano in quel posto, il fatto stesso di stare al mio fianco costituiva un pericolo ma, allo tesso tempo, se fossero stati soli non avrebbero trovato maggior sicurezza. Era una situazione delicata.

Domanda: Si è chiaramente trattato di un una storica operazione di messa in scena, in stile Hollywood… Tutti, al giorno d’oggi, convengono che la presa della Piazza Verde è stata realizzata, in studio, nel lontano Qatar. Anche il vertice del CNT ha ammesso alla televisione Al Jazeera che la NATO ha fatto ricorso anche a nastri audio per scatenare il panico fra i cittadini di Tripoli. Peggio ancora, nessun membro del bordello ha ritenuto necessario parlarne. Cosa avete visto sul posto, dal momento che ne parlavate prima della caduta di Tripoli?

Thierry Meyssan: In primo luogo intendo ricordare che quando ho raccontato questa storia del falso filmato che era stato girato in Qatar non sapevo cosa stessero riprendendo, ma sapevo che avevano ricostruito la Piazza Verde e Bab Al Aziya in studio e l’ho scritto prima che il video fosse fatto circolare; ho visto , ancora una volta, i giornali come “Marianne” farsi beffe del fatto che io scrivessi queste cose, ma gli eventi mi hanno dato tristemente ragione. Dall’inizio di questa guerra, molte delle cose che sono state dette e molte delle cose che avete visto alla televisione sono false. Il fatto di vedere non è sufficiente poiché, per come funziona il sistema al giorno d’oggi, siamo in grado contestare un rilevante numero di cose che sono state fatte circolare e credere in tutto il mondo; specificamente noi contestiamo risolutamente la storia dei massacri che avrebbero avuto luogo a Bengasi, agli inizi. Tutto questo è falso, assolutamente falso. E ho cercato di spingermi oltre. Penso che la stampa sia qualcosa di essenziale a qualsiasi forma di democrazia. In assenza di libertà d’espressione non è possibile parlare di democrazia. Ma se questa libertà d’espressione è distorta al servizio della guerra, allora l’intero sistema è falsato. Così, ho spinto la Jamahiriya a perseguire degli obiettivi che, evidentemente, non possono essere portati a termine ora, poiché, contrariamente a quanto riportato dalla CNN, lo Stato è crollato dopo una serie di falsi resoconti e in aperta violazione di tre risoluzioni dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che sono state adottate all’indomani della Seconda Guerra Mondiale, che assimilano la propaganda di guerra a un crimine contro la pace, che affermano che la grande responsabilità dei giornalisti che hanno distorto volontariamente l’informazione (e non quanto hanno semplicemente commesso degli errori) debba essere commisurata alle conseguenze connesse alle proprie falsificazioni e contraffazioni, compresi i crimini di guerra e contro l’umanità, come risultato della loro azione mistificatoria.
Julien Teil: Avendo studiato a strettissimo contatto con Mathieu i documenti della Corte Penale Internazionale, conosco quelli che sono stati usati come prove; tali documenti riassumono un certo numero di eventi che ci sono stati presentati come reali. In allegato a questi documenti troviamo circa otto tipologie di prove. E’ molto importante notare che tutte le prove che sono state apportate sono classificabili nella seguente maniera: da una parte, ci sono le prove pubbliche che sono nella maggior parte dei casi riportate dai media e ci sono le prove inedite, che sono testimonianze di cui non viene mai ripreso il contenuto. Il documento della Corte Penale Internazionale è composto da 90 pagine e la metà è stata censurata…
Famose testimonianze! Le definiscono prove, laddove sono articoli della stampa legata alla CNN e a Al Jazeera, tra i quali ne spiccava uno di non ricordo quale organo informativo il cui titolo era “I russi intendono installare una base in Libia”; occorre insorgere, se la giustizia internazionale funziona in questo modo e un semplice articolo di stampa riguardante le relazioni internazionali tra due paesi viene consacrato come prova di un crimine contro l’umanità, è una cosa molto grave. A ciò vanno sommate anche le numerose dichiarazioni delle ONG che si occupano di diritti umani e denunciano crimini e violazioni, ma non è possibile considerare i loro rapporti come prove effettive. La testimonianza resa da una ONG finanziata dalla National Endowment for Democracy, che funge da braccio armato della CIA, per favorire l’installazione dei regimi graditi agli Stati Uniti non può essere considerata alla stregua di una prova. Questa propaganda mediatica ammanta con una maschera di legalità ciò che è stato compiuto contro lo Stato libico e i suoi funzionari.

Domanda: C’è da domandarsi se siano rispettati i diritti degli uomini e dei funzionari di Stato nel quartiere di Abou Salim, dal momento che sono stati massacrati assieme a numerosi neri, come si è visto dalle immagini. Cosa pensate di questo comportamento?

Thierry Meyssan: In primo luogo, occorre puntualizzare cosa sia stata la presa di Tripoli. Il rapporto delle forze interne, in Libia, è assai controverso; non abbiamo delle statistiche precise, ma durante gli ultimi mesi i libici hanno indubbiamente accordato un sostegno massiccio al loro governo, cementato dall’assoluta ostilità nei confronti dell’intervento straniero. Tuttavia, gli eventi di cui siamo venuti al corrente riguardano due gruppi principali: da una parte c’era l’opposizione tradizionale tra Cirenaica, regione di Bengasi e resto della Libia. Si potrebbe agevolmente concepire, sulla base di queste differenze regionali, una ripartizione del paese. La tribù di Misurata ha giocato un ruolo particolare poiché è la prima ad essere entrata a Tripoli prima che la battaglia fosse combattuta non dai ribelli, ma dalla coalizione che corrisponde alla NATO e all’esercito del Qatar, che ha svolto le operazioni di terra. Solo a battaglia militare terminata quelli comunemente definiti “ribelli” sono entrati. E’ stata la tribù di Misurata ad aver ottenuto, in passato, i maggiori privilegi in Libia. Tutti concordano nel ritenere che si tratta dell’ultima tribù ad avere qualcosa da rimproverare al regime. I suoi membri hanno un storia che segue una particolare logica: si tratterebbe di ebrei turchi fuggiti dal loro paese e convertiti all’Islam. Quando sono arrivati a Tripoli, essi si sono impadroniti di tutto ciò che hanno trovato. Tutto ciò che potevano requisire hanno requisito; inizialmente si sono dedicati ai saccheggi, poi hanno dato vita a una vera e propria caccia nei confronti dei cittadini di pelle nera, uccidendo tutti quelli che incontravano. Si tratta di un fenomeno radicalmente razzista, che non trova alcun’altra spiegazione. Esistono anche dei documenti in cui si ammette che quella dei mercenari africani al soldo del governo era una falsità utilizzata come pretesto per spiegare il fenomeno razzista. Se c’erano dei neri per strada li si uccideva. L’area boscosa a fianco dell’hotel Rixos in cui ci trovavamo era completamente ricoperta di cadaveri di neri uccisi unicamente per via del colore della loro pelle.
Julien Teil: Allora, io aggiungere qualche cosa in più: Amnesty International, la ONG atlantista che ha tuttavia dimostrato di aver mantenuto un certo livello di obiettività, ha inviato in loco, dal mese di aprile fino a luglio (direttamente da Londra), Donatella Rovera che nel corso di svariate dichiarazioni ai media ha chiaramente spiegato le dinamiche della situazione. Ha riferito che la storia, riportata più volte dai media, dei mercenari di Gheddafi era integralmente inventata. Egli non aveva mai avuto dei mercenari a propria disposizione. Non li ha mai ingaggiati perché godeva di un forte appoggio popolare trasformatosi nei mesi in un immenso volontariato di massa, a Tripoli specialmente, dove ha distribuito circa 2 milioni di armi alla popolazione; questa propaganda serviva, in realtà, a giustificare le azioni dei mercenari di Misurata. E’ una parte della propaganda mediatica. Anche io ho creduto a questa menzogna, per i primi 15 giorni.

Domanda: L’Algeria parla di un documento segreto firmato dal CNT, riguardante un progetto relativo alla cessione del 35% del petrolio alla Francia cui è legato l’assassinio del Generale Younes.

Thierry Meyssan: Non penso affatto. La guerra contro la Libia è stata decisa da 10 anni, per dei motivi che non hanno nulla a che vedere né con il regime politico né con la politica estera portata avanti dal governo di Tripoli. Il primo obiettivo era quello di rimodellare l’assetto geopolitico nordafricano sulla falsariga del “Grande Medio Oriente”. Il secondo obiettivo era quello di installare una base militare statunitense dell’Africom, in modo da garantire agli Stati Uniti, per il secolo a venire, delle risorse petrolifere e da questo punto di vista, si può affermare che questa guerra è una vittoria per coloro che avevano immaginato tutto ciò da un decennio, mentre costituisce un fallimento per tutti gli imbecilli che si solo lasciati imbarcare in questo conflitto senza comprendere che si sarebbero ritrovati macchiati di sangue, senza comprendere nemmeno come. La posizione assunta dalla Francia, in questo ambito, di richiedere una retribuzione in idrocarburi in cambio del contributo reso da Parigi a questo massacro è alquanto grottesca e disgustosa.

Julien Teil: Io aggiungerei che, come abbiamo annunciato, avranno luogo degli eventi il prossimo 17 settembre in Algeria, e dovremo diffidare delle ricostruzioni che ci racconteranno di dirigenti politici che sparano sulla folla; questa volta occorrerà prendere coscienza del fatto che non sarà vero. Noi sappiamo che tra il CNT e il governo algerino si sta instaurando una immensa discorda, e inoltre che tutte le armi che circolano attualmente in Libia sommate a quelle della Francia e del Qatar che passeranno attraverso le solite reti, “AQMI” [Al Qaeda au Maghreb Islamique] in particolare, daranno luogo a un enorme traffico d’armi che transiteranno attraverso l’Algeria. Prevedo che l’Algeria si troverà ad affrontare un futuro molto cupo. Speriamo che gli algerini traggano i debiti insegnamenti dal loro recente passato, e che i 100.000 morti civili caduti nell’arco temporale che si estende dal 1992 al 2002 permettano loro di evitare di cadere nella trappola.

Traduzione di Giacomo Gabellini

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Il rafforzamento dell’alleanza sino-pakistana

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Il legame strategico tra Pechino e Islamabad è sempre più forte. Il tradizionale rapporto diplomatico tra i due paesi si è consolidato recentemente con l’intensificarsi dei legami economici, commerciali, energetici e militari, unitamente all’allontamento pakistano nei confronti degli Stati Uniti. La stabilità dell’alleanza sino-pakistana è però messa alla prova dalle sfide poste dai gruppi armati degli estremisti islamici operanti nello Xinjiang cinese.

 

La crisi dei rapporti tra Stati Uniti e Pakistan degli ultimi mesi ha comportato il rafforzamento dello storico legame esistente tra Islamabad e Pechino. Le relazioni tra i due paesi sono in realtà ottime da circa un trentennio, a differenza di quelle pakistano-statunitensi; il proficuo rapporto diplomatico tra Stati Uniti e Pakistan ha, infatti, ricoperto un ruolo fondamentale nelle rispettive politiche estere durante l’intervento sovietico in Afghanistan tra anni ’70 e ’80, per poi subire un deciso deterioramento all’inizio degli anni ’90. Il rapporto tra Washington e Islamabad è tornato ad essere importante in seguito all’invasione afghana statunitense del 2001, nella quale il Pakistan è stato utilizzato come fondamentale punto d’appoggio per il controllo di Kabul. L’unilaterale bombardamento dei territori nord-occidentali del Pakistan, la crescente ingerenza statunitense nella politica interna pakistana, mediante mezzi militari e servizi d’intelligence, e i comportamenti ambigui pakistani in alcune questioni di primaria importanza hanno comportato un deciso peggioramento delle relazioni tra Stati Uniti e Pakistan. Questo deterioramento ha raggiunto l’apice tra maggio e giugno, in seguito alla rivendicazione statunitense dell’uccisione di Osama Bin Laden in Pakistan.

