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Channel: Mikheil Saakashvili – Pagina 166 – eurasia-rivista.org
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Libia: prematura celebrazione di una vittoria

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Fonte: Stratfor Global Intelligence

La guerra in Libia è finita. Più precisamente, governi e media hanno deciso che sia finita, sebbene i combattimenti continuino. Le aspettative, regolarmente disattese, erano che Moammar Gheddafi sarebbe capitolato di fronte alle forze schierate contro di lui, e che le sue stesse milizie l’avrebbero abbandonato davanti alla sconfitta. Quello che si stava celebrando la scorsa settimana, con i presidenti, i Primi Ministri, e i media che annunciavano la sconfitta di Gheddafi, probabilmente diverrà realtà a tempo debito. Il fatto che ancora non sia così non sminuisce le tendenze ad auto – congratularsi

Per esempio, il Ministro degli Esteri italiano Franco Frattini ha riferito che soltanto il 5% della Libia rimane ancora sotto il controllo di Gheddafi. Sembrerebbe una percentuale insignificante, tranne per questa notizia apparsa sul quotidiano italiano La Stampa che riferiva che ‘Tripoli sta venendo ripulita’ quartiere per quartiere, strada per strada, casa per casa. Nel frattempo, bombe dal cielo stanno cadendo su Sirte dove, secondo i francesi Gheddafi è riuscito ad arrivare, anche se non si sa come. La città di Bali Walid, strategicamente importante – altro possibile nascondiglio nonché una delle due restanti vie d’uscita che conduce ad un’altra roccaforte di Gheddafi, Sabha – è stata circondata.

In altre parole, le forze di Gheddafi ancora conservano il controllo militare di una significativa area del paese. A Tripoli si combatte casa per casa ma ci sono ancora numerose roccaforti dotate di una forza difensiva sufficiente da non poter essere penetrate senza un’ adeguata preparazione militare. Anche se il reale nascondiglio del rais è sconosciuto, la sua cattura rappresenta l’obbiettivo della maggior parte dei preparativi militari, incluse le azioni aeree della NATO, intorno a Bali Walid, Sirte e Sabha. Quando Saddam Hussein fu catturato, si stava nascondendo in un buco nel terreno, solo e senza armi. Gheddafi sta ancora combattendo e sfidando gli avversari. La guerra non è finita.

Si potrebbe sostenere che seppure Gheddafi possiede ancora una consistente forza militare e parte del territorio, non governa più la Libia. È certamente vero e significativo, ma diventerà ancora più significativo quando i suoi nemici prenderanno il controllo delle leve del potere. Non è ragionevole aspettarsi che loro (i ribelli, ndt) siano in grado di fare questo a pochi giorni di distanza dall’ingresso a Tripoli e mentre gli scontri continuano. Perciò si pongono degli interrogativi critici, cioè se i ribelli hanno sufficiente forza per formare un governo credibile e se ci si deve aspettare nuovi scontri tra la popolazione (guerra civile, ndt) anche dopo che le forze di Gheddafi saranno neutralizzate. Semplicemente, Gheddafi sembra essere sul punto di essere sconfitto ma ancora non è giunto questo momento e la capacità dei suoi nemici di governare la Libia è in dubbio.

Intervento impeccabile

Dal momento che la fine è ancora lontana, è interessante considerare perché Barak Obama, Nicolas Sarkozy e David Cameron, i principali attori in questa guerra, hanno dichiarato all’unisono che Gheddafi è caduto, implicando con ciò la fine della guerra, e perché anche i media hanno fatto loro eco. Per comprendere questo, è importante capire quanto è stato sorprendente per ognuno di questi leaders il corso degli eventi. Innanzitutto, ci si aspettava che l’intervento della NATO, prima con la no – fly zone e poi con azioni aeree mirate sulle postazioni di Gheddafi, avrebbe provocato un rapido collasso del suo governo e la sua sostituzione con una coalizione democratica ad est.

Due fattori convergenti hanno portato a questa conclusione. Il primo è rappresentato dai gruppi che sostengono i diritti umani, estranei ai governi e alle fazioni, e dal Dipartimento di Stato, che ritenevano necessario un intervento per fermare la strage in atto a Benghazi. Questo schieramento aveva un problema serio: la via più efficace per fermare rapidamente un regime sanguinario era l’intervento militare ma, avendo condannato l’invasione americana in Iraq che aveva come scopo, almeno in parte, quello di rovesciare un regime violento, sarebbe stato difficile giustificare un intervento armato sul territorio libico. Le argomentazioni morali richiedono una certa coerenza.

In Europa ha acquisito centralità la dottrina del ‘soft power’ ma nel caso della Libia, trovare una strada per applicarla era difficile: sanzioni ed ammonimenti probabilmente non avrebbero fermato Gheddafi e l’azione militare va contro i principi della suddetta dottrina. Il risultato è stato una soft power militare; l’istituzione di una no – fly zone era un modo per avviare un’azione militare senza realmente danneggiare qualcuno, tranne i piloti che erano decollati, e soddisfaceva al contempo la necessità di distinguere la Libia dall’Iraq non invadendola né occupandola ma permetteva di esercitare pressioni realmente significative su Gheddafi.

Naturalmente, la no – fly zone si è rivelata inefficace e le forze francesi hanno cominciato a bombardare le milizie di Gheddafi il giorno stesso. A terra stavano morendo i libici, non i soldati francesi,  inglesi o americani. Mentre la no – fly zone veniva ufficialmente annunciata, la campagna aerea prendeva piede senza alcun tipo di chiara decisione. Gli attivisti dei diritti umani hanno fatto presente la loro preoccupazione: i bombardamenti aerei causano sempre più vittime di quelle designate perché non possono essere così precisi come si vorrebbe. Questo ha fatto sentire i governi autorizzati ad imbarcarsi in quello che io (l’autore, ndt) ho chiamato ‘intervento impeccabile’.

Il secondo fattore per cui si è optato per questa strategia, è riconducibile alle aviazioni dei vari paesi coinvolti. Non è in discussione l’importanza della forza aerea nelle guerre moderne ma ci sono continue discussioni sulla possibilità di raggiungere gli scopi politici prefissati soltanto per mezzo di questa, senza cioè coinvolgere le forze di terra. Per la ’comunità dell’aria’ la Libia poteva diventare l’occasione per dimostrare la propria efficacia nel perseguire i suddetti scopi.

Tutto questo permetteva ai sostenitori dei diritti umani di concentrarsi sugli scopi – proteggere i civili libici a Benghazi – fingendo di non aver sostenuto un intervento armato che avrebbe lasciato di per sé molti morti alle spalle. Dal canto loro, i leader politici potevano sentire di non infilarsi in un pantano ma semplicemente intraprendere un intervento pulito ed infine le forze aeree potevano dimostrare la loro efficacia nel produrre gli effetti politici sperati.

Come e perché

La questione delle ragioni di fondo va affrontata perché stanno circolando voci sul fatto che le compagnie di petrolio si contendono grosse somme di denaro in Libia. Queste sono tutte teorie credibili giacché la storia,quella vera, è difficile da scoprire ed io (l’autore, ndt) simpatizzo con quelli che stanno cercando un’intricata cospirazione che giustifichi il tutto.

Il problema è che andare in guerra per il petrolio libico non era necessario. Gheddafi amava vendere il petrolio, quindi, se i governi coinvolti gli avessero detto tranquillamente che sarebbe saltato se non avesse trovato un’altra intesa con chi si intascava i proventi e ridefinito l’ammontare di royalties da trattenere, Gheddafi l’avrebbe fatto. Lui era cinico ed aveva perfettamente capito che cambiare partner d’affari e cedere buona parte dei profitti sarebbe stato meglio che essere deposto.

In realtà non c’è nessuna teoria che spieghi questa guerra come causata dal petrolio, semplicemente perché non ciò non era necessario per ottenere le concessioni desiderate.  Quindi la storia – proteggere la popolazione di Benghazi dal massacro – è l’unica spiegazione razionale, per quanto possa essere difficile da credere.

Si deve tenere in considerazione che, data la natura della moderna strategia di guerra, le forze della NATO in piccola quantità dovevano essere presenti sin dall’inizio – in realtà, addirittura da qualche giorno prima l’inizio della campagna aerea. Un’identificazione accurata degli obbiettivi e l’averne ragione con sufficiente precisione richiede squadre speciali altamente specializzate per utilizzare al meglio gli armamenti. Il fatto che ci sono stati relativamente pochi incidenti causati dal fuoco amico indica che le procedure operative standard erano attive.

Queste squadre erano probabilmente affiancate da altre squadre speciali che hanno preparato  – in molti casi anche ufficiosamente guidato – le forze ribelli agli scontri. Ci sono numerosi rapporti dei primi giorni di guerra che indicano che le squadre speciali addestravano i combattenti ad usare le armi ed impartivano loro un’organizzazione.

Tuttavia, si sono verificati due problemi adducibili a questo approccio. Primo, Gheddafi non ha ripiegato la tenda e non è capitolato, sembrava anzi singolarmente indifferente alle forze che aveva di fronte. Secondo, le sue truppe si sono dimostrate essere altamente capaci e motivate, almeno in confronto ai loro avversari.  Una dimostrazione di ciò sta nel fatto che non si sono arresi in massa ma hanno mantenuto un certo grado di compattezza e – la prova finale – hanno resistito per sei mesi e continuano a farlo. La convinzione dei sostenitori dei diritti umani che un tiranno isolato si sarebbe arreso di fronte alla comunità internazionale, dei leaders politici che avrebbe ceduto nel giro i qualche giorno schiacciato dalla potenza aerea della NATO e delle forze aeree che i bombardamenti avrebbero distrutto la resistenza, tutto questo si è rivelato essere falso.

Una guerra protratta

La causa di tutto questo è in parte da individuare in un fraintendimento della politica libica. Gheddafi era un tiranno ma non era completamente isolato; aveva dei nemici ma anche molti sostenitori che avevano dei benefici da lui, o quanto meno che credevano nella sua dottrina. Inoltre, tra le truppe di governo (alcuni dei quali erano mercenari del sud) c’era anche la convinzione generale che la resa avrebbe comportato il loro massacro; i leader politici, invece, ritenevano che la resa li avrebbe condotti all’Aia e quindi in prigione. La fiducia della comunità a difesa dei diritti umani nella Corte Criminale Internazionale che  avrebbe giudicato Gheddafi e il suo entourage  non avrebbe lasciato loro alcuno spazio per ritirarsi, e uomini senza scampo combattono duramente e fino alla fine. Non c’era modo di negoziare la capitolazione a meno che il Consiglio di Sicurezza dell’ ONU non avesse mediato per un accordo. Gli ammiccamenti che hanno convinto i grandi dittatori del passato a farsi da parte non sono più sufficienti. Tutti i paesi che fanno parte dello Statuto di Roma sarebbero tenuti a consegnare un leader come Gheddafi al tribunale di ICC.

Inoltre, a meno che l’ONU non concluda pubblicamente un accordo con Gheddafi, che sarebbe avversato dalla comunità dei diritti umani e potrebbe in ogni caso sembrare poco opportuno, Gheddafi non si arrenderà, e così anche le sue truppe. I rapporti della scorsa settimana parlavano di alcuni soldati che sono stati giustiziati. Vero o no, giusto o no, potrebbe non essere un buon motivo per arrendersi.

La guerra è cominciata con la missione pubblica di proteggere il popolo di Benghazi e si è trasformata presto in una guerra per spodestare Gheddafi. Il problema era che tra gli scopi militari ed ideologici, le forze dispiegate per la missione erano insufficienti. Non sappiamo quante persone siano state uccise negli scontri durante gli ultimi sei mesi, ma usare il soft power militare in questo modo sicuramente ha protratto la guerra e verosimilmente causato molte più morti, sia militari che civili.

Dopo sei mesi la NATO si è stancata ed ha finito con l’assaltare Tripoli. L’assalto sembra essere consistito in 3 parti. La prima è stato l’intervento delle truppe operative speciali (poche centinaia) che, guidate dall’intelligence in azione a Tripoli, ha attaccato e destabilizzato le forze governative nella città. La seconda, è risultata essere un’operazione comunicativa con cui la NATO ha fatto sembrare che la guerra fosse finita. Il bizzarro incidente in cui era stato annunciato che il figlio di Gheddafi, Saif al-Islam, era stato catturato salvo poi apparire in un SUV “molto non-catturato”, era parte del gioco. La NATO voleva che sembrasse che la leadership e le forze della resistenza fossero state sconfitte perché queste stesse forze si convincessero ad arrendersi. L’apparizione di Saif al-Islam aveva lo scopo di mostrare che la guerra continuava ancora.

In seguito alle speciali operazioni di attacco e di informazione, i ribelli occidentali sono entrati in città con grandi festeggiamenti, sparando perfino colpi celebrativi in aria. I media mondiali hanno fissato la fine della guerra al ritiro delle squadre speciali e i ribelli vittoriosi hanno accettato ciò. Ci sono voluti sei mesi, ma è finita.

E poi è diventato ovvio che non era finita. Il 5% della Libia – una percentuale interessante – non era  stata liberata, i combattimenti per strada a Tripoli continuavano, aree del paese erano ancora sotto il controllo di Gheddafi. E lo stesso Gheddafi non era dove i suoi nemici volevano che fosse. La guerra continuava.

Da tutto questo si possono trarre una serie di lezioni. Primo, che la Libia può non essere importante per il mondo ma per i libici sicuramente non è così. Secondo, non supporre che i tiranni non abbiano sostenitori. Gheddafi non ha governato la Libia per 42 anni senza essere sostenuto da qualcuno. Terzo, non dare per scontato che le forze dispiegate siano necessariamente  sufficienti. Quarto, cancellare l’opzione di una fine negoziata della guerra con gli strumenti delle corti internazionali può essere moralmente gratificante ma comporta che la guerra continui e il numero delle vittime aumenti. Bisogna decidere cosa è più importante – alleviare le sofferenze delle persone o punire il colpevole. Qualche volta è l’uno o l’altro. Quinto, e più importante, non prendere in giro il mondo dicendo che le guerre stanno volgendo al termine. Dopo che G. W. Bush si è imbarcato su una portaerei decorata con lo striscione ‘missione compiuta’, la guerra in Iraq si è fatta ancora più violenta, e il danno per lui ancora più grave. Operazioni d’informazione possono essere utili a convincere l’avversario a capitolare, ma la credibilità politica svanisce se si dichiara che la guerra è finita mentre i combattimenti vanno avanti.

Verosimilmente, Gheddafi alla fine cadrà. La NATO è più potente di quanto lo sia lui e saranno spedite forze sufficienti a farlo cadere. Invece, ci si deve domandare se c’è un’altra strada per ottenere questo risultato con meno costi e più benefici. Lasciando da parte la teoria della guerra per il petrolio, se lo scopo era quello di proteggere Benghazi e spodestare Gheddafi, un maggior numero di forze o una fine negoziale che preveda garanzie contro processi al tribunale dell’Aia, sarebbero verosimilmente serviti meglio allo scopo con una minor perdita di vite rispetto all’applicazione del soft power militare.

E visto che il mondo guarda alla situazione in Siria, tutto questo dovrebbe essere tenuto a mente.

*Traduzione di Paola Saliola

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Convegno a Torino: «LA ROMANIA E I DIRITTI UMANI»

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Un convegno internazionale italo-­romeno a Torino
«LA ROMANIA E I DIRITTI UMANI»
A vent’anni da una tragedia misconosciuta

Torino, sabato 24 settembre 2011 Ore 9,30-­18

Centro Congressi Regione Piemonte

Corso Stati Uniti, 23 – Torino

Programma

9,30
Apertura lavori
Bruno Labate (PoesiAttiva)
don Fredo Olivero (Pastorale Migranti Torino)
Giampiero Leo (consigliere Regione Piemonte)

10,00 – UNA GRANDE MENZOGNA: LA RIVOLUZIONE DEL DICEMBRE 1989
Grigore Cartianu Giornalista di «Adevarul», autore di Sfarsitul Ceausestilor. Sa mori impuscat ca un animal salbatic (La fine dei Ceausescu: morite ammazzati come un animale selvatico) e Crimele revolutiei (I crimini della rivoluzione)
L’intervento sarà tradotto con traduzione consecutiva

11,00 – L’ULTIMO GIRONE: L’ESPERIMENTO PITESTI
Dario Fertilio giornalista del «Corriere della Sera», scrittore, autore di Musica per lupi, saggio–‐romanzo storico sull’Esperimento Pitesti

12,00 – Dibattito

13,00 – Buffet aperto a tutti

15,00

LA FUNZIONE GEOPOLITICA DELLA ROMANIA
Claudio Mutti Romenista, saggista, traduttore, redattore della rivista Eurasia, membro del Consiglio direttivo dell’IsAG (Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze ausiliarie), fondatore e direttore delle Edizioni all’Insegna del Veltro

16,00 – LA GUARDIA DI FERRO E IL PROCESSO CONTRO CORNELIU ZELEA CODREANU
Luca Bistolfi Giornalista e saggista, studioso di Romania, redattore della rivista in rete EaST Journal

17,00 – Dibattito e chiusura dei lavori

Durante l’incontro sarà proiettato un filmato contenente una testimonianza di un sopravvissuto al carcere di Pitesti

Per informazioni: 389.0539569

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Alessandro Lattanzio, Terrorismo sintetico

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Alessandro Lattanzio
Terrorismo sintetico
Prefazione di Massimo Mazzucco
Edizioni all’Insegna del Veltro, Parma 2007, pp. 184, € 20,00

Alessandro Lattanzio raccoglie in questo testo i principali capi d’accusa mossi da studiosi di tutto il mondo alla “versione ufficiale” degli attentati dell’11 Settembre 2001, versione elaborata e diffusa (troppo velocemente?) da gran parte della stampa mondiale previa approvazione del governo statunitense.

Una sostanziale riorganizzazione della notevole quantità di dati riguardanti gli avvenimenti di quel giorno, maledetto prima dal popolo statunitense, poi da quelli europei ed oggi soprattutto da quello afgano ed iracheno.
Non quindi una semplice analisi degli avvenimenti simbolo del “terrorismo sintetico”, quanto piuttosto la costruzione di un quadro complesso e ricco di elementi politici, economici e militari, supportata da numerosi riferimenti ad articoli, perizie e studi oggi facilmente consultabili anche tramite internet.
Centinaia sono infatti i portali in rete che si sono occupati a diverso titolo della dinamica degli “attentati”, l’impatto dei velivoli sulle costruzioni, le caratteristiche costruttive e le specifiche tecnico-dimensionali dei fabbricati e degli aerei coinvolti negli eventi. Tra i soli riferimenti bibliografici del testo trovano posto oltre novanta siti internet, di cui almeno una ventina realizzati in lingua italiana.
È quindi proprio la rete di Internet, che al pari ad esempio del sistema satellitare GPS rappresenta la svolta commerciale della tecnologia militare americana in parte sfuggita al controllo dei propri ideatori, a consentire ancora oggi uno sviluppo ipertrofico degli studi sul 9/11 condotti da periti, tecnici, studiosi, fino ai semplici appassionati.
Il primo passo dell’indagine è simbolicamente compiuto ai vertici dell’apparato militare statunitense, il Pentagono, ove la teoria dei “terroristi islamici” che dirottano un aereo civile e lo fanno schiantare contro il palazzo presenta da subito molti lati oscuri: a seguito dell’impatto non si troverà infatti alcun resto dell’aereo, delle sue scatole nere, dei bagagli, ecc.
Da Washington si sono affrettati a spiegare che il calore sprigionato dall’esplosione avrebbe letteralmente polverizzato il velivolo (1) (da qui l’impossibilità di recuperarne i frammenti) dimenticandosi di chiarire come sia stato poi possibile per l’AFIP (2) identificare i corpi dei passeggeri morti nello schianto; forse i materiali dei velivoli sono più fragili del corpo umano?
Nel caso delle Torri Gemelle (World Trade Center 1 e 2), la versione data da fonti governative sull’attentato appare ancora più debole, in quanto imputa agli incendi provocati dal carburante degli aerei in collisione l’indebolimento delle strutture ed infine il loro crollo.
Praticamente impossibile, se si pensa che il calore sprigionato dal carburante per pochi minuti e parzialmente fuoriuscito all’esterno del palazzo non potrebbe in alcun modo raggiungere temperature prossime al punto di fusione dell’armatura e della carpenteria metallica dei due grattacieli.
Si domanda giustamente Lattanzio: “perché la Torre Sud del WTC è crollata per prima, quando non era così estensivamente danneggiata come la Torre Nord, che è bruciata per quasi un’ora e mezzo prima di crollare? […] la Torre Sud crollò alle 9.59, ossia 56 minuti dopo l’impatto, mentre la Torre Nord crollò alle 10,29, vale a dire 1 ora e 44 minuti dopo l’impatto. Se l’incendio fosse stato la causa del crollo, allora la Torre Nord, con un incendio più intenso, sarebbe dovuta crollare prima. O almeno avrebbe dovuto cedere prima (non dopo) della Torre Sud”.
Stavolta sono persino le leggi della fisica ad essere messe in crisi dagli imprendibili terroristi di Al Qaeda.
Nel caso delle Torri Gemelle le incongruenze sono macroscopiche ed assai numerose, tali da suggerire l’unica risposta possibile: “[…] le demolizioni convenzionali ebbero una notevole parte nel disastro dell’11 settembre, visto quanto pesantemente erano state imbottite con esplosivi. Ciascun crollo degli edifici del WTC si verificò ad una velocità praticamente da caduta libera (circa 10 secondi o meno) […] Gli esperti in soccorsi furono meravigliati da quanto fossero fini i pezzi dei detriti”.
Molti testimoni hanno udito forti esplosioni all’interno degli edifici: “Ciascun crollo ha prodotto acciaio fuso identico a quello generato da esplosivi, che causano “punti caldi” che persistono per dei mesi…”.
Difficile davvero credere che in tale scenario, dove tutto il calcestruzzo viene polverizzato e l’acciaio fuso, sia stato possibile “ritrovare” intatto il documento che vorrebbe inchiodare i responsabili dell’attentato: il passaporto di Mohamed Atta, uno dei presunti attentatori che però non risulta negli elenchi degli passeggeri imbarcati sui due velivoli; strano davvero che un attentatore viaggiasse sotto falso nome negli Stati Uniti portando con se anche i veri documenti d’identità.
Impossibile anche spiegare con gli effetti degli incendi il crollo del WTC7, un edificio dalla forma massiccia ubicato in posizione marginale rispetto al complesso edilizio, considerando che lo stesso è crollato al suolo con modalità simili alle Torri, ma senza essere in alcun modo danneggiato o colpito dagli aerei e dai crolli degli altri edifici; anche in questo caso lo schianto avviene in pochi secondi, perfettamente verticale: “Come mai i terroristi si impegnano a fare crollare verticalmente le Torri del WTC, quando con una caduta per “ribaltamento”, assai semplice da ottenere, avrebbero provocato maggiori danni al centro di Manhattan?”.
È un ingegnere esperto nella progettazione di demolizioni controllate di vecchi edifici a confermare che il lavoro sarebbe stato eseguito a regola d’arte.
Davvero notevole quindi la quantità di prove raccolte nel corso degli anni a sostegno della tesi “non ufficiale”, quella secondo cui la catena di sanguinosi attentati condotti con gli aerei civili sarebbe stata ideata o almeno in gran parte concordata con i centri di potere politico e finanziario del paese.
Per contro, le risposte fornite dai diversi enti nordamericani coinvolti nelle indagini (FEMA, FAA, NORAD, ecc.) fanno emergere una sostanziale illogicità della tesi proposta dal governo nordamericano; facile a questo punto capire per quale ragione lo stesso popolo americano, con gli occhi puntati sulla disastrosa campagna militare Enduring Freedom, oggi propenda in gran parte per la tesi della “questione interna”.
Non si deve dimenticare che proprio negli Stati Uniti sono state condotte le indagini più rigorose e dettagliate sugli attentati.
Le pagine conclusive analizzano una grande quantità di informazioni raccolte in merito a sospette speculazioni finanziarie succedutesi fino a pochi giorni prima dell’11 settembre 2001 (3), nonché all’arresto di numerosi cittadini israeliani nelle indagini antiterrorismo condotte nei mesi successivi agli attacchi.
Tra i tanti, l’autore richiama alla mente i cinque cittadini israeliani arrestati mentre filmavano festosi le rovine fumanti delle Torri Gemelle appena colpite. Interrogati e perquisiti, i cinque risultarono tutti impiegati presso un’azienda israeliana con sede negli Stati Uniti, sospettata di dare copertura alle attività del Mossad. Gli stessi giovani, dopo essere stati rilasciati e rispediti in Israele, dichiararono di essere arrivati sul posto con l’intento di documentare gli attacchi terroristici, quegli stessi attacchi che per una parte dell’opinione pubblica israeliana avrebbero potuto rendere più digeribile agli statunitensi la repressione israeliana nei confronti del popolo palestinese.
Non essendo possibile coprire la distanza tra Tel Aviv e New York in un’ora, è chiaro che almeno i “datori di lavoro” dei cinque trattenuti dovevano conoscere in anticipo le mosse dei dirottatori.
L’intromissione del governo israeliano in questa ed in altre simili operazioni ha però cancellato di fatto ogni possibilità di capire se gli arrestati fossero solo a conoscenza degli attacchi terroristici o fossero parte dell’apparato organizzatore.
Da qui le critiche che hanno portato i sostenitori del progetto atlantista a bollare come “assurdo cospirazionismo” lo studio di risposte alternative risultanti molto più credibili di quelle date dall’amministrazione centrale degli Stati Uniti.
Tra la versione dei fatti fornita dall’amministrazione Bush e la verità esiste quindi un ostacolo molto simile ad una sorta di blocco psicologico, il quale affligge in particolare noi cittadini europei, rendendoci incapaci di compiere un’analisi critica degli avvenimenti: “pare impossibile che degli “occidentali” possano avere preparato e messo in opera un simile progetto criminale coinvolgendo tante vittime civili”, pareva dichiarare l’opinione di fronte alle prime incongruenze (4).
Sono infatti proprio le oltre 2500 vittime dell’11 Settembre a richiamare il carattere cinicamente apolide delle oligarchie politico-finanziarie che negli Stati Uniti hanno, almeno, un ufficio o una sede legale.

Luca Bionda
( 11 Maggio 2007 – Eurasia)

Note
1 – La maggior parte degli esperti e dei tecnici indipendenti ritiene che in tale caso l’esplosione potrebbe essere stata prodotta da un missile sparato a breve distanza dal Pentagono. Le dimensioni della breccia prodotta nell’impatto sono sensibilmente minori rispetto a quelle del velivolo, mentre l’altezza del punto di collisione con la facciata testimonia l’impossibilità da parte di un grosso aereo di linea di compiere una simile manovra a bassa quota senza impattare altre strutture limitrofe.
2 – Istituto di Anatomopatologia delle Forze Armate degli Stati Uniti.
3 – Diverse banche e società finanziarie coinvolte a diverso titolo nelle attività del World Trade Center hanno effettuato operazioni “sospette” in borsa nel periodo immediatamente antecedente agli attacchi terroristici.
4 – Di tutto ciò ci avverte già in prefazione Massimo Mazzucco, autore di “Inganno globale”, il migliore documentario finora realizzato sul tema del 09/11.

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La Siria sveglierà il BRICS?