I sempre più tesi rapporti tra i due paesi sono legati, inoltre, all’avvicinamento statunitense nei confronti dell’India, il quale ha raggiunto il proprio culmine nel 2007, mai così evidente rispetto al passato; l’amminsitrazione Bush e l’attuale governo di Manmohan Singh avevano delle ottime relazioni diplomatiche. Il Pakistan non gradisce, inoltre, il ruolo affidatogli dopo l’invasione statunitense dell’Afghanistan nel 2001, nel quale osserva un pericoloso calo del proprio ascendente strategico su Kabul. L’Afghanistan è tradizionalmente considerato da Islamabad una propria area d’influenza, strategicamente importante nel caso di un conflitto con l’India, poiché visto come territorio di supporto o di ritirata nell’ipotesi di una massiccia invasione del Pakistan dell’esercito di Nuova Delhi.

Il primo paese a difendere il rispetto dell’integrità territoriale di Islamabad in seguito alla notizia della morte di Bin Laden è stata la Cina; visitata poche settimane dopo dal primo ministro Gilani. Il Pakistan avrebbe, inoltre, permesso ai militari cinesi di visionare i resti del velivolo statunitense di tecnologia Stealth impiegato dagli Stati Uniti nel territorio pakistano.

Il legame sino-pakistano rappresenterà un importante elemento delle future relazioni internazionali, in particolar modo nel confronto tra Stati Uniti e Cina, tra quest’ultima e l’India, nonché negli interessi cinesi in Afghanistan e nel più generale contesto del cosiddetto “Nuovo Grande Gioco” in Asia Centrale. Mentre il Pakistan nel corso degli anni ’80 fu un importante alleato degli Stati Uniti durante la guerra sovietica in Afghanistan, fondamentale territorio di transito per i rifornimenti militari destinati ai combattenti anti-sovietici, oggi Islamabad non garantisce, nell’ottica nordamericana, il medesimo contributo per il tentativo statunitense di controllare l’Afghanistan. La relazione con Islamabad rappresenta per gli Stati Uniti un elemento di vitale importanza per i propri interessi a Kabul. Basta considerare l’importanza strategica del paese pakistano, dotato degli unici punti d’accesso via mare per le truppe statunitensi e della NATO e per i rifornimenti militari, nonché territorio di collegamento geostrategico nel cuore dell’Eurasia. Il porto di Karachi è fondamentale per l’arrivo e invio di truppe e materiale bellico, passante poi in territorio pakistano mediante trasporto su strada, giungendo successivamente a Kabul e Kandahar. Gli Stati Uniti stanno ricercando una possibile alternativa ai rifornimenti via Pakistan, data l’insicurezza di Karachi e del confine lungo la linea Durand. Gli altri collegamenti ai porti situati in paesi confinanti con l’Afghanistan, Iran e Cina, sono impraticabili per evidenti motivi politici. Una via d’accesso alternativa è potenzialmente quella passante attraverso le ex-repubbliche sovietiche dell’Asia Centrale: esiste un discorso aperto con l’Uzbekistan, dal quale passerebbero i rifornimenti provenienti dal porto di Riga, in Lettonia, passando per il territorio russo e kazako. Esiste un’altra opzione, probabilmente maggiormente fattibile rispetto a quella precedente, vista la lunghezza del percorso e la possibile inclusione della Russia nell’affare afghano, prospettiva non gradita a Washington. E’ quella attraverso la Georgia, l’Azerbaigian, il Mar Caspio e il Turkmenistan oppure via Kazakistan e Uzbekistan. L’attenzione statunitense nei confronti di Baku, Ashagabat, Astana e Tashkent è in ogni caso in costante aumento.

Negli ultimi mesi è comunque evidente come il Pakistan punti maggiormente ad adottare una politica estera più autonoma nei confronti di Washington, attivandosi, inoltre, nel potenziamento delle relazioni con i vicini, soprattutto con la Cina, ma anche con Iran e Russia.

L’importanza strategica del Pakistan, unito al suo attivismo in politica estera, ha reso il governo del paese molto più convito nel richiedere il termine dei bombardamenti dei droni statunitensi nelle province nord-occidentali. Nel caso in cui ciò non avvenga, il Pakistan è pronto ad adottare una politica ancor più marcatamente filo-cinese, avendo, inoltre, l’appoggio della Cina, critica nei confronti delle azioni statunitensi nel paese. Un ulteriore fattore è legato al termine dell’aiuto economico statunitense, unito al declinare dei rifornimenti militari: il Pakistan guarda anche in questo caso a incrementare i propri legami economici e militari con la Cina.

Un’altra arma spendibile a livello diplomatico dal Pakistan è legata alle risorse energetiche. Lo stretto rapporto con Pechino, oltre ad aumentare l’influenza cinese in Asia Meridionale e Centrale, comporterebbe un’importante vittoria per la Cina nella competizione riguardante l’approvigionamento di petrolio e gas naturale.

La Cina è interessata a investire massicciamente in Pakistan. I punti chiave della strategia energetica sino-pakistana sono rappresentati dal potenziamento del porto di Gwadar, dalla quale possono passare i gasdotti e oleodotti provenienti dall’Iran. I progetti d’investimento cinese nel paese sono legati alla realizzazione del gasdotto IP, al quale potrebbe partecipare in sostituzione dell’India, con evidenti vantaggi in termini economici per il Pakistan grazie ai diritti di transito. La Cina è interessata al potenziamento di infrastrutture, strade e ferrovie pakistane, unitamente alla costruzione dei collegamenti per il petrolio e il gas naturale lungo il territorio pakistano partendo dalla città beluca per arrivare al Gilgit-Baltistan. I progetti sino-pakistani sono legati al potenziamento degli assi viari che assieme alle pipeline collegherebbero il Pakistan allo Xinjiang. A questo proposito sono in progetto la costruzione di diversi collegamenti stradali e ferroviari tra Kashgar e Abbotabad, e tra la città dello Xinjiang e Havelian. Un ulteriore collegamento tra i due paesi lungo confine è quello delle fibre ottiche, mentre il più importante e ambizioso progetto caratterizzante la cooperazione sino-pakistana è il collegamento stradale, ferroviario ed energetico tra Gwadar e Urumqi.

La recente visita di Gilani a Pechino si è conclusa con la firma di importanti accordi commerciali, finanziari e tecnologici, seguito dei colloqui del dicembre 2010, nei quali erano previsti il potenziamento della cooperazione in diversi settori: energia, sistema bancario, tecnologia, costruzione, difesa e sicurezza. Il crescente legame economico tra Pechino e Islamabad è unito alla tradizionale e comune avversione verso l’India, la quale può essere ostacolata nella sua ascesa in Asia Meridionale dall’azione comune dei due paesi asiatici. La Cina aiutò militarmente il Pakistan in seguito alla guerra sino-indiana del 1962, così come fornì la tecnologia nucleare al paese dopo che l’India nel 1974 iniziò i suoi primi test nucleari. Tra gli anni ’80 e ’90 la Cina ha stabilito un’alleanza militare e nucleare con Islamabad, ancora oggi molto forte. Più del 40% delle esportazioni militari cinesi sono destinate al Pakistan. I due paesi hanno in progetto la produzione congiunta degli aerei da combattimento JF-17 Thunder (FC-1 Fierce in Cina). Durante il mese di marzo 2011 si è svolta un’importante esercitazione aereonautica tra la Pakistan Air Force (PAF) e la People’s Liberation Army Force (PLAFF) denominata Shaheen 1 (in urdu significa aquila). Si tratta della prima manovra militare tra PAF e PLAFF, alla quale si aggiungeranno nel corso del 2011 delle esercitazioni tra il PLA e l’esercito pakistano. Un simile legame militare tra i due paesi, oltre ad essere un importante fattore all’interno degli equilibri asiatici, dimostra come oggi la Cina possa agire molto più attivamente rispetto al passato in uno Stato considerato strategico per gli Stati Uniti per la propria politica in Afghanistan, ma anche in Asia Meridionale. Dato il lento declino economico statunitense, il Pakistan ha individuato nella Cina un’alternativa importante, la quale, a differenza di Washington, è in costante ascesa economica e militare. La cooperazione militare sino-pakistana è valutata da Islamabad e Pechino anche come una forma di bilanciamento nell’area nei confronti delle simili politiche militari adottate da Russia e India.

Inoltre, mentre gli Stati Uniti premono sul Pakistan per il proprio arsenale nucleare, la Cina rappresenta un’importante fonte di tecnologia in questo settore. A questo proposito Pechino sarebbe intenzionata a finanziare i progetti di costruzione per nuovi reattori nucleari in Pakistan.

Per quanto riguarda un fattore negativo legato alle relazioni tra Cina e Pakistan, è possibile fare riferimento all’attuale situazione dello Xinjiang. La regione cinese è un’area ricca di gas e petrolio, confinante con le repubbliche centro-asiatiche e con una considerevole presenza di abitanti di religione musulmana. Il territorio è attraversato da decenni dalla spinta indipendentista degli uiguri. La Cina ha sostenuto che i responsabili degli attentati avvenuti nello Xinjiang poche settimane fa sono estremisti islamici dello East Turkestan Islamic Movement (ETIM) o Turkistani Islamic Party (TIP) provenienti da campi d’addestramento situati nelle zone tribali del Pakistan. L’ETIM ha legami con la rete Haqqani e con il Tehrik – e – Taliban Pakistan (TTP). L’accusa cinese di simili resposabilità pakistane per le violenze degli uiguri rappresentano un campanello d’allarme per Islamabad. Secondo l’intelligence pakistana la Cina starebbe premendo il Pakistan affinché crei delle basi militari nelle aree tribali in modo da controllare la possibile azione degli estremisti e il loro successivo sconfinamento in territorio cinese. La Cina avrebbe anche intenzione di inviare delle proprie truppe nelle FATA e nella Khyber Pakhtunkhwa, senza comunque l’intenzione di creare delle basi militari permanenti. Sarà da valutare come gli Stati Uniti considereranno la possibile presenza militare cinese in Pakistan.

I media cinesi hanno criticano significativamente le autorità pakistane per l’incapacità dell’esercito di controllare le aree tribali del paese. Il quotidiano pakistano “Dawn” ha sostenuto come gli attentati possano portare a della conseguenze negative nelle relazioni bilaterali tra Islambad e Pechino, comportando delle serie ripercussioni soprattutto per il Pakistan. Allo stesso modo l’incapacità di Islamabad nel prevenire l’azione dei terroristi può risultare controproducente per la potenziale cooperazione sino-pakistana in Afghanistan. Una possibile azione congiunta delle autorità pakistane assieme a quelle cinesi potrebbe garantire, invece, nell’ottica di Pechino, un possibile miglioramento della condizione delle aree nord-occidentali del Pakistan, avendo come conseguenza dei possibili benifici per la situazione dello Xinjiang. Una condizione importante per la Cina è rappresentata dal contemporaneo termine dei bombardamenti statunitensi nell’area, i quali possono fomentare l’estremismo islamico. Senza dubbio la cooperazione tra Islamabad e Pechino nelle FATA e nella Khyber Pakhtunkhwa renderà ancora più evidente lo stretto legame sino-pakistano, foriero di interessanti conseguenze nel contesto dell’attuale competizione in corso nella regione.

*Francesco Brunello Zanitti, Dottore in Storia della società e della cultura contemporanea (Università di Trieste). Ricercatore dell’IsAG per l’area Asia Meridionale, è autore del libro Progetti di egemonia (Edizioni all’Insegna del Veltro, Parma 2011). In “Eurasia” ha pubblicato Neoconservatorismo americano e neorevisionismo israeliano: un confronto (nr. 3/2010, pp. 109-121).

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I risvolti geopolitici delle violenze etniche a Karachi

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Il Pakistan è scosso da una considerevole spirale di violenza. Ai bombardamenti statunitensi lungo il confine con l’Afghanistan si sono aggiunti gli scontri etnici nelle province del Belucistan e del Sindh. Per quanto riguarda quest’ultima regione, il carattere d’indiscriminata conflittualità contraddistingue soprattutto la sua capitale, Karachi. L’estrema violenza caratterizzante la città potrebbe comportare delle conseguenze imprevedibili per l’intero Pakistan, mettendo in seria discussione l’unità e l’intregrità territoriale del paese. La conflittualità interna è strettamente connessa agli interessi dei paesi limitrofi e degli Stati Uniti, con potenziali ripercussioni anche per l’Afghanistan.