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Fonte: http://www.dedefensa.org/article-la_syrie_reveillera-t-elle_le_brics__06_09_2011.html 6 Settembre 2011

Domenica, dopo un incontro con il ministro degli esteri brasiliano Antonio Patriota, il ministro degli esteri russo Lavrov ha dichiarato che “se i paesi BRIC avranno effettivamente voce in capitolo, lo scenario libico non si ripeterà in Siria.”

Secondo quanto riportato da Russia Today (4 settembre 2011), dopo una rapida consultazione con gli altri paesi del gruppo (BRICS), il ministro russo avrebbe precisato:

“‘Le nazioni BRICS cercheranno di impedire che uno scenario di tipo libico sia usato in Siria“.

I commenti del ministro riguardo i paesi BRICS – Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa – sono giunti dopo un incontro con il suo omologo brasiliano, Antonio Patriota. ‘Siamo fermamente convinti che sia inaccettabile istigare l’opposizione siriana a continuare a boicottare i suggerimenti per avviare un dialogo’, ha detto Lavrov. ‘Questo è un invito a una ripetizione dello scenario libico. Le nazioni BRICS non permetteranno che ciò accada. Il Consiglio di sicurezza dell’ONU non tollererà come tali risoluzioni verranno applicate’ ha detto Lavrov, ‘nel caso in cui il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite domandi la fine delle violenze in Siria – non importa da chi sollevata – e spinga tutte le parti al dialogo'”.

Il sito Russia Today, ha ripreso (il 5 Settembre 2011) l’informazione e l’ha sviluppata nella forma di un’intervista con un esperto indiano, il dottor Sreeram Chaulia, professore presso la School of International Affairs di Jindal. Dr. Chaulia adotta la tesi di una strategia di espansione neo-coloniale dei paesi del blocco che eglii definisce Blocco Americanista-Occidentalista (BAO). Egli ritiene che i paesi BRIC, incluso il proprio, siano naturalmente designati ad opporsi alla deriva neocoloniale, soprattutto alle Nazioni Unite e nel campo delle sanzioni per un paese, che il blocco BAO richiede generalmente come primo passo prima di considerare l’invasione di quel paese, o un intervento diretto nei suoi affari interni.
“‘Abbiamo bisogno di evitare ciò e l’unico modo per farlo è che i BRICS formino un fronte unito’, ha detto. ‘E’ necessario contestare le ambizioni egemoniche.’ Ritiene che il BRICS sia un microcosmo del movimento verso un vero mondo multipolare. ‘Si può avere una genuina multipolarità solo attraverso l’azione congiunta da parte delle nazioni BRICS, per prevenire ciò’, ha detto. ‘Se abbiano successo o meno è una questione di proiezione di potenza sul terreno. Diplomaticamente, sì, Russia, Cina, India, Brasile, Sud Africa hanno inviato degli emissari in Siria e sono tutti coinvolti dietro le quinte'”.
L’originalità dell’apprezzamento del Dr. Chaulia è che considera il caso in cui il BRICS non riesca a fermare la deriva americano-occidentalista verso l’intervento. Ciò porterebbe al momento in cui l’opzione militare verrebbe considerata, e questo potrebbe essere il caso della Siria. Che fare in questo caso? Chaulia ha una risposta pronta: l’Iran.
“‘L’unico deterrente che evita altri interventi di tipo libico da parte dell’Occidente, è il fatto che l’Iran sostiene il regime siriano’, ha detto. ‘Impediranno materialmente l’acquisizione della Siria, nel modo in cui le potenze occidentali hanno praticamente occupato la Libia – col dirottamento delle risoluzioni delle Nazioni Unite per proteggere i civili.’ Chaulia ritiene che sia importante per il BRICS coordinarsi con l’Iran e fare in modo che ci sia una ‘transizione pacifica del potere’ e un passaggio alla democrazia, che è il messaggio principale che i membri del blocco inviano. ‘E infatti è un messaggio migliore del ‘metodo del grosso bastone’ della immediata imposizione di sanzioni per ‘salvare vite umane’, di cui statunitensi ed europei parlano’, ha concluso Chaulia”.
Il BRICS ha attraversato un periodo difficile negli ultimi mesi, che corrisponde esattamente al difficile periodo in cui la Russia ha perso la sua solita linea diplomatica. Il voto della risoluzione ONU 1973 a marzo (“protezione dei civili” in Libia), che ha trasgredito il principio (di non ingerenza nella sovranità) a nome di una situazione (massacri di civili) di cui s’è visto che era quantomeno relativa, è stato da parte dalla Russia un errore basato sul ragionamento pigro e l’illusione che, una linea diplomatica ragionevole, possa essere seguita in questo quadro con il blocco BAO. La trasgressione di un principio è innegabile, il cui precedente resta, mentre il giudizio di una situazione dipende da molte contingenze, soprattutto in questo periodo, se non manipolato dal sistema mediatico. (Per “principio” si intende una dinamica di strutturazione come la sovranità e la legittimità, da non confondere in alcun modo con una scelta ideologica, un’alleanza, ecc.)
Con la Russia così imbrigliata, il BRICS, che dipende principalmente da essa per gli impulsi diplomatici (la Cina, più potente, preferisce rimanere defilata), non ha mantenuto le promesse che alcuni – tra cui i russi, inoltre, – avevano fatto a suo nome riguardo la Libia. L’idea è ovviamente che un simile raduno di potenze emergenti, anche informale e suscitato dalla mera dimensione economica, abbia lo scopo di ricercare una certa unità di cooperazione, coordinamento e azione diplomatica; questo è particolarmente vero quando le relazioni internazionali sono sotto l’influenza di una forza di destrutturazione e di dissoluzione come il blocco BAO. Il BRICS dovrebbe poi ritrovare l’eredità del Movimento dei Paesi Non Allineati degli anni ’50 (la Conferenza di Bandung), con la Russia questa volta completamente integrata dalle sue opzioni diplomatiche e dalla totale assenza della dimensione ideologica.
Ovviamente, il suggerimento del Dr. Chaulia va ben oltre questo unico apprezzamento teorico, evocando in modo così preciso il caso dell’Iran. L’ipotesi costituisce un caso molto meno convenzionale, e apre delle prospettive stupefacenti apparendo come una minaccia diretta contro la costruzione dell’antagonismo concesso della narrativa americanista-occidentalista. L’ipotesi sarebbe ancora maggiore se l’Iran si prestasse al gioco, per l’Iran stesso e per la Siria, estraendo il paese dal purgatorio assegnatogli da questa narrativa del blocco BAO.
Non importa, per ora, il destino di questa proposta e la validità delle ipotesi. Rimane una lezione importante. Se il BRICS si muoverà con buone intenzioni per un’azione efficace nelle relazioni internazionali, sarà presto in una posizione di antagonismo con i modelli più importanti della narrativa BAO. Per ora, la questione dell’azione del gruppo BRICS rimane confinata alla proposta di risoluzione della Russia alle Nazioni Unite, riguardo la Siria, che è attualmente esaminata assieme all’altra proposta, del blocco BAO. Oltre alla Cina, altri paesi BRIC sostengono pienamente questa proposta, come hanno annunciato i russi il 29 agosto, 2011. (Va anche notato, forse con qualche ironia, che i francesi hanno fatto sapere che giudicavano che c’era una possibilità di sintesi delle due risoluzioni, che si sentivano assai vicini ai russi sulla questione siriana. Dopo l’avventura libica e in attesa della consegna della portaelicotteri Mistral alla Russia, la diplomazia francese mostra una grande capacità di flessibilità. I russi hanno definito “parziale” la risoluzione del blocco BAO, dove la Francia ha la sua parte.)

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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La CIA si è trasformata in un’organizzazione paramilitare

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In un’intervista rilasciata a Carta Maior, lo storico ed esperto politico, Luiz Alberto de Vianna Moniz Bandeira, segnala l’azione clandestina delle forze speciali degli Stati Uniti, l’Inghilterra e la Francia nei conflitti della Libia e della Siria e critica la politica estera del governo di Barack Obama che fa uso dei diritti umani per giustificare interventi in qualsiasi parte del mondo. “La CIA sta diventando sempre più una forza paramilitare con l’abbandono del suo ruolo di agenzia di spionaggio e raccolta dati. I droni, aerei privi di equipaggio, teleguidati dalla CIA, hanno già ucciso, dal 2001, più di 2.000 presunti militanti e civili in vari paesi”, afferma Moniz Bandeira.

Carta Maior: Qual è la sua valutazione per quanto concerne la partecipazione delle grandi potenze occidentali, in particolare, gli Stati Uniti, l’Inghilterra e la Francia nei conflitti della Libia e della Siria. Esiste una medesima logica che agisce in entrambi i casi?

Moniz Bandeira – Non si tratta di teoria cospirativa. Ma si ha l’impressione che ci sia una logica nella successione delle insurrezioni che, iniziate in Tunisia nel dicembre 2010, successivamente e simultaneamente si sono estese in Egitto e in Siria, il 25 e il 26 gennaio 2011 e, infine, in Libia, il 17 febbraio. Le condizioni economiche, sociali e politiche erano mature. In tutti questi paesi c’è un enorme tasso di disoccupazione che colpisce una grossa fetta della popolazione giovanile, estrema povertà, inflazione, prezzi in rialzo nel settore degli alimenti e il risentimento politico provocato dalla repressione delle dittature.

È ormai confermato che militari delle forze speciali degli Stati uniti, dell’Inghilterra e della Francia, vestiti da arabi, i false-flaggers, cioè un “illegal-team”, con identità di altri paesi, di modo che non possano essere identificati come inglesi, americani o francesi, stanno operando allo scoperto in Libia e non si può scartare la possibilità che agenti della CIA e del M16 si trovino anche in Siria. È poco probabile che le manifestazioni di protesta, iniziate il 26 gennaio, continuino ancora ad affrontare quotidianamente una dura repressione, dopo otto mesi, senza avere prima ricevuti incoraggiamenti e qualche appoggio da parte della Santa Alleanza – Stati Uniti, Inghilterra e Francia. WikiLeak alcuni mesi fa ha rivelato una comunicazione segreta da parte dell’Ambasciata degli Stati Uniti a Damasco su “Next Steps For A Human Rights Strategy”, informando che, dal 2005 fino a settembre 2010, gli Stati Uniti, con le risorse del Middle East Partnership Initiative (MEPI), hanno erogato segretamente ai gruppi dell’opposizione in Siria la quantità de US$ 12 milioni, così come hanno finanziato l’installazione di un canale satellitare che trasmette all’interno del paese programmi contro il regime di Bashar al-Assad.

Carta Maior: Oltre a questi incoraggiamenti stranieri, quali altri fattori starebbero contribuendo ad alimentare le proteste in Siria?

Moniz Bandeira – Esistono forti fattori religiosi. La maggioranza della popolazione in Siria è salafista, una delle correnti fondamentaliste dell’Islam che pretende di ristabilire i primitivi principi religiosi del Corano. È simile al wahabismo, dottrina difesa da Muhammad ibn Abd-al-Wahhab, e prevalente in Arabia Saudita. Bashar al-Assad, tuttavia, è un alauita, un altro segmento dell’Islam, che cela la sua dottrina con la taqiyya, una pratica sciita, setta islamica dominante nell’Iran e verso la quale è più vicina. Gli alauiti costituiscono solo il 10% della popolazione siriana, ma dominano e controllano tutta la struttura dello Stato da ormai alcuni decenni, almeno sin dagli anni settanta, quando Hafez al-Assad, del partito Ba’ath, si fece carico della presidenza della Siria.

Il partito Ba’ath, fondato a Damasco nel 1946, combinava ideali egualitari, socializzanti, interessi nazionalisti e obiettivi panarabi, contrari alla politica imperialista delle potenze occidentali. Alcune delle sue diramazioni spuntarono in altri paesi del Medio Oriente, come in Iraq, dove mantenne il potere fino alla caduta di Sadam Hussein, nel 2003.

Carta Maior: Siria possiede poco petrolio. Quale o quali sono gli interessi degli Stati Uniti, della Francia e dell’Inghilterra nell’abbattimento del regime di Bashar al-Assad?

Moniz Bandeira – Questi paesi hanno degli interessi strategici come, ad esempio, l’assunzione del controllo di tutto il Mediterraneo e isolare politicamente l’Iran che è alleato con la Siria, così come ridurre l’influenza della Russia e della Cina nel Medio Oriente. La Russia, dal 1971, opera nel porto di Tartus, in Siria, e progetta di ristrutturarlo e ampliarlo come base navale nel 2012, di modo che possa accogliere grandi navi da guerra, garantendo in questo modo la sua presenza nel Mediterraneo. Il fatto è che anche la Russia programma d’installare basi navali nella Libia e nello Yemen. E, secondo da quanto si può dedurre dal telegramma dell’Ambasciata degli USA a Damasco, pubblicato da WikiLeaks, tutto segnala che il finanziamento all’opposizione siriana sin da almeno il 2005, puntava alla caduta del regime di Bashar al-Assad, in modo da impedire un maggiore approfondimento, in ambito navale, dei suoi rapporti con la Russia.

È dovuto a questo che gli Stati Uniti difficilmente riusciranno ad allargare in Siria la stessa strategia che ha sottoposto alla Libia, insieme con la Gran Bretagna e la Francia. La Russia è ancora percepita dagli Stati Uniti come la sua grande rivale e la Cina si oppone alle sanzioni del regime di Bashar al-Saad.

Carta Maior: In questo contesto, come può essere intesa la dottrina del presidente Barack Obama per quanto concerne la politica estera degli USA?

Moniz Bandeira – Nel discorso pronunciato nella George Washington University il 28 marzo 2011, il presidente Obama dichiarò che, anche se la sicurezza degli americani non è direttamente minacciata, l’azione militare può essere giustificata – in caso di genocidio, ad esempio- e gli Stati Uniti possono intervenire, ma non agiranno isolatamente. La sua dottrina è questa, egli specificò chiaramente nel discorso pronunciato al Parlamento britannico, durante la visita di Stato che fece nel Regno Unito tra il 24 e il 16 maggio 2011. Il presidente Obama disse che “we do these things because we believe not simply in the rights of nations; we believe in the rights of citizens”. E più avanti dichiarò che non ha alcun peso l’argomento secondo il quale “a nation’s sovereignty is more important than the slaughter of civilians within its borders” e riconfermò che “noi” pensiamo in modo diverso, accettiamo una responsabilità maggiore, per esempio, che la comunità internazionale deve intervenire quando un leader sta minacciando di massacrare il suo popolo.

Queste parole significano che gli Stati Uniti, congiuntamente con la Gran Bretagna e la Francia non rispetteranno più le norme del Diritto Internazionale stabilite dal Trattato di Westphalia, fondato sulla base dei principi di sovranità nazionale e potranno intervenire in qualsiasi paese con il pretesto di ragioni umanitarie o per la difesa della popolazione civile, ma che in realtà sarà per la difesa dei propri interessi economici e strategici. Così, i capi di governo degli Stati Uniti, della gran Bretagna e della Francia, se lo desiderassero, potrebbero addurre la difesa della popolazione indigena o del medio ambiente e invadere l’Amazzonia.

La questione dei diritti umani e la difesa delle popolazioni civili è diventata una panacea utile affinché gli Stati Uniti, la Francia e la Gran Bretagna possano violare i diritti umani con rigorosi embarghi commerciali, e massacrare popolazioni civili, come hanno fatto in Libia. Quello che il presidente Obama pretende anche, continuando con altri mezzi la politica del presidente George W. Bush, è trasformare il concetto della NATO, contraddicendo il proprio trattato che l’ha prodotto, conferendogli capacità di polizia globale (global cop) per fronteggiare le “nuove minacce”, come “terrorism and piracy, cyber attacks and ballistic missiles”.

Ciò significa che la NATO smetterà di essere un’organizzazione per la difesa dell’Europa occidentale, scopo della sua creazione durante la Guerra Fredda, e diventerà uno strumento di aggressione, pronto a intervenire in tutti i continenti, con o senza autorizzazione dell’ONU. Le sanzioni contro la Siria sono identiche a quelle applicate contro la Libia, subito dopo la ribellione. È il primo approccio per intervenire nel conflitto interno di un qualsiasi paese, il cui governo non conviene alla Santa Alleanza, che reprime le manifestazioni per abbatterlo. Ma, con ogni evidenza, le manifestazioni popolari contro le dittature nell’Arabia Saudita, Bahrein e Giordania, clienti degli Stati Uniti, non potranno ricevere un aiuto qualsiasi.

Carta Maior: Nello specifico, quale sarebbe questa strategia degli Stati Uniti in Medio Oriente e nell’Africa settentrionale e quali forze speciali starebbero agendo in Libia e, probabilmente, anche in Siria?

Moniz Bandeira – L’attuale strategia degli Stati Uniti, resa operativa dal presidente Obama, il quale si è meritato il premio Nobel delle Pace, è quella di allargare l’impiego dei droni, aerei armati e guidati elettronicamente dalla CIA, per ammazzare presunti terroristi, militanti di al-Qa’ida e talebani, comprese centinaia di civili inermi, come sta facendo in Libia, Afganistan, Pakistan e lo Yemen. Questo è il nuovo compito della CIA che sta diventando sempre di più in una forza paramilitare, abbandonando il ruolo di agenzia di spionaggio e di raccolta informazione. I droni (General Atomics MQ-1 Predator) aerei senza piloti, telecomandati dalla CIA, hanno già ucciso sin dal 2001 più di 2.000 presunti militari e civili e il Centro Antiterrorismo (CTC) attualmente dispone circa 2.000 impiegati che lavorano nell’individuazione dei bersagli per poi attaccarli.

Il presidente Obama ha incrementato queste operazioni senza mettere in rischio la vita dei soldati, così come l’introduzione di un’altra organizzazione militare che, dal 2001, ha ucciso e interrogato più presunti terroristi e talebani che non la CIA. Si tratta della Joint Special Operations Command (JSOC), la quale è subordinata all’U.S. Navy SEAL’s (Sea, Air and Land Teams), che forma parte del Comando di Operazioni Speciali (USSOCOM), unità incaricata di operazioni terrestri e marittime, guerra non convenzionale, riscatto, terrorismo, antiterrorismo, ecc. un comando della SEAl ha ricevuto la missione di assassinare Osama Bin Laden in Pakistan, il 2 maggio 2011. Questo è il compito per il quale la Joint Special Operations Command (JSOC) è incaricata, mettendo in atto il programma sviluppato dal generale David Petraeus, attuale direttore della CIA, quando comandava le truppe americane in Afganistan.

Il programma consiste in “kill/capture”, cioè, ammazzare/catturare in qualunque regione del mondo, terroristi, talebani, che si fonda in una Prioritized Effects List (JPEL) la quale include persino cittadini americani, che fondamento legale o extra legale, secondo la direttrice di classificazione data dal presidente Obama. Il tenente colonnello John Nagl, consulente di contro insorgenza del generale David Petraeus in Afganistan, considera che l’JSOC sia una macchina per uccidere, su scala quasi industriale, pensata contro il terrorismo (“an almost industrial-scale counterterrorism killing machine”). In realtà, si tratta di un comando di squadroni della morte del Pentagono.

Comandi del SEAL’s hanno operato in Libia, così come quelli della Direction générale de la sécurité extérieure (DGSE), della Brigade des forces spéciales terre (BFST), subordinata a Commandement des opérations spéciales (COS), M16 (Inteligence Service) e Special Air Service SAS (Special Air Service) come se fossero arabi, i cosiddetti “ribelli” non avrebbero avanzato di molto oltre Benghazi. Il 20 agosto, giorno in cui si è concluso il digiuno imposto dal Ramadan, una nave della NATO sbarcò nel litorale della Libia con armi pesanti, vecchi jihadisti e truppe speciali dell’JSOC, degli Stati Uniti, BFST, della Francia e SAS, del Regno Unito, sotto il comando degli ufficiali della NATO, che hanno proceduto alla conquista di Tripoli.

Il bilancio dell’Operation Odissey Dawn, dopo 100 bombardamenti da parte della NATO, è tragico: 6.121 civili morti e feriti. Secondo le statistiche 3.093 sono stati ammazzati o feriti; 260 donne uccise e 1.318 ferite; 141 bambini morti e 641 feriti. La NATO, a sua volta, informa che nei primi 90 giorni ha eseguito un totale di 13.184 uscite, tra le quali 4.693 attacchi, danneggiando o distruggendo più di 2.500 bersagli militari, circa 460 installazioni militari, 300 sistemi di radar, oltre approssimativamente 170 posti di controllo e comando, e circa 450 carri armati. Il rapporto non si riferisce alle macerie che i bombardamenti hanno lasciato né alle migliaia di vittime civili, morti, feriti, senza tetto e rifugiati.

Questo è stato l’esito della Risoluzione 1.973 del Consiglio di Sicurezza Nazionale, che autorizza la Santa Alleanza (Stati Uniti, Inghilterra e Francia) proteggere i civili in Libia e che è stata sfruttata per legittimare il diritto d’intervento umanitario per difendere i propri interessi economici, geopolitici e strategici nel mediterraneo. Questo è il modo americano di fare la guerra (American Way of War), adottato dal presidente Obama. Ma gli obiettivi sono identici a quelli di George W. Bush nell’assecondare gli interessi del complesso industriale – militare. Senza intervenire unilateralmente, lui desidera attuarli, trasformandoli con la NATO, in modo da dividere i costi con i suoi membri, principalmente l’Inghilterra, la Francia e la Germania, con lo scopo di evitare che la guerra si percepisca come una faccenda tra gli Stati Uniti e la Libia o qualsiasi altro paese.

Carta Maior: Quale deve essere il futuro della Libia? Lei crede che Gheddafi possa resistere e restare come un influente agente politico nel conflitto?

È difficile da prevedere. La Libia è ancora un paese diviso in tribù e la lealtà è essenziale tra i suoi membri. In ogni caso, vivo o morto, lo spettro di Gheddafi, come comandante o mito, formerà parte della resistenza che alla fine si organizzerà, perché le tribù non accetteranno la presenza di truppe straniere nel loro territorio. Tuttavia, una delle conseguenze dell’”intervento umanitario” in Libia sarà probabilmente la proliferazione di armi nucleari introdotte dalle importazioni clandestine di uranio naturale, centrifughe e strumenti di trasformazione, così come la costruzione d’installazioni di piccola scala. Se lui avesse sviluppato il suo programma di armi nucleari, la campagna di bombardamenti della NATO sarebbe avvenuta? – domandò Leonam dos Santos Guimarães. La risposta sarebbe certamente no. Il diritto internazionale si rispetta solo quando esiste un certo equilibrio di potere e le nazioni minacciate hanno la possibilità di compiere una rappresaglia. È per questa ragione che è quasi impossibile impedire a Iran di sviluppare le sue armi nucleari, non perché debba attaccare Israele, ma per difendersi dalla Santa Alleanza occidentale.

Carta Maior: Per quanto concerne la Siria, quale è la sua valutazione sulla posizione delle altre nazioni arabe ed’Israele di fronte a questo conflitto?

Moniz Bandeira – Non ci sono informazioni sul coinvolgimento di altre nazioni arabe né d’Israele in Siria, dove per il momento non c’è una vera e propria guerra civile, ma un’ondata di proteste. Tutti stanno vedendo gli sviluppi della crisi. Anche la Siria è un paese diviso in molte tribù e il governo conta con l’appoggio d’Iran che, con ogni probabilità, gli fornisce o gli può fornire armi. Sono molto stretti i suoi collegamenti con gli Hezbollah, una forza politica e paramilitare sciita con sede in Libano. Corre voce che gli Hezbollah dispongono dai 30.000 ai 40.000 missili puntati su Israele e difficili da localizzare, perché sono installati in abitazioni familiari. Questa è una delle ragioni – e ci sono altre – per la quale né gli altri paesi arabi né Israele vogliono vedersi coinvolti nelle proteste che stanno avvenendo in Siria.

Carta Maior: I tamburi di guerra stanno suonando in Israele, di fronte alla prospettiva di riconoscimento, a settembre, dello Stato palestinese all’ONU. Esiste, secondo il suo criterio, la possibilità di una generalizzazione dei conflitti in Medio Oriente?

Moniz Bandeira – È previsto che Mahmoud Ridha Abbas (Abu Mazen), in quanto presidente dell’Autorità Palestinese, pronuncerà un discorso nella 66a Assemblea generale dell’ONU che si svolgerà tra il 21 e il 27 settembre prossimo, con il quale solleciterà il riconoscimento dello Stato palestinese. L’ammissione di un nuovo membro richiede l’appoggio dei 2/3 degli Stati presenti nell’Assemblea generale. Se dovesse ottenere questo quorum l’Autorità Palestinese, in quanto Stato, sarà ammessa solo nella condizione di osservatore, giacché il riconoscimento come membro a tutti gli effetti dipende dall’approvazione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU e, di conseguenza, dal voto degli Stati Uniti.

C’è una grande attesa in Israele, riguardo alla posizione che adotterà gli Stati Uniti nell’Assemblea Generale, giacché il 5 settembre ha reso pubblico alla stampa l’informazione che l’ex segretario della Difesa del presidente Barack Obama, Robert Gates, prima di andare in pensione quest’anno, ha criticato duramente il primo ministro d’Israele, Benjamin Netaniahu, nella riunione del National Security Council Principals Committee degli Stati Uniti. Gates qualificò Israele di “an ungrateful ally” (alleato ingrato) e ha affermato che la politica di Netanihau mette il suo paese in pericolo quando sostiene di rifiutare i negoziati, di fronte a un crescente isolamento e alla sfida demografica, se continua a controllare la Striscia di Gaza. Si pensa che la notizia sia stata divulgata con il beneplacito di Obama, come avvertenza a Netanihau.

Quello di cui si ha paura a Tel Aviv è che milioni di palestinesi esiliati negli altri paesi arabi, si dirigano verso le frontiere d’Israele e avanzino sul suo territorio se l’Assemblea generale dell’ONU riconoscerà lo Stato palestinese, anche se come osservatore. I palestinesi esiliati non hanno altra nazionalità perché; nei ’50, la Lega Araba decise di non concedergliela con lo scopo di conservare nell’agenda la necessità di crear lo Stato palestinese.

*Luiz Alberto de Vianna Moniz Bandeira, professore di Politica estera del Brasile (Universidade de Brasilia), ha tenuto lezioni in numerose università di tutto il mondo. Nel 2005 è stato nominato intellettuale brasiliano dell’anno dall’União Brasileira do Escritores. È console onorario a Heidelberg, decorato con la Bundesverdienst Kreuz dalla Repubblica Federale di Germania. È membro del Comiato scientifico di Eurasia. Rivista di Studi Geopolitici.

(trad. di V. Paglione)

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La Siria nel mirino della NATO

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La Siria nel mirino della NATO: una testimonianza di Gilles Munnier (diario di viaggio Damasco-Hama)
Damasco, 20-21 Agosto 2011

La Siria ha deciso finalmente di esprimersi pubblicamente in merito ai gravi fatti di sangue che hanno sconvolto il paese, a partire dalle prime manifestazioni antigovernative di Deraa (vicino al confine giordano). Pertanto, ho accettato l’invito di un’associazione formata da un gruppo di imprenditori (fra i quali Anas al-Jazaïri, pronipote dell’Emiro Abd el-Kàder) che si propone di appurare in loco l’evolversi della situazione. Ha preso parte al viaggio un centinaio di persone, giornalisti e varie personalità, fra le quali un ambasciatore degli Stati Uniti in pensione e un ex ministro della giustizia turco. Diciamo subìto che costoro, che conoscono Damasco, non hanno riscontrato nella città i cambiamenti e le tensioni riportate ordinariamente dai media. Gli schieramenti di forze militari e di polizia di cui riferisce Al-Jazeera non esistono, se non nei comunicati degli esponenti d’opposizione residenti all’estero.