 

Karachi rappresenta il centro urbano e portuale economicamente più importante del Pakistan. La città è il traino dell’industria, del commercio e delle comunicazioni, in particolar modo per quanto riguarda i settori tessile e automobilistico, l’editoria, l’informatica e la ricerca medica. Il centro urbano è, inoltre, un fondamentale nodo geostrategico affacciato sul Mar Arabico. Data l’importanza economica di Karachi, già florido centro prima della nascita del Pakistan, la capitale del Sindh ha attirato nel corso degli ultimi due secoli un gran numero di migranti provenienti da diverse aree del Subcontinente, trasformandosi in una città multietnica e multilinguistica. Nella città, prima del 1947, convivevano diverse etnie, attirate dalle possibilità commerciali; erano presenti differenti comunità religiose, principalmente musulmani, hindu, parsi e cristiani. Karachi e il Sindh intero, in seguito alla partizione tra India e Pakistan, sono stati contraddistinti da una massiccia migrazione di musulmani provenienti dall’India, demominati mohajirs e di lingua urdu (mohajirs in urdu significa “migrante”). Rispetto ad altre aree del Pakistan, nel Sindh la migrazione urdu è stata più evidente ed ha generato una situazione di maggiore criticità. Mentre nelle restanti zone del paese la minoranza dei mohajirs è stata assimilata perché il suo numero era inferiore rispetto alla popolazione autoctona, nel Sindh, molto più vicino geograficamente all’India, i nuovi arrivati di lingua urdu superarono numericamente le etnie locali, modificando considerevolmente il carattere etnico della provincia.

Una delle cause scatenanti l’attuale stato di violenza della città è da ricercare nel composito carattere etnico del Sindh, complicato a partire dal 1947. La conflittualità tra etnie a Karachi e nella regione circostante non è, infatti, un problema che caratterizza il Pakistan da pochi anni, ma è invero una situazione perdurante da decenni. Tra gli anni ’50 e ’80 la regione era contraddistinta in particolare dagli scontri tra la popolazione di lingua urdu, rappresentanti solitamente la classe urbana, commerciale e maggiormente istruita della provincia, e i sindhi, gruppo etnico per la maggior parte dei casi rurale e meno istruito, trasformatosi minoranza nel proprio territorio storico. Gli scontri vennero, inoltre, utilizzati a seconda dei mutevoli interessi delle autorità centrali di Islamabad, tradizionalmente intenti a privilegiare l’etnia punjabi. La presenza a Karachi dei mohajirs è, inoltre, considerevolmente aumentata a partire dal 1971, in seguito alla migrazione di ulteriori gruppi musulmani di lingua urdu provenienti dall’ex Pakistan orientale dopo l’indipendenza del Bangladesh.

 

I motivi degli scontri etnici a Karachi e le possibili conseguenze per l’integrità territoriale del Pakistan

 

Le violenze quotidiane che hanno trasformato Karachi in un pericoloso centro, teatro di scontro tra bande, mafie locali e gruppi armati artefici di rapimenti, estorsioni ed esecuzioni sommarie, è dovuto principalmente alla conflittualità tra i mohajirs e i pashtun, questi ultimi di recente immigrazione. Il nesso tra criminalità e politica è molto forte, mentre le forze di sicurezza locali e le autorità centrali di Islamabad non sono in grado, per il momento, di riportare la città in una situazione di normalità. I partiti politici più importanti di Karachi, il Muttahida Quami Movement (MQM) rappresentante gli urdu, 45% della città, e l’Awami National Party (ANP), partito della minoranza pashtun, 25% degli abitanti di Karachi, si accusano a vicenda per la responsabilità delle violenze; i due gruppi politici, assieme al partito nazionale e governativo del Pakistan People’s Party (PPP), che a Karachi rappresenta gli interessi sindhi, sono i diretti responsabili delle violenze. Queste sono esplose soprattutto a partire dal 27 giugno, quando l’MQM decise di uscire dalla coalizione di governo del Sindh per l’avversione nei confronti dell’ANP e per incompresioni politiche con il governo nazionale di Islamabad guidato dal PPP. Il carattere etnico della città è complicato ulteriormente dalla presenza di altre minoranze, in particolare balochi, punjabi, kashmiri, saraiki e numerose altri gruppi etnici. A Karachi è presente anche una minoranza sciita, la quale si è sovente scontrata con la maggioranza sunnita. I sindhi, 60% della popolazione di Karachi nel 1947, oggi rappresentano il 7% della città.

La massiccia presenza pashtun a Karachi è recente ed è dovuta soprattutto alla considerevole migrazione verso sud delle popolazioni provenienti dalle regioni settentrionali del Pakistan, soprattutto dalla provincia di Khyber Pakhtunkhwa e dalle Federally Administered Tribal Areas (FATA), ma anche dall’Afghanistan; le migrazioni sono state causate dall’invasione sovietica del 1979, da quella USA nel 2011 e dai bombardamenti statunitensi lungo la linea Durand. Le recenti migrazioni di pashtun, ma anche di tagiki, hazara, turkmeni e uzbeki provenienti dall’Afghanistan, hanno modificato considerevolmente il carattere etnico di Karachi, la quale unitamente alle violenze tra urdu e sindhi, è diventata teatro di scontri tra urdu e pashtun, e tra questi ultimi e i sindhi. Senza dimenticare i punjabi, rappresentanti gli interessi dei militari e delle autorità centrali pakistane, attente a favorire una o l’altra etnia a seconda delle circostanze politiche. La recente storia del paese è caratterizzata da questa particolare linea di politica interna.

L’attuale importanza dell’MQM, terzo gruppo politico a livello nazionale, è derivata, infatti, dall’azione governativa del regime di Zia ul-Haq tra anni ’70 e ‘80. Avendo come fine l’indebolimento del PPP e del suo capo, Zulfiqar Ali Bhutto, di etnia sindhi e il cui governo venne rovesciato proprio da Zia, il generale favorì la nascita e il consolidamento politico del partito urdu. L’MQM si rafforzò nel corso degli anni ’80, trasformandosi in un’importante forza di equilibrio nel panorama politico pakistano, alleandosi, a seconda delle circostanze, con il PPP o con la conservatrice Pakistan Muslim League (PML). Dopo il crollo di Zia, l’ISI accusò l’MQM di essere una forza cospirativa filo-indiana, finanziata dai servizi segreti di Nuova Delhi e avente come obiettivo primario la creazione di uno Stato autonomo di lingua urdu, il Jinnahpur con Karachi capitale. Durante gli anni ’90, infatti, l’MQM ha subito una violenta repressione da parte del governo centrale di Islamabad, in particolar modo quando salirono al potere Nawaz Sharif (PML-N) e Benazir Bhutto (PPP). Il partito degli urdu contò invece sull’appoggio del generale Pervez Musharraf, anch’esso di etnia mohajirs. Nell’ultimo decennio, infatti, l’MQM ha registrato una considerevole espansione, aumentando la propria influenza nell’intero paese, ma soprattutto in Punjab, cuore politico e militare del Pakistan. Diversi analisti sostengono il fatto che l’MQM possa contare attualmente sul decisivo appoggio dell’apparato militare pakistano e dell’ISI, vicini all’etnia punjabi, in modo da poter controbilanciare l’influenza pashtun nel Sindh, ma soprattutto nell’intero Pakistan.

Le violenze a Karachi sono dunque legate alla complicata situazione della politica interna pakistana, ricalcante le differenze etnico-linguistiche del paese. La forza politica dell’MQM non è attualmente riscontrabile solo nella città portuale, ma è evidente nell’intero paese. In questa fase politica è necessario per gli altri partiti, soprattutto per il PPP, scendere a patti con l’MQM, il quale si è trasformato in un indispensabile partito, garante del mantenimento dell’equilibrio politico del Pakistan. A Karachi le violenze sono aumentate in seguito all’abbandono da parte dell’MQM del governo federale del Sindh: i mohajirs accusano Zardari e il PPP di essere troppo vicini all’ANP. Lo scontro tra MQM e governo centrale è legato anche ai recenti arresti di attivisti mohajirs di Karachi accusati di terrorismo.

Una spiegazione delle violenze che stanno attraversando Karachi è connessa certamente alle migrazioni di popolazione pashtun nella città. Non si tratta solamente di un problema sociale ed economico, per l’evidente accresciuta competizione tra etnie diverse nella ricerca di lavoro e nell’acquisto di terre. Una questione fondamentale riguarda una problematica di tipo politico, ovvero quale gruppo etnico assumerà il controllo di Karachi, la città economicamente più importante del Pakistan che garantisce il 68% delle entrate nazionali. Le preoccupazioni dei diversi gruppi etnici sono evidenti: gli abitanti di lingua urdu temono la “talebanizzazione” della città ad opera della minoranza pashtun; questi ultimi denunciano l’eccessiva violenza dei mohajirs; i sindhi osservano negativamente sia i pashtun sia i mohajirs. Tutti e tre i gruppi etnici maggioritari di Karachi accusano il governo centrale di Islamabad di privilegiare l’etnia punjabi, favorendo lo sviluppo del solo Punjab a discapito degli altri territori dello Stato.

Le violenze fra etnie, fomentate dall’MQM, dall’ANP e dal PPP, possono portare a della serie conseguenze non solo per la città, ma anche per il resto del paese, generando una potenziale situazione d’instabilità. Se si pensa all’attuale situazione del Belucistan, tale scenario non sembra lontano dalla realtà. Di fondamentale importanza sono i risvolti geopolitici connessi alla stabilizzazione del paese e l’azione che intraprenderanno i diversi attori internazionali attenti alle sorti del Pakistan e dell’Afghanistan.

 

I collegamenti internazionali delle violenze a Karachi e nel Pakistan

 

Secondo l’ottica pakistana, una delle cause della situazione di completa anarchia e settarismo di Karachi deriva dall’appoggio esterno alle diverse fazioni in lotta. Questo sarebbe garantito in primo luogo dall’India, ma anche da Stati Uniti e Israele. Una delle spiegazioni offerte dal governo nel passato per descrivere la conflittualità del Sindh, ripresa recentemente, è connessa all’azione svolta da attori esterni, i quali aizzano le diverse etnie del paese una contro l’altra, in modo da favorire la destabilizzazione e lo smembramento del Pakistan.

La situazione in Belucistan, zona ricca di gas naturale e minerali, ma molto povera, è particolarmente tesa. Secondo Islamabad, i servizi segreti dell’India appoggerebbero le spinte indipendentiste dei beluci e le violenze anti-punjabi. Il Belucistan è teatro, inoltre, del violento scontro tra governo centrale e movimenti sciiti della regione. Secondo la visuale pakistana, oltre ai servizi segreti indiani, agirebbero in Belucistan la CIA e l’MI6 britannico, i quali fomenterebbero le azioni anti-governative dei beluci. Il Pakistan guarda con sospetto all’attivismo indiano nella città iraniana di Chabahar, anch’essa beluca. L’azione statunitense potrebbe avere dei chiari risvolti negativi per gli interessi cinesi nell’area e per l’Iran, dato l’indipendentismo beluco presente nella provincia iraniana del Sistan-Belucistan.

Sempre secondo Islamabad, la RAW indiana, il Mossad e la CIA favorirebbero il traffico illegale di armi nell’emporio di Karachi, la cui zona portuale è controllata dall’MQM. All’indomani della visita di Karzai e Zardari a Tehran lo scorso giugno, il ministro degli interni pakistano Rehman Malik ha riferito pubblicamente alla stampa del ritrovamento di armi di fabbricazione israeliana a Karachi.

Il Pakistan, se da una parte ha visto deteriorarsi i propri legami con gli Stati Uniti, ha migliorato i propri rapporti con l’Iran, testimoniati concretamente dal possibile avvio dei lavori in territorio pakistano del gasdotto di collegamento tra Tehran e Islamabad. L’Arabia Saudita osserva con particolare preoccupazione l’avvicinamento tra i due paesi, foriero di una pericolosa messa in discussione del teorema dell’inevitabile scontro e competizione tra sunniti e sciiti nel mondo musulmano. Un problema comunque di primo piano da risolvere nel dialogo iraniano-pakistano sarà legato al finanziamento del gruppo terroristico Jandullah, il quale opera nel Sistan-Belucistan e, secondo l’Iran, ha legami diretti con l’ISI. L’Iran ha sospetti anche sull’Afghanistan, mentre la stessa Islamabad ritiene che ci siano dei collegamenti tra Tehran e l’indipendentismo beluco in Pakistan. Islamabad ha, inoltre, intensificato i propri rapporti con la Cina. In questo modo il governo pakistano, legandosi maggiormente a Tehran e Pechino, sta aumentando considerevolmente il proprio potere negoziale nei confronti degli Stati Uniti. Un altro fattore da considerare è, inoltre, il crescente interesse di Russia, Iran e Cina per la questione afghana. Gli Stati Uniti guardano naturalmente con estremo interesse l’evolversi della situazione interna del Pakistan, un paese del quale non possono fare a meno per la propria strategia in Afghanistan. Vista la recente intenzione di mantenere una base militare a Kabul fino al 2024 è necessario, nell’ottica statunitense, sostenere un dialogo con i talebani, i quali non appaiono comunque troppo favorevoli alla presenza di truppe nordamericane in Afghanistan; del medesimo parere sono Russia, Cina, Pakistan e Iran. Islamabad, possibile canale privilegiato per il dialogo con i talebani, diventa dunque fondamentale per l’azione statunitense in Afghanistan, data anche l’attuale debolezza politica di Karzai.

La destabilizzazione del Pakistan e il suo potenziale controllo si collegano alle recenti violenze di Karachi, connesse a una strategia volta al favorire lo smembramento del paese asiatico discussa in diversi think tank nordamericani (vedi l’articolo http://www.eurasia-rivista.org/gwadar-la-competizione-sino-statunitense-e-lo-smembramento-del-pakistan/9828/). Tutto ciò è collegabile alla notizia secondo la quale gli Stati Uniti avrebbero come obiettivo il controllo diretto dell’arsenale nucleare pakistano, alle richieste di Islamabad di poter disporre del diritto di veto per gli unilaterali bombardamenti statunitensi sul proprio territorio e alle schermaglie tra CIA e ISI, con l’insolito avvicendarsi nel giro di pochi mesi di tre diversi capi del servizio segreto statunitense a Islamabad. Se da una parte, inoltre, gli Stati Uniti vogliono ricercare un dialogo con i talebani, dall’altro lato non si curano dei bombardamenti nei confronti di quei gruppi che hanno già raggiunto una pacificazione con il Pakistan, ma che operano in Afghanistan, vedi la rete Haqqani, con possibili ripercussioni negative per la sicurezza interna di Islamabad. Un’altra fondamentale questione riguarda il temine degli aiuti finanziari di Washington nei confronti del Pakistan, uniti alla crisi finanziaria e all’impossibilità da parte degli Stati Uniti di mantenere un costoso apparato militare in Afghanistan, vista anche l’attenzione crescente per il Vicino Oriente e il Nord Africa. Resta da capire se le strategie sul Pakistan discusse nei think tank statunitensi verranno concretamente messe in azione. Sta di fatto che un’interpretazione dell’attuale fase critica del Pakistan è connessa al teatro afghano, poiché il carattere di estrema precarietà del paese può essere valutato come una diretta conseguenza dell’invasione e destabilizzazione dell’Afghanistan, propagatasi successivamente in territorio pakistano. Il collasso del sistema statale è concretamente in atto lungo il confine tra i due paesi e le migrazioni dei pashtun verso Karachi degli ultimi anni rendono la situazione della città e del paese in generale sempre più complicata.

E’ da valutare, inoltre, quanto le violenze a Karachi possano favorire gli interessi statunitensi, vista la sua posizione strategica come unico porto in grado di supportare le truppe NATO in Afghanistan. Kabul non ha collegamenti via mare e risulta essenziale l’attenzione nordamericana su Karachi, importante porto sul Mar Arabico e attualmente punto strategico per il riformimento di mezzi e truppe via mare da indirizzare in Afghanistan. Nell’emporio di Karachi si può individuare un ulteriore elemento che testimonia l’importanza del Pakistan per gli Stati Uniti. Collegato alla questione della città e alle sue minoranze, saranno da valutare anche gli impatti sull’etnia pashtun del potenziale dialogo che potrebbe stabilirsi tra i talebani e gli Stati Uniti, così come il ruolo che ricoprirà il Pakistan nei colloqui.

Dialogo valutato negativamente dall’India e dall’Iran. Per quanto riguarda Nuova Delhi è da valutare quanto convenga all’India fomentare l’indipendentismo delle minoranze etniche presenti in Pakistan. La destabilizzazione dell’Afghanistan, avvenuta a partire dal 2001, con la successiva caotica situazione pakistana, non è detto che non si espanda anche in India. Se da una parte, con l’annichilimento del Pakistan si conorerebbe il sogno della definitiva sconfitta del nemico, da una diversa prospettiva tutto ciò potrebbe comportare delle serie ripercussioni per l’autonomismo e l’indipendentismo di vaste aree interne del paese, soprattutto in Kashmir e nel nord-est indiano. Se da una parte gli Stati Uniti hanno come obiettivo il caos per poi controllare la situazione, sembra che recentemente Nuova Delhi stia addontando una politica più accorta nei confronti del Pakistan.

 

*Francesco Brunello Zanitti, Dottore in Storia della società e della cultura contemporanea (Università di Trieste). Ricercatore dell’ISaG per l’area Asia Meridionale, è autore del libro Progetti di egemonia (Edizioni all’Insegna del Veltro, Parma 2011). In “Eurasia” ha pubblicato Neoconservatorismo americano e neorevisionismo israeliano: un confronto (nr. 3/2010, pp. 109-121).

 

 

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Come al-Qaida è arrivata al potere a Tripoli

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Font: Réseau Voltaire Beirut (Libano), 6 Settembre 2011

Réseau Voltaire ha ricevuto molte lettere da lettori che chiedono di al-Qaida in Libia. Al fine di rispondere, Thierry Meyssan ha riunito i principali elementi noti di questo dossier. Questi fatti confermano la sua analisi, sviluppata dall’11 settembre 2001, che al-Qaida sia composta da mercenari utilizzati dagli Stati Uniti per combattere in Afghanistan, Bosnia, Cecenia, Kosovo, Iraq e ora in Libia, Siria e Yemen.

Il leader storico di al-Qaida in Libia, Abdelhakim Belhadj, è divenuto il governatore militare della Tripoli “liberata” ed è il responsabile dell’organizzazione dell’esercito della “nuova Libia“.

Negli anni ’80, la CIA ha incoraggiato Awatha al-Zuwawi a creare una fucina in Libia per reclutare mercenari e inviarli nella jihad contro i sovietici, in Afghanistan. Dal 1986 le reclute libiche vengono addestrate nel campo di Salman al-Farsi (in Pakistan), sotto l’autorità del miliardario anti-comunista Usama bin Ladin.
Quando bin Ladin si trasferì in Sudan, i jihadisti libici lo seguirono. Furono raggruppati in un loro compound. Dal 1994, Usama bin Ladin inviò dei jihadisti libici nel loro paese, a uccidere Muammar Gheddafi e a rovesciare la Jamahiriya popolare socialista. 

Il 18 ottobre 1995, il gruppo si struttura sotto il nome di Gruppo Islamico Combattente in Libia (LIFG). Nei tre anni successivi, il LIFG ha cercato per quattro volte di assassinare Muammar Gheddafi e di stabilire la guerriglia nelle montagne del sud. A seguito di tali operazioni, l’esercito libico, sotto il comando del generale Abdel Fattah Younis, condusse una campagna per sradicare la guerriglia, e la giustizia libica lanciò un mandato di arresto contro Usama bin Ladin, diffuso dal 1998 dall’Interpol.

Secondo l’agente del controspionaggio del Regno Unito David Shayler, lo sviluppo del LIFG e il primo tentativo di assassinio di Gheddafi da parte di al-Qaida, furono finanziate con la somma di 100.000 sterline dall’MI6 britannico [1]. All’epoca, la Libia era l’unico stato al mondo a ricercare Usama bin Ladin, che ancora disponeva ufficialmente del sostegno politico degli Stati Uniti, anche se aveva contestato l’operazione “Desert Storm“.

Sotto la pressione di Tripoli, Hassan al-Turabi espulse i jihadisti libici dal Sudan. Spostarono le loro infrastrutture in Afghanistan, insediandosi nel campo di Shahid Shaykh Abu Yahya (appena a nord di Kabul). Tale installazione durerà fino all’estate del 2001, quando i negoziati a Berlino tra Stati Uniti ed i taliban, per il gasdotto transafgano, fallirono. A quel tempo, il mullah Omar, che si stava preparando all’invasione anglo-sassone, chiese che il campo venisse posto sotto il suo controllo diretto.

Il 6 ottobre 2001 il LIFG è nella lista stilata dal Comitato di applicazione della risoluzione 1267 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. C’è tuttora. L’8 dicembre 2004, il LIFG era nella lista delle organizzazioni terroristiche del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti. C’è ancora. Il 10 Ottobre 2005, il Dipartimento degli Interni britannico interdiva il LIFG dal suo territorio. Questa misura è ancora valida. Il 7 Febbraio 2006, le Nazioni Unite sanzionavano cinque membri del LIFG e quattro società ad essa collegate, che continuano ad operare impunemente nel territorio del Regno Unito, sotto la protezione dell’MI6.

Durante la “guerra contro il terrore“, il movimento jihadista si organizza. Il termine “al-Qaida“, che originariamente indicava il grande database in cui Usama bin Ladin sceglieva i mercenari di cui aveva bisogno per missioni specifiche, diventa gradualmente un piccolo gruppo. Le sue dimensioni diminuiscono, a mano a mano che viene strutturato.

Il 6 marzo 2004, il nuovo leader del LIFG, Abdelhakim Belhadj, che ha combattuto in Afghanistan al fianco di Usama bin Ladin [2] e in Iraq, vien arrestato in Malesia e poi trasferito in una prigione segreta della CIA, in Thailandia, dove è sottoposto al siero della verità e alla tortura. A seguito di un accordo tra gli Stati Uniti e la Libia, venne rispedito in Libia dove fu torturato da agenti inglesi, ma questa volta nella prigione di Abu Salim.

Il 26 giugno 2005, le agenzie di intelligence occidentali organizzano a Londra una riunione dei dissidenti libici. Formano la “Conferenza nazionale dell’opposizione libica” unendo tre fazioni islamiche: la Fratellanza mussulmana, la Confraternita dei Senoussi e il LIFG. Il loro manifesto fissa tre obiettivi:
– rovesciare Muammar Gheddafi;
– esercitare il potere per un anno (sotto la denominazione “Consiglio nazionale di transizione“);
– ripristinare la monarchia costituzionale nella sua forma del 1951 e rendere l’Islam la religione di Stato.

Nel luglio 2005, Abu al-Laith al-Liby riesce, contro ogni probabilità, a fuggire dal carcere di massima sicurezza di Bagram (Afghanistan) e a divenire uno dei leader di al-Qaida. Chiama i jihadisti del LIFG che non hanno ancora raggiunto al-Qaida in Iraq. I libici diventano la maggioranza dei kamikaze di al-Qaida in Iraq [3]. Nel febbraio 2007, al-Liby condusse un attacco spettacolare contro la base di Bagram, mentre il vicepresidente Dick Cheney si appresta a visitarla. Nel novembre 2007, Ayman al-Zawahiri e Abu al-Laith al-Liby annunciano la fusione del LIFG con al-Qaida.