Sarkozy, uno dei peggiori nemici della Siria

I disordini che stanno sconvolgendo la Siria sono sicuramente oggetto di animate discussioni presso la popolazione. I siriani vogliono sapere cosa pensano i francesi al riguardo e perché Nicolas Sarkozy , che aveva invitato non molto tempo fa Assad a Parigi, è diventato uno dei peggiori nemici della Siria. Il ritardo accumulato dal presidente Assad – nel portare avanti le riforme per il paese – è imputato alle “vecchie barbe” del partito Baath e perciò la cosa non intacca troppo la fiducia verso lo stesso presidente. Tutto si gioca sull’applicazione effettiva delle leggi di democratizzazione annunciate; tuttavia, saranno queste sufficienti a neutralizzare le forze eversive che chiedono il rovescio del regime? Quanto ancora andranno avanti gli Stati Uniti, l’Arabia Saudita, la Francia, Israele, la Turchia ed il Qatar con le loro trame destabilizzatrici? La Russia – verso la quale alcuni striscioni a Damasco esprimevano gratitudine – potrebbe avere un ruolo tutt’altro che secondario per sabotare l’arma dell’embargo occidentale da cui la Siria è minacciata.

Hama, 22 Agosto – Partenza in pullman per Hama, situata a circa 200 km da Damasco. Città conservatrice e recalcitrante verso il potere centrale come il Nahar al-Assi (nome arabo dell’Oronte, il “fiume ribelle” che attraversa la città) lo è nei confronti della natura [l’Oronte è l`unico fiume che scorre in senso opposto rispetto agli altri della regione, ndt]. Sin dalle prime manifestazioni di Deraa, è tornato alla memoria il ricordo della sollevazione di Hama del Febbraio 1982, repressa da Rifaat al-Assad, fratello dell’allora presidente Hafez al-Assad; secondo le stime effettuate, la repressione avrebbe fatto fra i 10.000 e i 20.000 morti. Per taluni osservatori della “Primavera araba”, la questione centrale non era tanto sapere come si sarebbe evoluta la situazione a Deraa, bensì ciò che sarebbe potuto accadere se Hama si fosse nuovamente ribellata.

“Che il regime lasci il potere, che l’ONU intervenga e che giunga la NATO…”

Da allora Hama ha avuto il suo numero di rivolte, saccheggi e morti. Il governatore della città ha tentato di rispondere alla crisi con la negoziazione. Non essendo riuscito ad ottenere risultati concreti, è stato sostituito e il suo successore ha ripreso il controllo della città manu militari. Questi ci riceve presso la prefettura e ci mostra un video girato per le strade e gli edifici della città al termine delle rivolta: una visione apocalittica.

La tappa successiva del nostro programma prevede la visita del palazzo di Giustizia incendiato e di un commissariato attaccato da ‘terroristi’. L’autobus ci attende ma giunti fuori restiamo sorpresi nel trovarci davanti degli oppositori: una quarantina di giovani, non sappiamo da chi radunati, urlano slogan anti-regime. All’incrocio, i militari di guardia, appostati dietro sacchi di sabbia o posizionati sui tetti, restano immobili; un poliziotto in borghese tenta di fermare un manifestante intervistato da una rete televisiva, i compagni dell’intervistato giungono in suo aiuto ma l’agente fugge, inseguito da pochi irriducibili. Vicino a me una giornalista della televisione indiana domanda ad una ragazza in hijab, di circa 17 anni, quali siano le sue rivendicazioni. La ragazza recita in un inglese approssimativo: “Che il regime lasci il potere, che l’ONU intervenga e che giunga la NATO!”. E’ un peccato che la giornalista non abbia chiesto alla ragazza se non reputasse rischioso parlare a viso scoperto ed anche che cosa ritenesse fosse la NATO. Forse un’organizzazione umanitaria…

Teste piantate su lame

Le mura del commissariato attaccate dagli oppositori sono annerite a causa di un incendio, provocato da una bombola di gas trasformata in esplosivo. La facciata è crivellata di colpi d’arma da fuoco di grosso calibro e veicoli carbonizzati ostruiscono il piazzale. Secondo testimonianze di giovani del quartiere, i diciassette poliziotti intrappolati dalle fiamme si sono arresi e degli assalitori “venuti da fuori” li hanno sgozzati e decapitati. Le loro teste sono state piantate su lame e i loro corpi gettati nell’Oronte. La scena orribile, filmata da alcuni complici, è stata inserita su YouTube, certamente per minacciare i funzionari dei servizi di sicurezza che faranno la stessa fine, se non si dimetteranno.

Sulla strada del ritorno, il direttore de L’Index, quotidiano di Constantine [citta algerina, ndt] riceve una chiamata dall’Algeria: un suo collega ha sentito su Al-Jazeera che degli oppositori siriani avevano appena sparato sugli autobus che trasportavano i giornalisti in procinto di lasciare Hama. La notizia è confortante: il canale televisivo arabo non è ancora arrivato a un totale travisamento dei fatti dacché è diventato la voce della Nato.

Da dove arrivano le armi?

Damasco, 20:30 – Fra qualche istante, il presidente Bashar al-Assad riceverà i giornalisti di un canale televisivo satellitare siriano, per rispondere alle domande che tutti si pongono: chi sono gli estremisti infiltrati alle manifestazioni? Chi li ha addestrati? Vero è che possedere un kalashnikov non è così insolito per le famiglie siriane, ma le armi e gli esplosivi utilizzati – o scoperti nei nascondigli – sono nuovi, in gran numero e di qualità. I sospetti conducono naturalmente verso il confine libanese, storicamente una frontiera porosa, ma in tal caso possiamo fare solo delle ipotesi: le armi potrebbero venire dall’Arabia Saudita tramite canali cosiddetti islamisti, controllati finanziariamente da Hariri; oppure da Israele mediante estremisti libanesi cristiani legati al Mossad; o ancora far parte di partite di armi consegnate dalla NATO ai servizi segreti turchi. Le tre possibilità non si escludono a vicenda e potrebbero tutte aver concorso, in diversa misura, all’afflusso di armi verso la Siria. Ciò che è certo, è che il regime baathista si trova a fronteggiare organizzazioni pesantemente armate e che nulla hanno a che fare con le legittime rivendicazioni del popolo siriano.

Damasco, 23 Agosto – Prima del nostro rientro nei rispettivi paesi, ci viene distribuito un testo tradotto di ampi stralci dell’intervista fatta ad Assad e diffusa in serata dalla televisione siriana. Per il presidente, la Siria è vittima di un complotto il cui obiettivo sarebbe il crollo del paese. La situazione sul fronte della sicurezza va migliorando e il presidente ritiene che la destabilizzazione in corso non costituisca un problema insormontabile. Gli attacchi alle postazioni di polizia, gli assassinii, gli agguati ad autobus civili o militari non lo preoccupano oltre misura. “Siamo in grado di affrontare questi problemi in maniera adeguata”. La priorità per lui, quindi, è di migliorare la sicurezza, posto che la soluzione definitiva dei problemi non concerne l’ordine pubblico, ma è anzitutto di tipo politico.
Bashar al-Assad menziona la riunione del comitato centrale del partito Baath del 17 Agosto scorso, nel corso della quale si è discussa l’attuazione dei meccanismi che possano permettere al partito di preservare la sua posizione per i prossimi decenni . Si è anche dibattuta la questione dell’articolo 8 della Costituzione siriana, che riconosce il Baath come partito dirigente; la sua abrogazione necessiterà di un’ampia revisione costituzionale, essendo diversi altri articoli legati a questo.

Elezioni legislative per il prossimo Febbraio?

Il presidente siriano enumera le riforme promulgate (cessazione dello stato d’emergenza, leggi per la costituzione di partiti politici, elezioni pluraliste) e annuncia quelle che seguiranno: legge sull’informazione, creazione di una commissione di revisione costituzionale (la quale avrà dai tre ai sei mesi di tempo per elaborare il programma di riforme), elezioni dell’assemblea popolare nel Febbraio prossimo, di modo da permettere ai partiti di nuova costituzione di fare campagna elettorale. Assad è preoccupato della marginalizzazione delle nuove generazioni; si tratta per lui di un fenomeno molto pericoloso e ritiene invece che i giovani debbano invece giocare un ruolo crescente nella società. Riguardo alla legge sull’informazione, Bashar al-Assad critica le carenze della stampa ufficiale; si dichiara favorevole alla libertà d’espressione ma contrario alla diffusione della stampa in stile tabloid.

Rispondendo ad una domanda sul decreto che concede la nazionalità siriana ai curdi – i quali ne erano ancora privi – Bashar al-Assad ha fatto presente che il testo normativo era pronto già dal 2004, ma l’entrata in vigore era stata rimandata a causa dei disordini allora insorti nelle regioni di al-Assakeh e Qamishli. I curdi – ricorda ancora il presidente – sono una delle componenti della Siria: hanno lottato contro l’occupante francese impegnandosi ai più alti livelli.
Bashar al-Assad è ben cosciente che il primo ciclo di riforme non soddisferà gli occidentali. Il popolo siriano non riceve ordini dall’estero

Ogni qualvolta l’Occidente parla di “diritti umani”, lo fa per ottenere obiettivi che nulla hanno a che vedere con i primi. I paesi occidentali, afferma Bashar al-Assad, “sono responsabili di massacri perpetrati attualmente dall’Afghanistan all’Iraq, passando per la Libia… milioni di martiri, vittime, mutilati, feriti, vedove, orfani, senza parlare del loro sostegno a Israele, che perpetra i suoi crimini contro palestinesi ed arabi”. Il loro scopo, afferma, non è quello di permettere alla Siria di svilupparsi, ma di condurla a rinunciare ai suoi diritti. Il presidente non darà le dimissioni, come chiedono Obama e Sarkozy: lui non è un presidente ‘fabbricato’ negli Stati Uniti e il popolo siriano non riceve ordini dall’estero.

Bashar al-Assad definisce la relazione della Siria con i paesi occidentali come “perennemente conflittuale”. “In tempi sereni – afferma – essi mantengono un atteggiamento cordiale per ingannarci, adesso ci minacciano; cambia solo la forma. (…) Non bisogna temere né il Consiglio di sicurezza, né la guerra psicologica” e continua affermando che dopo la caduta di Baghdad, un funzionario americano era giunto presso di lui per dargli direttive su cosa dovesse fare e – avendo Assad rifiutato di assecondare tali pretese – gli Stati Uniti inviarono al presidente siriano una cartina militare che segnalava gli obiettivi che sarebbero stati bombardati in territorio siriano.

“Noi non ci piegheremo”

Nel 2005, dopo l’assassinio di Rafiq Hariri gli occidentali usarono il Consiglio di sicurezza per attentare alla sovranità della Siria, con il pretesto della necessità un’inchiesta. I paesi occidentali erano allora nel loro apogeo ma, dice il presidente al riguardo: “noi non ci siamo mai piegati. Oggi [i paesi occidentali] sono più deboli di sei anni fa, attraversati da crisi militari, economiche, politiche e sociali. Perché piegarci?… Noi non ci piegheremo!”.

Assad afferma che di fronte all’embargo esistono alternative su quasi tutti i settori a rischio, grazie al sostegno di paesi vicini o amici. La Siria ha esperienza di misure restrittive e dal 2005 si è rivolta ai paesi dell’Est. “L’essenziale è non farsi prendere dal panico (…). La Siria è autosufficiente sul piano alimentare e in passato ha superato molte crisi analoghe , uscendone rafforzata”.

Parigi, 25 Agosto – Sostenuti dagli elicotteri NATO, i combattenti del Consiglio nazionale di transizione libico (CNT) sono entrati a Tripoli preceduti da forze speciali francesi, dai jihadisti del Gruppo islamico dei combattenti libici e da al-Qaeda. Secondo Natalie Nougayrède, della testata Le Monde, Nicolas Sarkozy descrive la sua campagna di Libia come il punto di svolta verso una nuova diplomazia. Il ‘regime siriano’ è nel suo mirino ed è una questione sulla quale, ha dichiarato, lo stesso affaire libico “avrà delle conseguenze” anche se “non vi è intenzione di fare interventi militari in ogni occasione (…). Bisogna agire nel rispetto della legalità internazionale, che solo l’ONU può garantire”. Detto in altre parole: le sanzioni e le operazioni clandestine dei nemici della Siria sono appena cominciate.

* Gilles Munier, segretario generale dell’associazione Amitiés Franco-Irakiennes è autore di diversi libri sul Vicino e medio Oriente.

Traduzione a cura di Giacomo Guarini

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La guerra fredda è davvero finita per gli Stati Uniti?

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Proprio alcuni giorni fa è ricorso il 10° anniversario dell’attacco terroristico alle Torri Gemelle. Tuttavia nel corso di questi 10 anni la politica estera degli Stati Uniti non sembra essere mutata di molto rispetto agli anni ’60, quando le teorie della modernizzazione di stampo rostowiano venivano orgogliosamente applicate alla politca estera statunitese. Oggi la USAID ovvero U.S. Agency for International Development sembra continuare ad essere la longa manus de cosiddettol ‘imperialismo civilizzatore’ di qualche decennio fa.