Abu al-Laith al-Liby divenne il vice di Ayman al-Zawahiri, e a tal titolo il numero 2 di al-Qaida, in quanto non si avevano notizie di Usama bin Ladin. Fu ucciso da un drone della CIA in Waziristan, alla fine del gennaio 2008. Durante il periodo 2008-2010, Saif al-Islam Gheddafi negoziò una tregua tra i libici e il LIFG. Pubblicò un lungo documento, ‘Gli studi riparatori’, in cui ammette di aver commesso un errore nel fare appello alla jihad contro i fratelli musulmani, in un paese musulmano. In tre ondate, tutti i membri di al-Qaida sono graziati e rilasciati alla sola condizione che rinuncino per iscritto alla violenza. Su 1800 jihadisti, oltre un centinaio rifiutano l’accordo e preferiscono rimanere in carcere.

 

Dopo il suo rilascio, Abdelhakim Belhadj lascia la Libia e si trasferisce in Qatar. 

Nei primi mesi del 2011, il principe Bandar Bin Sultan intraprende una serie di viaggi per rilanciare al-Qaida espandendone il reclutamento, fino ad ora quasi esclusivamente tra gli arabi, ai musulmani dell’Asia centrale e del sud-est. Uffici di reclutamento vengono aperti in Malesia [4]. Il miglior risultato si ottiene a Mazar-i-Sharif, dove più di 1.500 afgani vengono impegnati nella jihad in Libia, Siria e Yemen [5]. In poche settimane, al-Qaida, che era solo un piccolo gruppo moribondo, può allineare più di 10.000 uomini. Questo reclutamento è ancora più facile, poiché i jihadisti sono i mercenari più economici sul mercato.

Il 17 Febbraio 2011, la “Conferenza Nazionale dell’opposizione libica” organizza il “giorno della collera” a Bengasi, che segna l’inizio della guerra.

Il 23 febbraio l’Imam Abdelkarim al-Hasadi annuncia la creazione di un emirato islamico a Derna, la città più fondamentalista della Libia, da cui proviene la maggior parte dei kamikaze jihadisti di al-Qaida in Iraq. Al-Hasadi è un membro di lunga data del LIFG, ed è stato torturato dagli statunitensi a Guantanamo [6]. Il burqa è obbligatorio e le punizioni corporali vengono ripristinate. L’emiro al-Hasidi organizza un proprio esercito, che nasce con alcune decine di jihadisti e che presto ne raggruppa più di mille.

Il Generale Carter Ham, comandante di Africom, incaricato di coordinare le operazioni alleate in Libia, ha espresso le sue preoccupazioni per la presenza tra i ribelli, che gli viene chiesto di difendere, di jihadisti di al-Qaida che hanno ucciso soldati statunitensi in Afghanistan e in Iraq. Fu sollevato dalla sua missione, che venne affidata alla NATO.

In tutta la Cirenaica “liberata”, gli uomini di al-Qaida diffondono il terrore, massacrano e torturano. Sono specializzati nel tagliare la gola ai gheddafisti, a cavare occhi e tagliare i seni delle donne impudiche. L’avvocato della Jamahiriya, Marcel Ceccaldi, accusa la NATO di “complicità in crimini di guerra”.

Il 1° maggio 2011, Barack Obama annuncia che ad Abbottabad (Pakistan), sei commando dei Navy Seal hanno eliminato Usama bin Ladin, di cui si era senza notizie credibili da quasi 10 anni. Questo annuncio permette di chiudere il dossier al-Qaida e di rinnovare il look dei jihadisti quali nuovi alleati degli Stati Uniti, come ai bei vecchi tempi delle guerre in Afghanistan, Bosnia, Cecenia e Kosovo [7]. Il 6 agosto, tutti i sei membri del commando dei Navy Seal muoiono nella caduta del loro elicottero.

Abdelhakim Belhadj torna nel suo paese su un aereo militare del Qatar, all’inizio dell’intervento della NATO. Ha preso il comando degli uomini di al-Qaida nelle montagne del Jebel Nefusa. Secondo il figlio del generale Abdel Fattah Younis, è lui che ha sponsorizzando l’omicidio, il 28 luglio 2011, del suo vecchio nemico, che era diventato il capo militare del Consiglio di Transizione Nazionale. Dopo la caduta di Tripoli, Abdelhakim Belhadj apre le porte del carcere di Abu Salim, rilasciando gli ultimi jihadisti di al-Qaida che vi erano detenuti. Viene nominato governatore militare di Tripoli. Pretende le scuse dalla CIA e dall’MI6 per il trattamento che gli hanno inflitto in passato [8]. Il Consiglio nazionale di transizione l’incarica di addestrare l’esercito della nuova Libia. <

Thierry Meyssan

[1] «David Shayler: “J’ai quitté les services secrets britanniques lorsque le MI6 a décidé de financer des associés d’Oussama Ben Laden“», Réseau Voltaire, 18 novembre 2005.

[2] «Libya’s Powerful Islamist Leader», Babak Dehghanpisheh, The Daily Beast, 2 settembre 2011.

[3] «Ennemis de l’OTAN en Irak et en Afghanistan, alliés en Libye», Webster G. Tarpley, Réseau Voltaire, 21 maggio 2011.

[4] “La Contro-rivoluzione in Medio Oriente“, di Thierry Meyssan, Réseau Voltaire, 11 maggio 2011.

[5] «CIA recruits 1,500 from Mazar-e-Sharif to fight in Libya», Azhar Masood, The Nation (Pakistan), 31 agosto, 2011.

[6] «Noi ribelli, islamici e tolleranti», reportage di Roberto Bongiorni, Il Sole 24 Ore, 22 marzo 2011.

[7] “Riflessioni sulla annuncio ufficiale della morte di Osama bin Laden“, Thierry Meyssan, Réseau Voltaire, 4 maggio 2011.

[8] «Libyan commander demands apology over MI6 and CIA plot», Martin Chulov, Nick Hopkins e Richard Norton-Taylor, The Guardian, 4 settembre 2011.

Traduzione di Alessandro Lattanzio

 

http://www.aurora03.da.ru

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Chi crede nell’autarchia nordamericana?

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Quando nel 2009 la Berkshire Hathaway Inc ha acquisito la Burlington Northern Santa Fe Corp. per 44 miliardi di dollari il mondo della finanza si è interrogato sulle reali intenzioni di Warren Buffet. Le ferrovie americane hanno perso smalto, nel tempo. Soppiantate dalle piu’ veloci compagnie aeree per il trasporto di persone, con linee lente e manutenzione ridotta al minimo, le ferrovie sono spesso considerate una vestigia del passato. I nuovi progetti dell’amministrazione Obama per rilanciare le ferrovie con corridoi ad alta velocità, a causa della crisi, hanno sempre più spesso l’aspetto di slogan politici, da rispolverare di tanto in tanto a qualche comizio. Tuttavia l’interesse di Buffet per le ferrovie potrebbe essere analizzato in chiave strategica, come un approccio alla verticalizzazione delle sue attività e compagnie possedute. Tra le partecipate dal gruppo Berkshire Hathaway vi è la MidAmerican Energy, compagnia elettrica che possiede numerosi centrali a carbone. L’acquisto di Buffet denota una visione operativa focalizzata a investire in aziende americane le cui attività, estremamente strategiche per la nazione, sono difficilmente sostituibili o scalabili da compagnie straniere ( cinesi per esempio). In un breve intervista Buffet dichiaro’ che il carbone sarebbe stato una risorsa fondamentale per la produzione energetica americana nei prossimi decenni. In verità la sua affermazione poggia su fondamentali basi strategiche. Gli stati centrali degli USA hanno riserve di carbone ancora poco sfruttate. Con la crescita dei costi del petrolio, la produzione energetica “verde” spesso conveniente solo in virtu’ di facilitazioni statali, il carbone rimane una soluzione economica per mantenere gli USA indipendenti per quanto concerne la produzione energetica. Una soluzione non esente da critiche e attacchi: in giugno il comitato senatoriale per l’Ambiente e le Opere Pubbliche ha convocato a testimoniare Cathy S. Woollums, vice presidente della MidAmerican Energy, in merito agli elevati livelli di inquinamento raggiunti dalla compagnia. Malgrado eventi del genere, spesso frutto di lotte intestine nella lobby energetica dei carburanti fossili, molto attiva a Washington, è improbabile che le compagnie energetiche che utilizzano carbone rischino seriamente di venir penalizzate dal governo. Lo stesso Obama, che nel suo “progetto americano” aveva incluso numerose idee per sviluppare un economia verde, sembra scontrarsi con la dura realtà, e sono molti tra i suoi sostenitori a cominciare a ricredersi sulle reali intenzioni del “verde Obama”.

La produzione e distribuzione di materie prime, con un attenzione su bio carburanti e il cibo, è motivo di forte interesse per un altro importante giocatore. La Ospraie Management LLC, società di investimento partecipata da Soros, è stata avvistata operare in Missouri, precisamente nella zona colpita recentemente dalle esondazioni. Sembra che la società abbia creato una joint venture con la Teays River Investments per poter acquistare i terreni allagati. Terreni agricoli di ottima qualità che devono essere drenati e riportati alla loro naturale condizione. Date le risorse limitate di molti contadini, e il loro tasso di indebitamento, il gruppo di Soros ha la possibilità di acquisire i terreni a prezzi favorevoli rispetto al valore di mercato. L’interesse di Soros per l’agricoltura non si ferma tende ad essere estremamente ramificato. Utilizzando la Ospraie ha acquistato una compagnia di trading, la ConAgra. Rinominata Gavilon ( ex ConAgra), la nuova società si è mossa velocemente per acquisire nuovi asset. In poco tempo il nuovo veicolo di Soros, Gavilon, ha comprato gli impianti della Union Elevator and Warehouse, una della maggiori realtà nello stoccaggio e distribuzione di grano. Con il successivo acquisto della DeBruce Grain, poco fuori Kansas city, Soros è divenuto ( tramite il Soros Fund Management che supporta la Gavilon e controlla direttamente la Osprei) il terzo uomo piu’ importante nel mercato americano del grano. Con le sue controllate gestisce una capacità di immagazzinamento di 280 millioni di bushels ( = staio, antica unità di misura per le granaglie tuttora in uso in America), secondo solo alla Archer Daniels Midland (capacità di immagazzinamento 542 millioni di bushels) e alla Cargill (capacità di immagazzinamento di 344 millioni di bushels).

L’interesse di Soros per il settore agroalimentare ha, tuttavia, radici lontane. Nel 2002 fonda la Adecoagro (AGRO ), basata in Lussemburgo ma con attività agricole nel Sud America. Le maggiori attività dell’azienda sono focalizzate nella produzione di riso, grano, olio di semi, prodotti caseari, zucchero, etanolo, caffe e cotone. Il 31 dicembre 2010 la Adecoagro possedeva un totale di 282.798 ettari di terreno coltivabile, consistente principalmente in 21 fattorie in Argentina, 15 fattorie in Brasile, 1 in Uruguay e impianti di cogenerazione per un totale di 112 MW. La compagnia è tra le maggiori produttrici di zucchero dell’area, in Argentina è il maggior produttore di riso e prodotti caseari. In Brasile Adecoagro opera tramite due impianti a Minas Gerais e a Mato Grosso do Sul, con gli scarti della produzione di granaglie produce energia. Ha venduto 22000 capi di bestiame e affittato terreni agricoli alla Santo Andre per un totale di 6.4 millioni di dollari. É in progetto lo sviluppo ulteriore di 120.000 ettari coltivati a canna da zucchero entro il 2016. Nel primo trimeste le vendite lorde di Adecoagro sono state di circa 58,3 milioni di dollari con un aumento ( anno su anno) del 11,3%. Circa l’80% derivate dal business agroalimentare e il rimantente dalla vendita di zucchero ed etanolo. La presenza negli asset di Adecoagro di terreni non ancora sfruttati implica una potenziale crescita. L’abilità della società nello sfruttare con efficacia il sistema agricolo a rotazione ha inoltre migliorato la resa dei terreni.

 

Per quanto Soros e Buffet siano nomi famosi in tutto il mondo, spesso associati ad operazioni ad alto profitto, l’interesse per trasporti nazionali, produzione energetica, compagnie minerarie e produzione agricola è andato via via intensificandosi negli ultimi anni. Un numero crescente di operatori finanziari hanno deciso di lasciare la”finanza pulita” per divenire “agricoltori” o “ferrovieri”. Per quanto inconsuete possano apparire queste scelte, sembra esistere un un sentimento comune tra gli esperti di finanza. La crisi alimentare del 2008-2009 è stata l’ultimo di una catena di eventi il cibo come primario protagonista. Il picco del petrolio ( già raggiunto o prossimo ad esser raggiunto a seconda di quale sia la chiave di lettura che si da alle statistiche ufficiali) denota una crescente tensione nazionale americana in merito alla sicurezza strategica e all’indipendenza. Con la crescente tendenza del governo USA a stampare cartamoneta, generando inflazione sulle materie prime generalmente commerciate in dollari, sembra che gli speculatori stiano velocemente sposandosi verso una visione autarchica nazionale. Il “buy American” tanto strillato da Obama, e vagamente imitato in modo erratico dai governanti europei, sembra aver raccolto sostenitori proprio nei grandi della finanza. E’ ipotizzabile, ma solo il tempo potrà suffragare tale teoria, che le monete nazionali andranno sempre piu’ a perder potere di acquisto mentre i beni di prima necessita, quali cibo, carburanti, minerali e tutte le infrastrutture necessari per lavorarli e trasportarli, diventerannno l’oggetto del desiderio di ogni cittadino. In questa luce ascoltare un uomo esperto di finanza mentre dichiara che “ con una tonnellata d’oro non puoi mangiare mentre con l’equivalente economico investito in una fattoria puoi sfamare molte persone” suona sinistro quasi, apocalittico. Il mondo non finirà nel 2012 come suggerisce il calendario Maya, ma è certo che il mondo dei prossimi anni sarà testimone di un drastico cambiamento negli equilibri del potere, e beni oggi considerati importanti saranno facilmente scambiati per beni elementari come acqua, cibo e carburanti. L’autarchia nazionale è un obbiettivo che alcune nazioni come l’America sono in grado di raggiungere, e la finanza speculativa è pronta a cogliere questa opportunità.

Fonti
http://www.webnewsjax.com/george-soros-buying-farm-land/
http://dailycaller.com/2011/08/30/obama-still-has-green-energy-vote-for-2012/2/
http://money.cnn.com/2008/11/12/news/companies/ospraie_demos.fortune/
index.htm
http://www.world-grain.com/News/News%20Home/Features/2010/12/A%20powerful%
20signal.aspx?p=1
http://www.bloomberg.com/news/2011-08-10/being-like-soros-in-buying-farm-land-lets-investors-reap-16-annual-gains.html
http://www.gatewaytosouthamerica-newsblog.com/2011/08/18/why-is-george-soros-selling-gold-and-buying-farmland/
http://seekingalpha.com/article/278230-analyzing-george-soros-s-top-holdings-part-1
http://www.meattradenewsdaily.co.uk/news/080210/brazil___george_soros_shows_interest_in_farm_land_.aspx
http://emergingcorruption.com/2011/06/look-who%E2%80%99s-buying-up-flood-ravaged-farm-land/
http://climateerinvest.blogspot.com/2011/04/soros-back-gavilon-buying-up-us-grain.html http://www.reuters.com/article/2011/03/24/usa-gavilon-pnw-idUSN2417892020110324
http://www.marketwatch.com/story/behind-buffetts-railroad-buy-is-a-coal-recovery-2009-11-03
http://online.wsj.com/article/SB10001424052970204621904574246440378843148.html http://www.investinganswers.com/a/50-warren-buffett-quotes-inspire-your-investing-2310
http://www.nytimes.com/2011/01/07/business/07tyson.html
http://www.berkshirehathaway.com/subs/sublinks.html

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I cerchi della solidarietà dell’America IndioLatina

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Bruno Amoroso (docente di Economia Internazionale e delle sviluppo presso l’Università Roskilde in Danimarca), nel suo libro Europa e Mediterraneo, elabora un’interessante teoria sulla regionalizzazione dell’economia in contrapposizione alla globalizzazione. Il lavoro di Amoroso si basa sull’analisi delle sinergie e delle peculiarità dell’Area Euro-mediterranea.

Così facendo l’autore individua delle realtà regionali di livello macro – quindi comprendenti più Stati – che possono percorrere uno sviluppo sostenibile puntando su una forte interazione economico-culturale. Tale meccanismo non si basa sulla standardizzazione delle produzioni, bensì sulla valorizzazione delle “tipicità” di ogni singolo Stato favorita da un libero scambio fra territori limitrofi.

La presente teoria geo-economica porta ad un riposizionamento delle economie forti dell’area. Queste non dovranno più fagocitare le economie più deboli, sfruttandole per risorse e manodopera a basso costo, bensì fungere da ”locomotiva” al processo di sviluppo dell’intera area. Tale cambiamento è ottenibile mediante una disponibilità a condividere il know-how nei settori chiave dell’economia regionale – per lo più l’agricoltura che rappresenta l’attività principale nelle aree nord-africane e mediorientali e che vede un forte gap tra sponda nord e sponda sud del Mediterraneo. Si ponga attenzione sul fatto che si parla di condivisione reciproca di conoscenze e non di impianto “copia-incolla” di tecnologie innovative. Quest’ultimo processo determinerebbe una mera esternalizzazione della produzione dando fondo al protrarsi di una globalizzazione neo-colonialista senza prospettive di sostenibilità di medio-lungo termine.

Il policentrismo delineato da Amoroso conduce all’elaborazione del modello dei Cerchi della Solidarietà cioè l’individuazione di quattro meso-aree all’interno delle quali la parola chiave per uno sviluppo sostenibile è: conservazione e valorizzazione della diversità tra le aree.

Ciò, secondo l’autore, consente di ottenere una stabilità interna alle meso-aree delineate ed esterna nei rapporti con le altre Regioni.

 

Tale teoria può essere riportata anche su altre aree del globo terrestre tra cui l’America Latina. L’elaborazione ci porta innanzi tutto ad individuare le economie “motrici” (da qui il nome dato alle macro-regioni) fondamentali nella determinazione delle meso-aree. Così facendo potremmo ipotizzare la conformazione delle seguenti quattro Regioni:

 

 

Fonte: ns. elaborazione cartografica


  • Regione messicana. Quest’area comprende Messico, Costa Rica, Cuba, Repubblica Dominicana, El Salvador, Guatemala, Honduras, Nicaragua, Panama, Porto Rico, Antigua, Barbuda, Bhamas, Barbados, Dominica, Jamaica, Grenada, Haiti, Saint Kitts e Nevis, Saint Vincent e Granadine, Santa Lucia, Trinidad e Tobago. Indubbiamente per dimensioni ed economia, il Paese “guida” è individuabile nel Messico. Qui l’economia è in forte crescita e potrebbe coinvolgere l’intera area. Puntare sullo sviluppo delle energie rinnovabili – solare in Messico e idroelettrica nei Caraibi – costituirebbe un punto di svolta per l’intera Regione. Inoltre l’interazione tra Paesi produttori di idrocarburi (Messico su tutti e recentemente Cuba) e Paesi specializzati nella raffinazione di questi (ad esempio El Salvador o le Bahamas), potrebbe rendere più efficiente il mercato energetico.

Per quanto concerne i settori dell’agricoltura e dell’ittica – principali attività dell’intera meso-area – si potrebbe puntare sulla costituzione di un consorzio capace di coinvolgere tutti i Paesi dell’area. Facendo ciò si può ottenere una maggiore forza contrattuale sul mercato globale capace di garantire maggiori introiti da reinvestire nello sviluppo degli stessi settori. Infatti, va puntualizzato, che pur trattandosi delle principali attività economiche dell’area, molto spesso sono fondate su metodologie produttive arcaiche – specie l’agricoltura che è fortemente penalizzata dal persistere della proprietà latifondiaria.

Il know-how nell’industria farmaceutica (Cuba, El Salvador, Bhamas), nell’innovazione infrastrutturale (Porto Rico), nell’elettronica e nella biomedica (Costa Rica), può rappresentare, se condiviso, il presupposto per lo sviluppo di nuove attività industriali nell’area che necessità di un’ importante assorbimento della forza lavoro inoccupata – per Haiti si parla di più del 60% di disoccupazione.

 

  • Regione venezuelana. Qui troviamo Venezuela, Colombia, Guyana, Guyana Francese e Suriname. Il Venezuela che ha intrapreso uno sviluppo sostenibile, rappresenta l’economia prevalente nella meso-area di riferimento. La volontà del presidente Chavez, di creare un’area economica di interazione per i Paesi Latinoamericani – basti guardare il progetto ALBA nato nel 2004 – può rappresentare uno spunto per rileggere le potenzialità dell’area. Di fatti, proprio l’apertura del Venezuela all’interazione, può rappresentare una grande opportunità per gli altri Stati della regione da noi delineata. Sviluppare la capacità produttiva colombiana è alquanto vantaggioso dato che vuol dire ridurre il dominio del narcotraffico – vantaggio non solo continentale. Per quanto concerne invece i territori più ridimensionati di Guyana, Suriname e Guyana Francese, questi possono ricoprire un ruolo importante nella produzione agricola. Ovviamente, anche in quest’area occorre una forte modernizzazione delle pratiche agricole come del settore ittico.

 

  • Regione brasiliana, comprendente Brasile, Bolivia, Ecuador e Perù. Il Brasile è ormai una delle principali economie emergenti del pianeta insieme a Russia, India, Cina e Sud Africa (BRICS). Si tratta di un’economia che ha raggiunto la propria solidità nonostante il progressivo distaccamento dall’ala protettiva statunitense. I punti di forza dell’economia brasiliana sono le importanti risorse minerarie e la diversificazione industriale che si unisce al sostegno, da parte del governo, ad ogni settore dell’economia.

Un’importante partner commerciale per il Brasile può riscontrarsi nell’Ecuador che spicca per le sue ricchezze minerarie, ma ancor più per l’altissimo livello tecnologico della sua produzione (aerospaziale, informatica, farmaceutica). Un know how non indifferente che può garantire ulteriori margini di sviluppo per ambedue i Paesi. A questi si aggiunge il Perù che prosegue la sua crescita economica basata sullo sfruttamento delle risorse minerarie e lo sviluppo dei settori chiave della propria economia: ittico, agricolo e tessile.

Da quanto sin qui esposto si delinea quello che è la costante per l’intera area: la ricchezza del sottosuolo. Da tale vantaggio geo-economico non è esente la Bolivia che, nonostante ciò, vive una cristallizzazione nello stato di arretratezza economica. Le problematiche sono diverse e vanno dalla corruzione alla carenze infrastrutturali e nei controlli sulle attività produttive – di conseguenza le industrie boliviane sono poco accorte alla sostenibilità ambientale ed alla qualità della produzione. L’interazione con le economie limitrofe può permettere un riposizionamento boliviano nell’economia continentale a beneficio dell’intera area: aumenterebbe la produzione agricola e la disponibilità di risorse minerarie.

 

  • Regione argentina dove troviamo Cile, Paraguay, Uruguay e Argentina. Quest’ultima è ricca di risorse minerarie (come il Cile), ma ha saputo discostare la propria economia da una dipendenza da tali fonti. Difatti è riuscita a differenziare la propria produzione volgendo l’attenzione allo sviluppo tecnologico e alla medicina oltre a dare grande importanza al sostegno del settore agricolo – che resta di cruciale importanza per l’economia nazionale. Per quanto riguarda Uruguay e Paraguay si tratta di economie fondate sul settore agricolo ed ittico (Uruguay) data la scarsità di risorse presenti nel sottosuolo, ma nonostante ciò il Paraguay spicca quale esportatore di energia elettrica.

Da quanto sin qui esposto si deduce che Cile ed Argentina possono collaborare allo sviluppo agricolo e infrastrutturale dell’area in modo da garantirne un maggiore diversificazione produttiva nel complesso.

 

Va precisato che, nella rappresentazione grafica, l’intersezione tra “Cerchi della solidarietà” è voluta: ciò vuol dire che le meso-aree interagiscono anche tra di loro dando maggiore concretezza allo sviluppo dell’intero continente. Non si tratta, quindi, di economie regionali chiuse, quanto piuttosto di economie che possiamo definire dinamiche, sia se esse vengono esaminate da una prospettiva interna – interazione tra Stati della stessa meso-area – sia se l’analisi è proiettata al loro esterno – tra Stati di diverse meso-aree.