 

Il lupo perde il pelo…

La USAID nasce nel 1961 durante l’amministrazione Kennedy, sulla scia delle teorie rostowiane per la promozione dello sviluppo nei Paesi del Terzo Mondo. Emblema di tali teorie fu l’Alleanza per il Progresso. In parte ispirata dal successo del precedente Piano Marshall, l’Alleanza per il Progresso aveva l’obiettivo di promuovere una ‘sana’ modernizzazione nei Paesi dell’America Latina e rispondere, inoltre, all’esigenza di contrastare la diffusione dei regimi comunisti in un’area strategicamente importante per gli Usa. La rivoluzione castrista del 1959 e la conseguente caduta del regime di Fulgencio Batista ponevano una seria minaccia proprio alle porte degli Stati Uniti. E’ interessante notare come in quegli anni il regime di Castro sia stato il bersaglio di numerose iniziative di intelligence statunitenese volte al rovesciamento del regime. La ben nota crisi dei missili cubani del 1962 fu appunto la risultante di questo tipo di politica.

ma non il vizio

Oggi il programma della USAID a Cuba ha come obiettivi primari quello della promozione della democrazia e dei diritti umani, il rafforzamento della società civile, l’introduzione di tecnologie informatiche e la formazione di giornalisti ‘indipendenti’ in grado di scrivere articoli sulle difficili realtà dell’isola. Ma il 2011 è stato un anno particolarmente critico per gli Stati Uniti. La crisi economica, infatti, ha comportato diversi tagli alla spesa pubblica e in seguito ad una minore disponibilità di mezzi gli USA stanno cercando di ripensare e riadattare la propria leadership.

Le polemiche in effetti non sono mancate riguardo la richiesta di Obama di altri 20 milioni per finanziare la USAID e i suoi programmi anti-Cuba. E’ stato proprio il senatore John Carry, a capo della Commissione per le Relazioni estere del Senato a dichiarare, una volta per tutte, come tali fondi andassero a finanziare azioni contro il governo cubano, nonché programmi di intelligence. Parte della critica si è incentrata anche sull’uso di codici segreti e pseudonimi, sottolineando inoltre come non ci sia alcuna evidenza sul reale beneficio che tali iniziative comportino. La decisione di Kerry di sospendere questi fondi ha provocato dure critiche da parte senatore Bob Mènendez, noto per i suoi legami con la mafia cubano-americana. La decisione di Carry evidenzia, infatti, una tendenza della politica nordamericana a evitare i rischi di un overcommitment. La sua pretesa in quanto membro del Congresso, di ricercare una sorta di pragmatismo in questo tipo di politiche sembra voler indirizzare la politica statunitense verso una nuova attitudine, svincolata da vecchie logiche strettamente legate al concetto bipolare. L’arresto del contractor Allan P. Gross nel 2009 per aver introdotto illegalmente materiale e mezzi di comunicazione richiama subito alla mente gli eventi della Baia dei Porci. Quando gli Stati Uniti interferirono, allora come oggi, negli affari interni di un altro stato.

 

Residui di Guerra Fredda

Nel 1990 Alexeij Arbatov (consigliere di Gorbaciov) dichiarò agli Stati Uniti: “Vi infliggeremo il colpo più tremendo; vi priveremo del nemico”. Alla luce dei fatti, oggi, questa affermazione risulta particolarmente significativa. In seguito alla fine della Guerra Fredda e alla nascita di un nuovo sistema unipolare, gli Stati Uniti sono andati costantemente alla ricerca di una Grand Strategy e di un nemico attraverso i quali autolegittimare la propria esistenza e i propri valori. Basti pensare alla USAID o più semplicemente alla politica di Bush focalizzata sugli Stati canaglia. Perciò, nonostante la Guerra Fredda sia ufficialmente terminata con il crollo dell’Unione Sovietica, ufficiosamente essa continua da parte degli Stati Uniti tuttora con le stesse logiche di alcuni decenni fa, ma nei confronti di Cuba. L’unica differenza rispetto al passato risulta essere l’indiscusso squilibrio di potenza tra le parti.

Inoltre è importante evidenziare come con l’acuirsi della crisi economica e delle difficoltà interne, i progetti della USAID su Cuba siano il simbolo di una sempre maggiore incompatibilità tra la politica estera nordamericana e il consenso delle parti politiche interne. Infatti, stando alle teorie di Barry Posen, il gap di potenza tra gli Stati Uniti e il resto del mondo non ha precedenti nella storia, ma tuttavia è necessario sottolineare come la leadership nordamericana presenti comunque tutte le contraddizioni e le asimmetrie di un’egemonia affermatasi attraverso l’interdipendenza. La spendibilità quindi dell’hard power risulta notevolmente ridotta rispetto al passato e quella del soft power richiede necessariamente una rivisitazione.

L’imperialismo civilizzatore intriso di giustificazioni legate alla morale e una visione messianica del ruolo del proprio Paese all’interno del sistema internazionale continuano ad essere i leitmotiv di un attivismo globale e di una volontà di potenza, ai quali gli USA dovranno rinunciare non senza difficoltà.

Mark Twain affermava : “History doesn’t repeat itself but it does rhyme”. Non resta, perciò, che aspettare che la storia ci presenti le sue “rime” attraverso le quali sarà possibile tirare le somme di questo unipolarismo non privo di contraddizioni.

 

*Fabrizia Di Lorenzo laureanda in Scienze internazionali e diplomatiche – Università di Bologna

 

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Il significato geopolitico di Bushehr: D. Scalea al “Secolo d’Italia”

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Fonte: “Il Secolo d’Italia“, 13.09.11 (titolo di “Eurasia”)

 

Dopo 36 anni di tentativi falliti, allarmi e minacce, ieri, a Bushehr, l’Iran ha inaugurato la sua prima centrale nucleare. La reazione nella comunità internazionale è stata minima: nulla di paragonabile al clamore che ha accompagnato il programma atomico della Repubblica islamica negli anni e, in particolare, da quando al potere c’è Ahmadinejad.
Vi sarebbero precise ragioni geopolitiche, che si riassumono nel tentativo di allentare le tensioni con Teheran. Si tratterebbe di un’azione combinata e sottotraccia che coinvolge principalmente Usa e Russia. A spiegarlo è il segretario scientifico dell’Isag, l’Istituto di alti studi in geopolitica e scienze ausiliarie, Daniele Scalea. In quest’ottica, dunque, la presenza all’inaugurazione del ministro dell’Energia russo, Sergei Shmatko, e del capo dell’agenzia atomica russa, Sergei Kiriyenko, non era legata al solo fatto che sono loro a fornire le materie prime. «Da parte della Russia – ricorda Scalea – negli ultimi anni c’era stata una chiusura quasi totale verso il programma atomico iraniano, ora l’apertura della centrale rappresenta un’improvvisa accelerazione». A questo va aggiunta la proposta di Mosca di creare una sorta di reciprocità tra iraniani e comunità internazionale: a ogni passo compiuto da Teheran potrebbe corrispondere un alleggerimento delle sanzioni. Un approccio decisamente più soft dell’aut aut attuale, per cui o l’Iran accetta il pacchetto completo o non se ne fa nulla. Scalea mette in guardia sulle difficoltà di capire i russi fino in fondo, ma spiega che un aiuto per leggere il loro atteggiamento viene da Washington: «La mia impressione è che gli Stati Uniti non abbiamo più intenzione di spingere troppo sull’Iran, hanno i loro problemi interni e Obama è propenso ad allentare le tensioni». Dunque, l’accelerazione dei russi sarebbe il frutto di una strategia condivisa con la comunità internazionale. Dialogando con Teheran, Mosca starebbe facendo quello che nessun altro può fare, ma che tutti auspicano. «E va ricordato – prosegue Scalea – che loro forniscono il combustibile nucleare e poi se lo riprendano, in modo che non possa essere utilizzato a fini militari». In questo quadro, però, «c’è sempre chi potrebbe far saltare il banco». «Israele come la prenderà?», domanda lo storico ed esperto di geopolitica, ricordando che «in questo momento tra Tel Aviv e gli Stati Uniti ci sono forti divergenze di opinione anche sulla primavera araba e sull’appoggio di Washington alle correnti islamiste». «Gli Stati Uniti – conclude Scalea – cercano di chiudere il dossier iraniano, ma Israele potrebbe essere tentata di riaprirlo e, in quest’ottica, va anche letto il monito di Sarkozy su un attacco preventivo all’Iran». 
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La marcia su Fiume e la geopolitica italiana verso i Balcani dopo la Grande Guerra

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La notte dell’11 settembre 1919, anniversario del blitz con cui fece clamorosamente irruzione nella baia di Buccari, Gabriele d’Annunzio, assieme ad un pugno di volontari e soldati che si sarebbe irrobustito strada facendo, partì dalla località giuliana di Ronchi alla volta di Fiume, città del dissolto impero austro-ungarico abitata in maggioranza da italiani, i quali nelle tumultuose giornate che segnarono la fine della monarchia asburgica nell’ottobre 1918 avevano plebiscitariamente chiesto l’annessione all’Italia.

La conseguente Conferenza della Pace aveva, però, eluso tale appello, a prescindere dal fatto che nel Patto di Londra stipulato nell’aprile 1915 il capoluogo del Carnaro non era preso in considerazione, poiché era ritenuto lo sbocco al mare di un ridimensionato impero asburgico, la cui scomparsa era all’epoca imprevedibile. Sottoscrivendo quel Patto, l’Italia aveva abbandonato la Triplice Alleanza, stipulata e successivamente rinnovata con Germania e Austria-Ungheria a partire dal 1882: il giro di valzer portò il regno sabaudo a fianco dell’Intesa nella misura in cui Francia, Inghilterra e, obtorto collo, la Russia, pur vessillifera della nascita di uno Stato unitario slavo imperniato sulla Serbia, riconoscevano sulla carta un ampio piano di rivendicazioni territoriali che doveva costituire la base per l’espansione commerciale ed imprenditoriale italiana verso i Balcani e l’Oriente. Trieste, importantissimo porto dell’Impero asburgico, la Dalmazia con tutto il suo entroterra (pur con una componente di popolazione italiana minoritaria), l’Albania, nonché Smirne e altri territori provenienti dal previsto smembramento dell’Impero Ottomano, dovevano dare lo slancio per quel Drang nach Ost cui i precedenti alleati si erano opposti, essendo già loro stessi ben radicati politicamente nei Balcani (Vienna) ed imprenditorialmente in Anatolia (Berlino).

Nonostante l’uscita di scena della Russia zarista, la casa regnante serba dei Karageorgevic trovò negli Stati Uniti d’America e nella Francia i nuovi paladini in seno alla Conferenza della Pace per l’attuazione del progetto panslavista incardinato su Belgrado: necessariamente le rivendicazioni delle componenti croata e slovena che sarebbero state coinvolte nel nuovo soggetto statale andavano a cozzare con le aspettative italiane in Venezia Giulia e Dalmazia. Mentre la grancassa della propaganda nazionalista ed interventista cominciava a far risuonare lo slogan della “vittoria mutilata” a proposito di una mancata annessione di Fiume, Salvemini coglieva il paradosso per cui si invocava per il capoluogo del Carnaro il diritto di nazionalità, ma lo si negava in Dalmazia, per poi rispolverare il Patto di Londra per quanto riguardava la Dalmazia, omettendo però la parte che assegnava ad altri Fiume. Come nelle “radiose giornate di maggio”, Gabriele d’Annunzio fu uno dei protagonisti di questa fase propagandistica, tanto da venire avvicinato da elementi provenienti dai ranghi militari nonché dalla borghesia italiana di Fiume per prendere il comando di un colpo di mano che avrebbe portato all’annessione all’Italia della città, allora presidiata da un contingente interalleato in attesa che se ne definissero le sorti.

Si celavano tuttavia pure altri interessi dietro a questa facciata di retorica nazionalista che dipingeva l’insubordinazione dei reparti militari che avrebbero preso parte all’impresa come un episodio che si sarebbe collocato in continuum nella storia del processo unitario italiano con le imprese volontaristiche garibaldine, spesso avvenute in contrasto con le linee diplomatiche sabaude. Nella primavera di quel 1919, infatti, avevano circolato voci di un colpo di Stato militare che avrebbe coinvolto alti Generali, il Duca d’Aosta (comandante dell’Armata italiana che presidiava la Venezia Giulia in attesa della definizione del confine), Benito Mussolini (che da poco aveva fondato i Fasci di Combattimento) e Gabriele d’Annunzio, il quale si sarebbe tolto d’impaccio affermando il proverbiale “Ardisco, non ordisco”. Lasciando da parte la fondatezza delle notizie inerenti tale possibile golpe, è ben vero che l’Italia era uscita dalla Grande Guerra stremata, che il sacrificio di sangue tributato esigeva ora soddisfazione (le annessioni previste e le concessioni di terra prospettate ai contadini che erano stati arruolati) e che gli ampi poteri che la macchina militare aveva accentrato durante il conflitto erano ora difficili da abbandonare. In particolare in Trentino-Alto Adige, Venezia Giulia e Dalmazia le amministrazioni militari che si erano insediate continuavano a detenere di fatto il potere civile in attesa della sistemazione confinaria definitiva e non perdevano occasione per rimarcare la propria autorità nei confronti delle comunità allogene austriache, slovene e croate che si trovavano in numero non indifferente sotto la loro egida. In questi territori, oltre all’ideale risorgimentale di ricongiungere all’Italia anche le comunità italiane ivi residenti, molto forte era l’interesse strategico di giungere ad un confine militare sicuro, delineato dalla catena alpina (il Brennero in Alto Adige e le Alpi Giulie a est); era, invece, soprattutto la Marina a spingere per l’annessione del litorale dalmata al fine di rendere l’Adriatico un lago italiano, laddove l’Esercito si opponeva causa la difficoltà di presidiare quel territorio così impervio e frastagliato e con una componente croata e serba che avrebbe lottato continuamente per l’annessione al limitrofo Regno slavo.

Il complicato reinserimento dei reduci nella vita civile, inoltre, non riguardava solamente le migliaia di uomini di truppa, ma anche un cospicuo numero di ufficiali che non riusciva proprio a trovare una sua pacifica collocazione nelle strutture dello Stato liberale italiano. Soprattutto da questa componente giungevano spinte ad un’azione di forza che dimostrasse le irrequietezze che ribollivano all’interno del Regio Esercito e desse una spallata al governo Nitti tale da imprimere una svolta autoritaria alle sorti del Paese. Se l’opinione pubblica italiana aveva effettivamente preso a cuore la causa fiumana, nella città adriatica il sentimento di italianità era sicuramente ben radicato e nelle sparute comunità italiane di Dalmazia, dalle quali erano comunque partiti numerosi volontari che avevano combattuto nel Regio Esercito, soprattutto i più giovani, intrisi di ideali nazionalistici, auspicavano l’annessione a ogni costo, mentre la vecchia guardia del partito autonomista di matrice liberale rimaneva fedele alla linea diplomatica ed istituzionale che ne aveva caratterizzato da sempre la politica. Non mancavano neppure interessi da parte dell’imprenditoria triestina, la quale, vedendo oramai imminente l’annessione dello scalo giuliano all’Italia e dovendo quindi confrontarsi con una concorrenza portuale più ampia e robusta di quella cui era finora abituata, auspicava di mantenere in subordine rispetto alle proprie potenzialità almeno la vicina Fiume, una cui sorte in qualità di principale sbocco al mare del nascente stato slavo risultava inaccettabile. D’altro canto, coerentemente con quella che era linea politica di solidarietà nei confronti di Belgrado da parte del Presidente Woodrow Wilson, su Fiume porto del Regno dei Serbi, Sloveni e Croati scommettevano fortemente gruppi imprenditoriali statunitensi pronti ad avviare una linea marittima diretta.

In questa cornice d’Annunzio e i suoi presero possesso della città di Fiume la mattina del 12 settembre 1919, dichiarandone unilateralmente l’annessione all’Italia, trovando però in risposta l’imbarazzo della diplomazia sabauda e la sconfessione dell’operato da parte del Governo. L’entusiasmo che si era diffuso nel Regno a proposito dell’avventura era ampiamente compensato dai timori per una sedizione militare, cui davano adito le significative diserzioni a favore dell’iniziativa dannunziana da parte di soldati schierati in Istria e Friuli, per non parlare dell’aperta connivenza che le forze di Marina dislocate in Dalmazia dimostravano nei confronti di tale impresa, in primis il loro comandante, l’Ammiraglio Enrico Millo. Nitti indisse per novembre nuove elezioni, dalle quali, a scapito di nazionalisti, fascisti ed interventisti, uscirono rafforzati popolari e socialisti, vale a dire i maggiori oppositori degli exploit di d’Annunzio e dei suoi sostenitori, sicché il progetto golpista, che già nelle giornate successive alla trionfale entrata del poeta abruzzese a Fiume aveva mostrato di non avere abbastanza forza per attuarsi, poteva ritenersi completamente fallito.

L’annessione della città adriatica continuava ad essere fortemente osteggiata dalle Grandi Potenze, sicché si cercò di giungere ad un modus vivendi che, rispolverando le ampie autonomie di cui Fiume godeva in epoca asburgica (corpus sepratum facente capo direttamente a Budapest), garantisse l’esistenza di una Città Libera pur nell’orbita italiana. Dopo tre mesi in cui la città era rimasta sostanzialmente isolata, la popolazione fiumana era pronta ad accettare tale soluzione, ma un colpo di mano da parte degli elementi più scatenati dell’entourage dannunziano rovesciò gli esiti del plebiscito che avrebbe dovuto ratificare l’accordo ed il Vate, che era stato investito dei pieni poteri militari fin dal suo ingresso nella “città olocausta”, decise di continuare la sua avventura fino all’annessione. Gli elementi moderati, di sentimenti nazionalisti, monarchici e provenienti soprattutto dai ranghi militari e che fino ad allora avevano diretto la linea politica della spedizione, passarono in secondo piano, lasciando la ribalta ai cosiddetti “scalmanati”, i quali avrebbero impresso all’impresa una svolta a sinistra del tutto inattesa. Nei mesi seguenti molti ufficiali, carabinieri, ma anche soldati semplici avrebbero fatto rientro nella fila dell’Esercito, aderirono invece al laboratorio politico fiumano giovani alla ricerca di avventure che vedevano nel capoluogo del Carnaro un luogo di esuberanza e di ribellione, ma anche alcuni esponenti della sinistra italiana riconobbero un certo credito al nuovo corso dannunziano. Il sindacalista rivoluzionario Alceste De Ambris avrebbe di fatto stilato la Carta del Carnaro, la Costituzione che si sarebbe data la città di Fiume per proclamarsi indipendente nel settembre del 1920 in attesa dell’annessione(1); Nicola Bombacci, il quale di lì a qualche mese avrebbe abbandonato il partito socialista per aderire al nascente Partito Comunista d’Italia, aveva da subito riconosciuto un apprezzabile carattere rivoluzionario all’avventura del poeta abruzzese, sostenendo peraltro che pure Lenin fosse di tale avviso; il sindacalista marittimo Giuseppe Giulietti, infine, dette un sostegno anche concreto all’iniziativa, dirottando sul porto adriatico un bastimento pieno di armi. Brandendo la Carta del Carnaro come punto di riferimento per un programma di grandi innovazioni sociali e libertarie, costoro auspicavano di espandere la fiamma rivoluzionaria da Fiume in tutta Italia, ma la componente nazionalista e bellicista che aleggiava comunque sulle rive del Carnaro non consentiva di raccogliere ampi consensi all’interno della sinistra italiana, strenuamente pacifista. Altrettanto velleitaria fu l’iniziativa della Lega di Fiume, studiata come un consesso capace di riunire tutti popoli oppressi del mondo e le cui aspettative non trovavano soddisfazione all’interno di quella Società delle Nazioni che stava prendendo corpo in seno alla Conferenza della Pace di Parigi(2).

D’Annunzio non aveva in effetti tagliato del tutto i ponti con i “moderati”, i quali ed in particolare Giovanni Giuriati, ex Capo di Gabinetto di d’Annunzio, erano fin da principio bene ammanigliati con ambienti del Ministero degli Affari Esteri piuttosto che con i vertici militari; costoro adesso facevano la spola tra Roma e Fiume, sfruttando quest’ultima come punto di riferimento per i movimenti separatisti che cominciavano a delinearsi all’interno dello Stato slavo (soprattutto croati, montenegrini, albanesi del Kosovo, ungheresi di Vojvodina e macedoni). Il Vate stesso, dando il benservito ai suoi collaboratori che maggiormente si erano adoperati riguardo al progetto della Lega di Fiume, decise nella primavera del 1920 di puntare tutto sui cosiddetti “intrighi balcanici”, al fine di rilanciare l’azione militare e capeggiare una nuova spedizione che consolidasse la presenza italiana in Dalmazia ed avviasse lo sgretolamento del regime dei Karageorgevic in una serie di staterelli che sarebbero stati facilmente assorbiti nell’area d’influenza politica e commerciale italiana. Era questo un piano che vedeva interessati anche esponenti della finanza e dell’industria italiana (Senatore Borletti ed Oscar Sinigaglia), i quali però non riuscirono a raccogliere i denari che un progetto simile richiedeva, mentre nel frattempo le truppe italiane erano costrette da un sommovimento popolare ad abbandonare Valona, avamposto per il radicamento in Albania, e la diplomazia invece procedeva. Attraverso le rispettive ambasciate a Vienna, Roma e Belgrado stavano addivenendo ad un accordo: le trattative nascevano dal timore serbo che i movimenti indipendentisti che stavano ruotando attorno al caposaldo fiumano fossero veramente in grado di sgretolare la giovane e fragile compagine statale e ricevettero un’accelerata dall’uscita di scena del Presidente Wilson, strenuo sostenitore delle istanze serbe ma sconfitto alle elezioni presidenziali del novembre 1920. Il conseguente trattato di Rapallo accolse le rivendicazioni italiane sulla Venezia Giulia, mentre in Dalmazia solamente l’enclave di Zara (effettivamente l’unica città ancora abitata in maggioranza da italiani) ed alcune isole sarebbero state annesse: nonostante le dichiarazioni al limite dell’insubordinazione diffuse dai comandi italiani in Dalmazia nei mesi precedenti, i contingenti abbandonarono disciplinatamente le posizioni che venivano a trovarsi al di là del nuovo confine.

D’Annunzio si trovò così da solo con i suoi ultimi fedelissimi (le venature repubblicane della Carta del Carnaro ed un progetto di riforma dell’esercito in senso democratico gli avevano alienato l’appoggio di quasi tutti gli ultimi ufficiali e moderati rimasti a Fiume) a fronteggiare le cannonate con cui le truppe italiane per ordine di Giolitti, nuovamente capo del governo, costrinsero la Reggenza Italiana del Carnaro ad ammainare i propri vessilli al termine del cosiddetto “Natale di sangue”, affinché potesse instaurarsi quello Stato Libero di Fiume che era stato definito nell’ambito del Trattato di Rapallo.

Questo piccolo Stato fiumano avrà vita breve, venendo spartito già nel 1924 (Fiume all’Italia, Sussak al Regno dei serbi, sloveni e croati), ma l’avventura fiumana aveva tracciato due direttive che negli anni seguenti avrebbero contraddistinto la politica estera italiana nei confronti del Regno confinante. Innanzitutto si sarebbe fatto sistematicamente ricorso ai movimenti separatisti slavi nei momenti in cui i rapporti fra Belgrado e Roma si raffreddavano, al fine di destabilizzare il fragile vicino; secondariamente si sarebbe tentato di assorbire nella propria sfera di influenza commerciale la penisola balcanica, ma i capitali italiani si trovarono sempre sopravanzati dagli investimenti francesi prima e da quelli germanici a partire dall’aprile 1941, allorché la Jugoslavia si sarebbe dissolta in seguito all’attacco militare italo-tedesco.

 

Note:

  1. per i contenuti della Carta del Carnaro vedi il saggio di Lorenzo Salimbeni La Carta del Carnaro fra irredentismo e sindacalismo rivoluzionario su Eurasia XXIII Geopolitica e Costituzioni
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Destabilizzazione interna ed intervento NATO. Dal Kosovo alla Libia, Conferenza a Benevento

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L’Associazione culturale “Millennium” organizza
la conferenza

“Destabilizzazione interna ed intervento NATO. Dal Kosovo alla Libia”.

Interviene Stefano Vernole, giornalista e redattore della rivista di studi geopolitici Eurasia, coautore de “La lotta per il Kosovo”.

L’evento si terrà il 24 settembre 2011, alle 18:00, presso il Centro di cultura Raffaele Calabrìa, Piazza Orsini, Benevento.

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Loretta Napoleoni: “L’Italia faccia come l’Islanda, scelga il ‘default pilotato’ ed esca dall’euro”

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NOTA: “Eurasia” non si assume alcuna responsabilità riguardo la correttezza dei dati riportati nell’articolo qui riprodotto