A differenza dell’area euro-mediterranea, nell’America Latina si ha un’importante vantaggio: la vicinanza culturale. Difatti, l’eterogeneità culturale nel bacino del Mediterraneo rappresenta uno dei principali punti di criticità del modello di Amoroso dato che si tratta del fattore scatenante delle più forti tensioni nell’area. Per di più l’America Indiolatina è caratterizzata da un percorso storico molto omogeneo e quindi in grado di portare i soggetti interessati ad una maggiore conoscenza delle problematiche dell’area.

D’altra parte, in un approccio realistico alla regionalizzazione, sono molti gli ostacoli che si pongono alla sua realizzazione:

  • La corruzione dilaga nella gran parte degli Stati e, di conseguenza, il controllo sulle attività produttive è scarso come quello sull’economia sommersa;
  • Il turismo – specie nell’area caraibica – non può rappresentare un punto d’arrivo per l’economia, ma deve essere un punto dal quale partire per l’accumulo di capitale da reinvestire in altri settori dell’economia;
  • Va affrontato seriamente il problema del turismo sessuale e del narcotraffico che interessano tutto il continente latinoamericano;
  • La forte dipendenza dall’economia statunitense resta ancora forte per molti Stati dell’America Latina e ciò rappresenta un forte limite allo sviluppo autonomo e sostenibile di ogni singolo Stato che si ritrova, per lo più, a subire passivamente la globalizzazione;
  • Le infrastrutture sono scarse o vanno rimodernate (come il sistema portuale brasiliano). In alcune aree mancano collegamenti stradali e la fornitura di servizi essenziali (acqua o energia elettrica);
  • Attorno ai grandi centri urbani si assiste ad un’urbanizzazione selvaggia. Occorre una regolamentazione volta a ridistribuire e decentralizzare le attività produttive su tutto il territorio in modo tale da evitare che la gran parte della popolazione nazionale sia riunita nelle principali città delle varie Nazioni;
  • Lo sviluppo economico trova le sue basi nel coinvolgimento dell’intera popolazione a tale processo. In alcuni casi si assiste all’arricchimento di pochi – da qui le recenti contestazioni in piazza in Cile – mentre in altri casi si assiste ad una vera e propria esclusione di una parte della popolazione dall’attività produttiva – come in Messico. La coesione interna e la partecipazione dell’intera popolazione può rappresentare una base solida per uno sviluppo concreto di medio-lungo periodo;
  • Il latifondo è la principale forma di proprietà privata che interessa il territorio destinato al settore agricolo. Ciò non consente lo sfruttamento ottimale della forza lavoro disponibile e della capacità produttiva agricola di ogni singolo Paese. Una valida riforma agraria consentirebbe una redistribuzione delle ricchezze ed una maggiore valorizzazione del territorio. All’interno di tale riforma occorre tener presente dell’importanza che ha la preservazione delle risorse naturali, quali fauna e flora autoctona. Tutt’oggi si assiste per lo più ad uno sviluppo selvaggio ed ecologicamente insostenibile che favorisce il depauperamento delle risorse naturali e l’erosione del terreno.

In definitiva la strada da fare è tanta, ma non impossibile dato che le “motrici economiche” (Brasile, Argentina, Messico e Venezuela) sembrano, chi più e chi un po’ meno, in grado di ricoprire il ruolo di guida dell’intero continente. L’importante sarà non passare da un policentrismo basato su uno scambio simmetrico ad un monocentrismo dove le economie più forti tendono a condizionare le economie degli Stati confinanti per uno scambio asimmetrico a proprio favore.

 

 

William Bavone è laureato in Economia Aziendale (Università degli Studi del Sannio, Benevento)

 

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La parabola libanese e il tentato riassetto geopolitico del Vicino e Medio Oriente

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Dagli sviluppi relativi alle rivoluzioni che hanno scompaginato i precari equilibri all’interno del complesso mondo arabo sono emerse numerose ingerenze esterne che rivelano il chiaro intento delle potenze atlantiche di rimodellare il contesto geopolitico areale.

Uno dei più ostinati tentativi portati avanti nei decenni riguarda la destabilizzazione del Libano, paese che non è mai riuscito a consolidare un equilibrio stabile.

L’attentato a Rafik Hariri del 2005 rappresenta indubbiamente una delle tappe fondamentali rientranti nel progetto eversivo in questione.

Rafik Hariri è stato un facoltoso e abile uomo d’affari che aveva fatto della propria popolarità e dell’innato fiuto politico il cemento necessario per tenere insieme una maggioranza particolarmente variegata e capace di rappresentare le tre componenti sciita, sunnita e maronita, maggioritarie nel tessuto sociale libanese.

Il successo politico dell’uomo era dovuto principalmente al suo lavoro diplomatico che aveva portato alla fine della sanguinosa guerra civile e consacrato Damasco quale garante di una sorta di pax siriana sul Libano, che pure risultava indigesta a talune personalità di spicco come il generale cristiano Michel Aoun.

Il periodo immediatamente successivo alla pace trascorse all’insegna della ricostruzione e vide le varie componenti sociali libanesi porre momentaneamente tra parentesi gli antichi rancori per profondere congiuntamente gli sforzi necessari a risollevare il paese dalla catastrofe appena conclusasi.

In questo particolare contesto si inserirono gli ultimi rampolli della stirpe Gemayel – Pierre jr. e Sami – eredi del capostipite Pierre, fondatore del Partito Falangista cristiano.

Costoro ripresero la tradizionale avversione congenita nei confronti della Siria messa momentaneamente in angolo dal partito guidato in quella fase da Karim Pakradouni, la cui vicinanza al governo siriano aveva drasticamente ridimensionato la capacità destabilizzante dei falangisti.

I rapporti di forza che regolavano la situazione politica libanese furono definitivamente ridisegnati nei primi mesi del 2005, dopo che Rafik Hariri si era dimesso dall’incarico di Primo Ministro in segno di protesta contro l’emendamento approvato costituzionalmente atto a prorogare di tre anni la presidenza de Emile Lahoud, sponsorizzato attivamente da Bashar Assad.

Ciò fece in modo che la pianificazione e l’esecuzione dell’attentato del 14 febbraio che costò la vita ad Hariri venissero istantaneamente attribuite alla Siria; cosa che – amplificata poderosamente dalla grancassa mediatica – favorì il sorgere di un movimento di rivolta popolare contro la presenza di circa 14.000 militari siriani nel Paese.

La sommossa, prontamente ribattezzata come “Rivoluzione dei Cedri”, sortì il duplice risultato di costringere Bashar Assad a cedere alle forti pressioni internazionali, dichiarando la fine del protettorato siriano sul Libano oltre all’imminente ritiro delle proprie forze armate dal territorio libanese, e di favorire l’ascesa al potere dell’economista Fouad Siniora, che si mostrò immediatamente riconoscente nei confronti di Pierre Gemayel per la funzione antisiriana svolta dal Partito Falangista sotto la sua egida affidandogli l’incarico di Ministro dell’Industria.

La “Rivoluzione dei Cedri” seguì il medesimo schema delle tante rivoluzioni colorate sorte nei paesi vicini alla Russia da vicende, non sempre realmente accadute o rispondenti alle modalità con cui sono state descritte, in grado di catalizzare i malcontenti popolari della più svariata natura e creare disordini sociali suscettibili di indebolire o abbattere i governi in carica.

Tuttavia, il governo Siniora mostrò ben presto – come quello di Viktor Yushenko in Ucraina – i propri limiti e perse rapidamente tutti i vantaggi che aveva precedentemente ottenuto, giungendo perfino a sciogliere la Corte Costituzionale che l’avrebbe probabilmente dichiarato decaduto alla luce del palese dissolvimento del bacino elettorale che ne aveva decretato il trionfo solo pochi mesi prima.

Il popolare generale cristiano Michel Aoud si schierò allora con il potente movimento sciita di Hezbollah, formando una coalizione nazionalista forte di un vastissimo appoggio popolare e assai invisa a Stati Uniti ed Israele.

Hezbollah, per bocca del leader Hassan Nasrallah, spese al riguardo le seguenti, eloquenti parole: “Non abbiamo fiducia di questo governo che risponde alle decisioni e ai desideri dell’amministrazione americana. Manifestiamo per ottenere la caduta del governo illegittimo e anti-costituzionale, il governo di Feltman”.

Jeffrey Feltman ricopriva all’epoca l’incarico di assistente al Segretario di Stato per il Medio Oriente.

In quella specifica fase in cui la struttura portante del governo Siniora presentava crepe sempre più profonde si verificò l’enigmatico omicidio di Pierre jr. Gemayel, che era un uomo politico dal basso profilo ma dall’altisonante cognome, in grado di suscitare le più irrazionali pulsioni in seno alla nutrita e turbolenta componente cristiana del Libano.

La sua conclamata ostilità nei confronti della Siria orientò ancora una volta i sospetti sul governo di Damasco, cosa potenzialmente destabilizzante e suscettibile di spezzare l’integrità sociale libanese e rigettando il paese nel caos.

Una vicenda simile era accaduta nel 1982 al più noto della stirpe Gemayel, quel Bashir che dilaniato in un colossale attentato pochi giorni prima di esser nominato Presidente con il forte sostegno di Israele e specificamente dell’allora Ministro della Difesa Ariel Sharon.

L’atto terroristico fu anche all’epoca attribuito alla Siria che si era da poco schierata in difesa dei profughi palestinesi e provocò la spaventosa ritorsione dei falangisti i quali, forti del supporto logistico dell’esercito israeliano, perpetrarono il ben noto massacro nei campi di Chabra e Chatila delle altrettanto ben note dimensioni.

L’obiettivo di Israele è sempre stato quello di destabilizzare il Libano e la resistenza sciita, dalla quale è nato Hezbollah, è stata l’unica forza in grado di contenere la soverchiante macchina militare meglio nota come Tsahal.

Nell’estate di quel rovente 1982 Israele sferrò l’operazione “Pace in Galilea”, nell’ambito della quale caddero circa 20.000 civili libanesi (e palestinesi) e un terzo del territorio nazionale cadde in mano all’esercito di Tel Aviv.

Mentre Hezbollah raccoglieva adepti in seno alla società libanese Tsahal non riusciva a piegare la resistenza sciita e incassava inaspettate perdite lungo le alture di Khaldeh.

Nel 1985, l’ostinazione di Hezbollah costrinse Israele a ritirarsi da numerosi villaggi e dalle principali città di Tiro e Sidone.

Nel luglio del 1993 il capo di Stato Maggiore Ehud Barak intimò al servile governo centrale di Beirut il diktat di disarmare i “terroristi” di Hezbollah o di accettare le inevitabili conseguenze dell’eventuale inadempienza.

Nel frattempo Hezbollah aveva però acquisito un peso tale da rendere impossibile ogni iniziativa del governo in tal senso ed Israele decise quindi di passare alle maniere forti sferrando l’operazione “Accountability”, durante la quale vennero effettuati più di 1.000 raid aerei corrispondenti ad altrettanti bombardamenti sulle città libanesi.

Il Mossad aveva però sottostimato la capacità di reazione di Hezbollah e agì seguendo una colossale, malriposta fiducia nei propri servizi.

Hezbollah e le varie fazioni della resistenza libanese ribadirono infatti colpo su colpo provocando uno stallo che culminò con una tregua che entrò in vigore il 31 luglio del 1993.

Di fronte all’inaspettata reazione libanese, il Primo Ministro Itzak Rabin fu costretto ad ammettere la sconfitta.

Nell’aprile di tre anni dopo ebbe luogo l’operazione “Grapes of Wrath”, comprendente una serie di bombardamenti a tappeto sulle città di Balbek e Tiro, provocando la morte di numerosi civili e la distruzione di case e infrastrutture.

Tuttavia Hezbollah aveva studiato le tattiche israeliane e tratto i debiti insegnamenti dai passati conflitti, anticipando le mosse di Tsahal e infliggendo forti perdite mediante operazioni di guerriglia che le numerose milizie a disposizione erano state addestrate specificamente ad eseguire.