Fonte: “Tiscali

“Sa che potrebbe essere il giorno in cui la Grecia andrà in bancarotta?”. Curioso che il libro di Loretta Napoleoni, economista e consulente di terrorismo internazionale, compaia proprio oggi in libreria. Un testo, Il contagio (edito da Rizzoli), che fotografa l’attuale situazione internazionale nella quale anche l’Italia di qui a poco potrebbe trovarsi – drammaticamente – ad essere protagonista. L’esigenza (leggasi l’urgenza) è quella di uscire dalla fase del “non ritorno”. Come? La soluzione c’è, dice Napoleoni: l’Italia, d’accordo con l’Europa, scelga il “default pilotato”. Il resto è puro accanimento terapeutico che rischia semplicemente di procrastinare una situazione rischiosa non solo per il nostro Paese ma per l’intera zona euro.
Professoressa, significa che l’Italia come altri Paesi cosiddetti “Piigs” dovrebbe fallire?
“Il problema dell’euro è che, a livello europeo, non esiste né un protocollo né una regola per l’uscita temporanea o permanente di uno Stato dalla moneta unica. Il che significa che la Grecia, ma anche gli altri paesi Piigs come l’Italia sono in balia dei sentimenti del mercato, per quanto riguarda il mantenimento del proprio debito. Significa che se i mercati, come sta succedendo con la Grecia, improvvisamente decidono che questi Stati non sono in grado di ripagare il debito, non c’è una regola su come uscire. Cioè, l’euro non può andare in bancarotta se la Grecia va in bancarotta. Ecco perché parlo di un default volontario pilotato e della creazione di una serie di regole che permettano ad alcuni paesi di uscire temporaneamente dall’euro per riprendersi economicamente, anche in termini di convergenza, tornando entro quei parametri necessari per starci dentro. Seguire insomma l’esempio dell’Islanda che ha fatto un default pilotato e volontariamente è uscita dal mercato dei capitali, ha cioè dichiarato il default e si è messa al lavoro per ripianare i debiti”.
Un caso che sembra rimanere isolato.
“Sì, infatti. Si pensi all’Argentina che è andata in default da un giorno all’altro perché i mercati hanno girato le spalle. L’Islanda però ha una situazione migliore dell’Italia perché non ha l’euro come moneta. E il problema è proprio questo. Nel senso: come usciamo dall’euro? Come possiamo staccarci senza creare un terremoto all’interno di tutta l’Europa? Barroso ha detto: mantenere l’euro è una lotta di sopravvivenza per tutti i Paesi. E ha ragione. Infatti nelle ultime tre settimane in Germania e anche in Olanda dentro le banche si lavora per produrre una proposta, una legislazione che permetta di uscire dalla moneta unica”.
Cosa succederebbe all’Italia se optasse per il default volontario?
“Se facesse quello che ha fatto l’Islanda, un’uscita pilotata dall’euro, succederebbe che l’Italia dovrebbe garantire la metà del debito nazionale che è nelle mani degli italiani e delle banche italiane, cioè 2.850 miliardi di euro. Questo si può fare con una patrimoniale secca che colpisca con un 5 per cento su quell’1 per cento della popolazione, cioè quelle 70 famiglie che detengono da sole il 45 per cento della ricchezza nazionale. Basterebbe questo per garantire il debito interno. Dopodiché per quanto riguarda il debito esterno, quello che è in mano alle banche straniere, su quello bisognerà fare una ristrutturazione. Si rinegozia come è successo per esempio a Dubai. Io ti pago 45 centesimi per ogni euro e si stabilisce un programma di pagamento nei prossimi 5 o 6 anni e mano a mano si paga. Dopodiché l’uscita dall’euro permetterebbe di tornare alla lira che si svaluterebbe immediatamente dando una spinta alle esportazioni e più competitività”.
Perché allora tutto ciò non avviene?
“Perché è una decisione che deve essere presa di concerto con il resto dei paesi europei. Ma è difficile che avvenga perché se l’Italia decide di fare il default pilotato c’è il problema delle banche francesi che hanno una grandissima esposizione nei nostri confronti. L’uscita dell’Italia dall’euro senza un supporto da parte delle altre nazioni, per quanto riguarda le loro economie e le loro banche, potrebbe causare il crollo degli istituti di credito. Quindi la situazione è complessa, però non così complessa da non poter essere risolta. Serve un accordo a livello europeo, ma neanche se ne parla”.
Una questione lessicale: il “debito pubblico” adesso si chiama “debito sovrano”. E’ curioso che questo avvenga proprio quando gli Stati sono più in balia della speculazione dei mercati.
“Il fatto che gli Stati siano in balia dei mercati è una percezione sbagliata e di propaganda. I mercati hanno fatto il loro mestiere. Anzi in un certo senso i mercati sono stati spinti dagli Stati ad acquistare, almeno negli ultimi 12 mesi, i titoli del debito sovrano che non valgono nulla. E non parlo solo dei titoli italiani, ma anche degli altri, vedi i titoli francesi: rendimenti pari a zero. Quindi c’è una sorta di accordo degli Stati con le banche, secondo cui tu compri i miei titoli anche se guadagni zero ed io prometto che ti proteggerò dal crollo dell’euro. Cioè esiste una condizione di mutua convenienza però relativa a una tragedia. Quindi io non direi che la colpa è dei mercati e degli speculatori.
E allora di chi è?
“Dei politici che hanno permesso la creazione di un sistema di questo tipo e loro stessi hanno abusato di questa situazione. Quindi oggi il cittadino dovrebbe essere indignato, come accade in Spagna, non con i banchieri ma con i politici”.
Nel suo libro scrive che “il malessere del modello occidentale è ormai una pandemia”. Dagli Indignados in avanti il “contagio” è inevitabile?
“Sì. Per esempio si prenda una situazione tipo quella dell’Italia, che vende parti del Paese ai cinesi. E i cinesi mica vengono gratis. Il premier quindi vende invece di tassare quelle 70 famiglie che dovrebbero farsi carico della soluzione del problema: ecco questo dovrebbe far indignare la popolazione. Perché si parla della mia vita, della mia democrazia. Poi non è solo Berlusconi, chiariamolo questo. Tutti i Paesi europei vengono gestiti in questo modo. Tutti i politici europei oramai governano come se la democrazia fosse una loro impresa. Si dimenticano la voce del popolo. Noi siamo molto vicini ai fratelli africani, come scrivo nel libro. Loro si sono  ribellati a un malgoverno dittatoriale. Le nostre non sono forme di governo dittatoriali, però sono delle oligarchie quindi tutti ci indigneremo a poco a poco. E’ inevitabile”.
Eppure noi motivi per indignarci ne avremmo già abbastanza. Perché allora fino ad oggi Spagna, Israele, Gran Bretagna sì e Italia no?
“In Italia non c’è ancora la consapevolezza. Lo spagnolo negli ultimi dodici mesi ha progressivamente preso sempre più consapevolezza della situazione economica. E questo perché c’è stata una degenerazione della situazione economica: in Spagna siamo al 43 per cento della disoccupazione giovanile e inoltre gli spagnoli hanno un senso civico più attento del nostro. La vicinanza storica con il franchismo è importante: loro apprezzano di più la democrazia e ci credono di più, sono meno cinici. E capiscono anche che per mantenerla in piedi bisogna difenderla attraverso la voce della strada che è l’unica che il popolo ha. Ma oggi la crisi economica è arrivata anche in Italia e le misure di austerità che ha preso Zapatero le prenderà anche il nostro governo. Insomma, c’è un ritardo temporale relativo proprio alla consapevolezza”.
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Gilles Munier sull’opposizione siriana

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Che succede in Siria?
Breve sguardo sull’opposizione siriana

Martedì 6 settembre 2011-09-15

Intervista concessa da Gilles Munier, il 3 settembre 2011, dopo la pubblicazione del suo “diario di viaggio Damas-Hama” (1). Domande poste da Denis Gorteau del sito Que faire. (2)

Denis Gorteau: tutti sono d’accordo nel dire che le riforme sono tardate in Siria. Cosa avrebbe dovuto fare Bachar al-Assad per evitare l’attuale crisi?

Dal momento del suo arrivo al potere, il presidente Assad avrebbe dovuto fare ciò che egli fa oggi. A quel tempo era sua intenzione. Adesso, egli dà l’impressione di proporre delle riforme con il coltello alla gola, e l’opposizione ha colto l’occasione per fare delle proposte ed i paesi occidentali gettano olio al fuoco. Ma, qualunque sia il motivo, ci si aspettava una crisi in Siria l’ennesimo tentativo di destabilizzazione. L’amministrazione Obama, come quella di G W Bush, vuole rimodellare il Vicino Oriente, ciò vuol dire smantellare gli Stati creati dalle grandi potenze dopo la Prima guerra mondiale con le spoglie dell’Impero Ottomano. Questo passa per ciò che gli ideologi mondiali chiamano un “caos costruttivo e controllati”. Dal disordine provocato, non ne uscirà né l’uno né l’altro, come nel caso di Iraq e Libia. Ciò importa poco ai gruppi capitalisti mondiali che conducono il gioco, per loro l’importante è controllare le risorse naturali del pianeta ed occupare delle posizioni strategiche – la Siria ne è una – nella prospettiva di futuri conflitti.

Denis Gorteau : Senza sottovalutare le qualità del Presidente, la Siria non è un paese retto da una piccola minoranza privilegiata come in Egitto o in Tunisia prima delle rivolte ?

In tutti i paesi ci sono dei privilegiati, a cominciare dalla Francia con gli amici di Sarkozy. È ciò che Michel Poniatowski, ministro dell’interno del Presidente Giscard D’Estaing, chiamava « amici e nemici ». Gli Stati Uniti che si autoproclamano « la più grande democrazia del mondo » non mancano dei privilegiati, per non dire profittatori senza vergogna. La cerchia di G W Bush ne era farcita. Lo si sono visti all’opera in Iraq. Perchè volete che la Siria faccia un’eccezione ? L’importante in un paese è anzitutto e sopratutto il tenore di vita dei suoi abitanti, poi la sicurezza, l’educazione, la salute…E’ tutto quello che gli Occidentali vogliono ridurre. La corruzione è sostenuta dalle imprese occidentali. Essa mina non solo la fiducia dei cittadini verso le loro istituzioni ma mina la sicurezza dello Stato. Corrompere qualcuno con una buona posizione consente di tenerlo al guinzaglio e di farne una fonte d’informazione. Quando egli non serve più, lo si può gettare in pasto all’opposizione.

Ma, siamo chiari…parlando di “minoranza privilegiata”, voi pensate può essere agli Alawiti, comunità religiosa alla quale appartiene la famiglia al-Assad. Perché vorreste, ancora una volta, che la Siria faccia eccezione? In tutto il mondo, le minoranze hanno la tendenza a fare blocco, a privilegiare i loro membri. Nei paesi occidentali, i musulmani non sono ancora organizzati in gruppi di pressione, ma è il caso – insieme ad altri – dei giudei, evangelisti, o dei cattolici (gli Stati Uniti, per esempio). In Siria non ci sono che degli Alawiti – circa il 12% della popolazione – ai posti di responsabilità, anche se sono numerosi. Essi non sono tutti baasisti d’altronde, e tra quest’ultimi non tutti sostengono Bachar al-Assad. Io non penso che si possa dirigere un paese come la Siria senza stabilire un saggio e giusto equilibrio tra le differenti comunità religiose e gruppi etnici che lo compongono.

Denis Gorteau : sembra chiaro che i gruppi armati hanno deliberatamente condotto la politica al peggio in applicazione della legge, ma la maggior parte delle manifestazioni non furono pacifiche e popolari ?

Ciò che sta succedendo in Siria è stato preparato per porre fine alle rivolte che, dopo la Tunisia e l’Egitto, rischiavano di importare altri regimi filo americani. A Deraa, i manifestanti erano, in stragrande maggioranza delle persone pacifiche. Le loro richieste erano legittime, ma esse avrebbero potuto essere espresse in altro modo. Quando degli agenti provocatori infiltrati nei cortei hanno sparato alle forze dell’ordine, queste ultime hanno replicato come fanno in tutto il mondo. L’armata e la polizia non sparano per piacere sul proprio popolo. In seguito c’è stato un problema di cambio, rivolte, saccheggi. Ci sono state molte morti da entrambe le parti…troppo. Quando uno dei vostri genitori è stato ucciso e Al-Jazeera, nuova portavoce della NATO, afferma che è stato assassinato dal regime voi non pensate che a scendere in strada e a vendicarvi. Reclamate il “prezzo del sangue”. Bachar al-Assad ha annunciato che delle inchieste saranno avviate, che “tutti coloro che hanno commesso un crimine contro un cittadino siriano, che esso sia civile o militare, renderà conto”. Ma è ancora possibile visto il numero delle vittime?

Denis Gorteau : Chi compone l’opposizione siriana ?Qual è la posizione dei comunisti ? Dei fratelli musulmani ?

Non sono un esperto dell’opposizione siriana, ma credo sia necessario fare la differenza tra l’opposizione esterna spesso tagliata fuori dalla realtà del paese, e l’opposizione interna. All’estero, delle personalità e dei piccoli gruppi si riuniscono, formano dei coordinamenti, firmano dei manifesti, aprono delle pagine Facebook. Stiamo assistendo ad una battaglia di leaders. Nel mese di agosto una Istanza generale della rivoluzione siriana dichiarante raggruppare 44 gruppi e comitati di coordinamento, ha stimato che la proliferazione d’organismi e di riunioni nuoce all’immagine dell’opposizione, e dei Comitati locali di coordinamento hanno reso pubblica una Dichiarazione del popolo siriano mettendo in guardia contro gli appelli alle armi o ad un intervento straniero lanciati da alcuni contestatori. Ultimamente, degli oppositori hanno creato un Consiglio nazionale di transizione (CNT) ! Essi hanno eletto come loro Presidente, senza consultarlo, Burhane Ghalioun, professore di sociologia politica alla Sorbonne. L’intellettuale che diffida BHL come la peste, ha firmato lo scorso luglio un appello domandando al pseudo filosofo di « risparmiarsi il suo sostegno ». Trova anche che chiamare CNT la nuova organizzazione è di più di cattivo effetto.

A sinistra, le comunità siriane sono divise in due o tre tendenze concorrenti. Una di loro, membro del Fronte nazionale progressista raggruppano notamente il partito Baas, i Nasseriani e il partito social nazionalista siriano (fondato da Antoun Saadé), dichiara che bisogna « ascoltare le rivendicazioni popolari, promuovere delle riforme democratiche, rifiutare le manipolazioni esterne ». Una delle figure storiche del PC siriano essendo avanzato verso idee più liberali, Riad al-Turk – 79 anni, totalizzante 17 anni di prigione – supporta anche le richieste dei manifestanti. Nel 2005, egli reclamava « un cambiamento democratico e radicale » di modo « pacifico e graduale ». Egli trova che le riunioni organizzate « in fretta » all’estero non sono utili nella fase attuale e il carattere islamico che prevale « non è in sintonia con la diversità della società siriana ».

I Fratelli musulmani sono la principale forza d’opposizione all’estero. Essi sono più radicali dei loro omologhi egiziani e molto ambiguo. L’opposizione laica li teme. In agosto, essi hanno creato un Consiglio nazionale ad Instabul. Obiettivo: aumentare la pressione sul regime baahtista e distruggerlo. Essi sono sostenuti dalla Turchia e senza dubbio da Saad Hariri. Nel 2006, dei documenti pubblicati da WikiLeaks rivelarono che Hariri esortava la « comunità internazionale » a isolare Bachar al- Assad ed ha chiesto la sua sostituzione con un’alleanza comprendente i Fratelli musulmani, ed ex funzionari siriani come l’ex vice presidente Abdel Halim Khaddam, un rifiugiato a Parigi. Il quotidiano Al-Akhbar ha accusato uno dei suoi parenti di finanziare i movimenti di protesta. Oggi, non sembra più avere importanza per i Fratelli musulmani di partecipare a delle elezioni democratiche comprendenti il partito Baas e i comunisti, come si augurava nel 2005 Issam Al-Attar, il loro ex leader rifugiato ad Aix-la-Chapelle.

La politica attuale del « tutto o niente » dei Fratelli musulmani e di una parte dell’opposizione siriana è pericolosa per l’avvenire della Siria. La NATO aspetta soltanto un’occasione per distruggere il paese nel nome dei diritti dell’uomo e della protezione dei civili. E’ anche ciò che si augurano gli estremisti di Al-Qaida nel Cham o di Jund al-Cham, ma in nome della loro interpretazione del Corano o degli ordini ricevuti altrove.

Traduzione dal francese a cura di Silvia Starrentino

(1) Gilles Munier, La Siria nel mirino della NATO, http://www.eurasia-rivista.org/la-siria-nel-mirino-della-nato/11144/

(2) http://quefaire.e-monsite.com/rubrique,g-munier-parle-mars-2011,369230.html

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