Seguì un’ulteriore tregua patrocinata dal Ministro degli Esteri statunitense Warren Christopher.

L’opinione pubblica israeliana interpretò il tutto come una sconfitta, cosa che compromise la rielezione di Shimon Peres in seguito alle elezioni del maggio 1996.

Nell’estate del 2006 si verificò l’ennesima aggressione israeliana, un’operazione che stando al rapporto redatto da Amnesty International ha provocato la morte di 1.183 civili libanesi, di 4.054 feriti e circa 970.000 profughi.

Gli oltre 7.000 attacchi aerei e i circa 2.500 bombardamenti navali israeliani hanno comportato la distruzione di 120 ponti, 900 strutture commerciali e più di 30.000 edifici tra alloggi, uffici e negozi.

I centri abitati hanno subito immani devastazioni quantificabili nell’80% delle case a Tayyabah, 60% a Zibqin e 50% a Markaba, Bayyadah e Qantarah.

Danni estremamente gravi sono stati riportati da ospedali, centrali elettriche, condotti idroelettrici e qualsiasi altro tipo di infrastruttura.

Hezbollah intendeva barattare alcuni militari israeliani catturati nel corso di un’incursione costata la vita a otto soldati di Tsahal con alcuni civili libanesi detenuti in Israele, ma il governo di Tel Aviv guidato dal Primo Ministro Ehud Olmert decise istantaneamente di lanciare una gigantesca offensiva in tutto il paese finalizzata ad assestare un duro colpo al “Partito di Dio” privandolo dell’appoggio popolare e rinfocolare i mai sopiti dissidi interni al Libano.

Si trattò di un’operazione animata dalla medesima logica che portò all’invasione israeliana del Libano nel 1982, diretta a favorire il dissolvimento dell’OLP.

Sortì però un effetto politico del tutto inaspettato, che corrispose con in consolidamento dell’asse cristiano (maronita) – sciita promosso dai rispettivi leader Michel Aoun e Hassan Nasrallah e la conseguente formazione di un fronte patriottico unito fortemente ostile ad Israele.

Gli attentati che hanno stroncato le vite di eminenti personalità libanesi si giustappongono perfettamente nel più ampio contesto generale da cui emerge l’inesausto tentativo israeliano di creare fratture in seno alla variegata e complessa società libanese, gettando una seria ipoteca sull’autonomia decisionale dei governi di Beirut così da sottrarli all’influenza siriana.

Gli Stati Uniti hanno sostenuto il governo di Tel Aviv nell’ultimo conflitto libanese contestualmente al ruolo ritagliato su misura per Israele dagli strateghi neoconservatori, che intendevano favorire l’affermazione dell’egemonia regionale israeliana come avamposto degli interessi statunitensi nell’area.

L’aggressione all’Iraq fu parte integrante di questo disegno, la prima mossa del progetto riguardante l’instaurazione di un “Grande Medio Oriente”, la cui funzione è stata eloquentemente indicata da William Kristol e Robert Kaplan : “La missione comincia a Bagdad ma non finisce qui (…), tutto ciò riguarda molto più che l’Iraq. Riguarda addirittura più del futuro del Medio Oriente e della guerra al terrorismo. Riguarda quale ruolo gli Stati Uniti intendono svolgere nel Ventunesimo Secolo”.

Lo scenario luminoso previsto dai neoconservatori si è rivelato, alla prova dei fatti, difficilmente realizzabile perché costellato da numerosi fattori storici, economici, militari e geopolitici che hanno ridimensionato la capacità coercitiva degli Stati Uniti.

Per questo motivo il progetto relativo allo scardinamento dell’assetto geopolitico che ha mantenuto l’equilibrio del mondo arabo per svariati decenni è proceduto seguendo metodologie diverse da quelle concepite dai neoconservatori, più propensi a far ricorso alle tattiche d’urto che non alla diplomazia dei raggiri e delle ingerenze.

Tuttavia, la pur abbondante benzina versata sul braciere libanese negli ultimi decenni – scatenando una serie impressionante di guerre civili e massacri – ha finito per rafforzare il ruolo di Hezbollah e cementare l’unità nazionale attorno alla condivisa ostilità nei riguardi di Stati Uniti e Israele.

In Siria gli Stati Uniti e i loro sottoposti – Israele in primis – hanno adottato alcune tattiche inerenti la medesima metodologia impiegata in Libano, sobillando alcune frange popolari alla rivolta così da gettare le basi per l’attuale destabilizzazione del paese, duramente repressa dal regime di Basher Assad.

Israele, d’altro canto, è entrato in definitiva rotta di collisione con la Turchia di Recep Tayyp Erdogan, che ha disposto il ritiro del proprio ambasciatore dopo una lunga fase di continue turbolenze innescata dall’operazione unilaterale meglio nota come Piombo Fuso del dicembre 2008 contro Gaza e aggravata dalla strage della Freedom Flotilla del maggio 2010, che provocò la dura presa di posizione turca culminata con la pubblica esecrazione di Shimon Peres, che cercava di legittimare i bombardamenti su Gaza, ad opera di Erdogan.

Tel Aviv versa attualmente in un isolamento regionale che subirebbe inevitabilmente un ulteriormente inasprimento qualora il Primo Ministro Benjamin Netanyahu e i membri del suo entourage decidessero di compiere qualche azione spregiudicata contro l’Iran o contro la Siria.

Dal momento che il ruolo di Presidente degli Stati Uniti è occupato da Barack Obama è difficile che iniziative simili trovino l’appoggio di Washington.

La politica estera propugnata dall’amministrazione Obama è fortemente condizionata (se non manovrata) da Zbigniew Brzezinski, stratega che ha sempre deplorato l’appoggio statunitense alle più sconsiderate azioni di forza israeliane e che guarda da un’angolazione differente l’affaire siriano.

Brzezinski ha svolto un ruolo cruciale durante la Guerra Fredda e anche dopo il collasso dell’Unione Sovietica ha indicato nella possibile rinascita della Russia la principale minaccia agli interessi statunitensi.

La Siria non è soltanto un fedele alleato della Russia, ma ospita anche una imponente, imprescindibile base militare a Tartus che garantisce l’agognato sbocco sul Mediterraneo alla flotta russa.

Mosca è conscia tanto dell’importanza cruciale della base di Tartus quanto del ruolo centrale che svolge attualmente la Siria e si è opposta, contestualmente, a qualsiasi ingerenza esterna proposta finora dagli stessi protagonisti dell’aggressione unilaterale alla Libia.

Tuttavia, John McCain – ex candidato repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti – ha recentemente affermato che “Dopo la Libia, un cambio di regime potrebbe verificarsi anche in Siria e persino in Russia e Cina”, aggiungendo che “Le ribellioni non si limiteranno al Medio Oriente ed investiranno anche la Russia” e che “Putin dovrebbe apprendere la giusta lezione dal destino di Hosni Mubarak”.

Oltre a gettare una luce assai sinistra sulla presunta spontaneità delle rivoluzioni attualmente in corso, l’arroganza con cui McCain ha esternato le proprie previsioni ha aperto lo scenario a un possibile ritorno al potere dell’ala neoconservatrice e al ripristino di una strategia più marcatamente muscolare, che ha assurto la forza bruta a nuovo “nomos della terra” da imporre con i ben noti metodi impiegati nel recente passato.

Dal canto suo, il Baath siriano guidato da Basher Assad è apparso finora un regime estremamente coriaceo, capace di effettuare abilmente le proprie mosse sullo scacchiere internazionale.

Sta dimostrando, insomma, di aver appreso dalle vicende libanesi come fronteggiare le minacce esterne e dalle agguerrite milizie di Hezbollah come acquisire la lezione di Sun Tzu – conoscere il nemico – meglio dei propri avversari, che al momento non sembrano seguire una strategia condivisa – per sconfiggere Gheddafi hanno impiegato molti più mesi di quanti non avessero previsto – per il Vicino e Medio Oriente.

 

* Giacomo Gabellini è collaboratore di Conflitti & Strategie

 

 

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Erdoğan: direzione Gaza, passando per l’Egitto

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Segnali contraddittori: la Turchia che da una parte accoglie la richiesta NATO di installazione del cosiddetto “sistema radar di difesa” – una minaccia latente verso l’Iran e non solo, si pensi per esempio alla posizione della Russia – e che dall’altra rompe decisamente con Israele in seguito al persistente rifiuto dell’entità sionista di interrompere l’embargo verso Gaza e di scusarsi per il sanguinoso assalto alla Mavi Marmara.

E ancora l’allineamento del Paese della Mezzaluna nella demonizzazione del regime baathista siriano e il lungo colloquio (oltre sei ore, ha riportato la stampa turca) intercorso in agosto  fra il ministro degli Esteri Davutoğlu e il leader siriano al-Assad alla ricerca – non ancora trovata – di un punto di accordo.

Sullo sfondo, ma forse domani in primo piano, l’ipotesi di un asse privilegiato Turchia – Egitto che riceverà un primo test di esame la prossima settimana con la visita nella capitale egiziana del Primo ministro Erdoğan.

Il radar antimissile che la Nato installerà in Turchia “non è rivolto contro l’Iran”, ha affermato l’ambasciatore turco a Roma, Hakki Akil, ed è difficile credergli, come è però difficile non immaginare che all’interno del sistema di potere turco forze contrapposte agiscano per fini differenti, e che il diplomatico giustamente sostenga le ragioni della politica – e in fin dei conti degli elettori turchi – contro quei vertici militari e massonici che spingono per un ripiegamento verso Occidente.

La decisione di ospitare il sistema radar della NATO è grave e sconta lo scotto dell’appartenenza  turca all’organizzazione militare atlantica: dimostra, se ce ne fosse bisogno, che tale legame è forte e pienamente operativo. Tuttavia ciò non deve generare un pessimismo esagerato nei confronti del processo di graduale riconquista di sovranità da parte di Ankara, processo che è probabilmente irreversibile.

L’incertezza della politica turca si accompagna alla  negativa congiuntura internazionale (guerra alla Libia, campagne medianiche imponenti contro la Siria, imbarazzante mancanza di iniziativa della Russia) ed è diretta o indiretta conseguenza di un vuoto di potenza, dell’assenza di efficaci legami eurasiatici nell’area. Ma la crisi del mondo unipolare “occidentale” è soltanto rimandata, e tutto il resto del mondo, sotto sotto, lo sa.

Dal Mediterraneo purtroppo in fiamme, vergognosamente calpestata ogni norma di diritto internazionale con l’affaire Libia, giunge comunque qualche novità interessante: il ministro degli Esteri di Ankara Davutoğlu ha tracciato con chiarezza la politica del suo Paese in seguito alla rottura con Israele, rimarcando con i suoi omologhi europei che non si tratta di “tensioni bilaterali” con lo Stato ebraico bensì di un problema più generale “legato all’inosservanza israeliana del diritto internazionale”.

Davutoğlu ha preannunciato l’interruzione di ogni intesa militare fra i due Paesi, e questo è molto significativo, considerata la storica contiguità fra i vertici delle Forze Armate turche e israeliane. Egualmente ha fatto sapere che Ankara rafforzerà la presenza della sua marina nel Mediterraneo (anche in funzione di proteggere l’invio di aiuti umanitari a Gaza), pronta a replicare a eventuali provocazioni di Tel Aviv.

D’altra parte, la Turchia sembra guardare con crescente interesse all’Egitto, e l’Egitto alla Turchia: il viaggio di Erdoğan al Cairo, cui accennavamo all’inizio, potrebbe avere notevole importanza anche simbolica, considerata la richiesta del leader turco di raggiungere – attraverso il valico di Refah – la martoriata Gaza, ove – come riporta il quotidiano turco Star – “è atteso come un Dio” (Tanrı indica in effetti la Sostanza Divina). Espressioni enfatiche che rivelano l’aspettativa  del popolo palestinese nella politica turca, e che impegnano la politica turca a un alto grado di responsabilità verso gli arabi.

*Aldo Braccio, esperto del mondo turco nelle sue relazioni interne ed internazionali, membro del Consiglio direttivo dell’IsAG – Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie, è autore di Turchia, ponte d’Eurasia (Fuoco, Roma 2011)

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